Poltronavirus 1. Può esistere un populismo di sinistra?
di NICOLA R. PORRO ♦
La letteratura in materia di populismo è sterminata. Non c’è da stupirsene: le insorgenze populiste hanno segnato in tutto l’Occidente un passaggio d’epoca. Esaurita la stagione dei partiti di massa, venute meno le fratture ideologiche ispirate ai blocchi politico-militari del dopoguerra, affermatosi un modello di globalizzazione che depotenziava i classici conflitti fra Stati Nazione generandone di totalmente inediti, la questione populista ha finito per rappresentare l’oggetto principale della ricerca politologica. Le analisi più recenti non brillano per originalità, ma mi sento di segnalare dalla mia poltrona il saggio di un politologo francese, Éric Fassin, pubblicato recentemente in versione italiana[1]. È un lavoro agile che si concentra sin dal titolo su una sola tipologia – quella del cosiddetto “populismo di sinistra” – per porre una domanda semplice quanto cruciale: è possibile una rigenerazione della sinistra attraverso una forma progressista di populismo? Inutile sottolineare quanto la questione interpelli il caso italiano. Da noi il Movimento Cinque Stelle si trova al governo con le forze della sinistra tradizionale dopo avere diviso il potere con una destra sovranista e xenofoba, quella “salviniana”, anch’essa per molti versi assimilabile al paradigma populista. Dico subito che l’ipotesi di arruolare segmenti dei movimenti populisti nelle file della sinistra è del tutto estranea all’orizzonte di Fassin. Un possibile populismo di sinistra o un’intesa strategica – come quella vagheggiata in Italia da qualche leader Pd – con i populismi non dichiaratamente xenofobi, razzisti o sovranisti, gli appare una pura contraddizione in termini. A parere di Fassin, insomma, non è frugando nella cassetta degli attrezzi del populismo che si troveranno strumenti idonei a combattere un’egemonia neoliberista ormai consolidata.
Recensendo il volume per l’edizione online del Mulino[2], Marco Damiani ritiene però che l’intransigenza di Fassin risenta più della sua matrice sociologica che di un pregiudizio politico da vecchia sinistra. Occupandosi delle minoranze razziali e sessuali e delle problematiche di genere, la sua critica gli sembra soprattutto rivolta, per interposta persona, a quella sinistra socialdemocratica che in Europa occidentale condivide responsabilità di governo. Alla pari di Fukuyama o di altri teorici conservatori, tanto i laburisti britannici quanto i socialdemocratici tedeschi e i socialisti francesi, spagnoli e greci si sarebbero resi responsabili, agli occhi di Fassin, di una falsa equazione ideologica. Avrebbero cioè identificato il crollo del Muro, lo sgretolamento del blocco sovietico e la fine del comunismo di Stato con la “fine della Storia” tout court facendo coincidere il trionfo della democrazia con l’affermazione della “ragione neoliberista”. Ciò avrebbe indotto un fenomeno di “depressione del militante”. Spogliati delle antiche certezze, militanti ed elettori della sinistra si sarebbero sentiti spettatori nudi e inerti di una storia loro estranea. Una strisciante crisi di identità li avrebbe così allontanati silenziosamente da quei processi d’inclusione e di partecipazione cui aveva dato vita nel corso del Novecento la pedagogia sociale del movimento operaio.
Incapaci tanto di elaborare politiche alternative a quelle ispirate alla filosofia del mercato quanto di far propria la cultura dei nuovi diritti in presenza di sfide epocali – le migrazioni, le rivolte di genere, la questione ambientale e la rivoluzione digitale – , i progressisti al governo si sarebbero resi indistinguibili rispetto alle forze conservatrici. La governancee le strategie delle sinistre si sarebbero anzi rassegnate a mutuare quell’acronimo “Tina” (There Is No Alternative) che già negli anni Ottanta aveva riassunto in sé la ferocia apologia della Realpolitik di Margaret Thatcher.
Fra l’ultima decade del Novecento e la prima del Duemila, la marea montante dei nuovi populismi aveva manifestato come tratti comuni – in una caleidoscopica varietà di casi – l’opposizione all’establishment dominante e alla “classe politica”. Giudicata in blocco e senza distinzioni come la sola responsabile del diffondersi del disagio economico e sociale esasperato dalla crisi del 2008-2009. La figura eponima è per Fassin rappresentata da Trump. Personaggio impresentabile secondo le tradizionali categorie della politica, il suo successo rappresenterebbe la prova di una inquietante metamorfosi non solo della politica Usa ma del “discorso pubblico” della tarda modernità. Trump, l’”intruso populista”, ha infatti saputo abilmente coniugare la rocciosa difesa del neoliberismo e il dilagante risentimento popolare contro le classi dirigenti, facendo sì che il discredito gettato sulla “classe dirigente” statunitense colpisse indiscriminatamente tutti i leader democratici dell’Occidente. Osserva Fassin che questa acrobatica operazione di cattura del consenso è perfettamente coerente con la versione reazionaria dei populismi. Mescolando tutela degli interessi monopolistici, benefici fiscali per i più abbienti, isolazionismo nazionalista e retoriche patriottarde compone però necessariamente un menu indigeribile per un immaginario “populismo di sinistra”[3].
FOTO 5 POPULISTI
Il cuore del problema, nient’affatto astratto e terminologico, risiede infatti per Fassin, come per Laclau[4], nella controversa nozione di “popolo”: “… questo popolo – scrive Fassin – non si riduce agli strati popolari, non potrebbe essere definito meccanicamente dall’interesse di una né persino di più classi, perché le trascende” (p. 64). A descrivere questa entità astratta – e tuttavia capace di materializzarsi nel voto se efficacemente mobilitata da una propaganda che semplifichi, banalizzi e drammatizzi elementi obiettivi di disagio – sarebbe piuttosto quella che Laclau chiama “ragione populista”. Essa opera per alterazione e sostituzione: il popolo è privato di qualunque consistenza sociologica (peraltro assai difficile da definire correttamente e in forma univoca) così come la nozione di “classe sociale” è depurata di ogni valenza politica. In sostituzione, la ragione populista si affida alle cosiddette “catene di equivalenza”. Cosa sono queste misteriose “catene di equivalenza”? Sono quei legami fittizi che istituiamo nella nostra mente simulando forme di aggregazione capaci di unificare le più disparate domande sociali. Il populismo è una forma di illusionismo capace di simulare una sintesi credibile di istanze diverse e apparentemente incompatibili generando comunità immaginate, secondo la felice intuizione di Benedict Anderson[5]. Se si pensa al caso italiano, gli esempi abbondano. Il grillismo di opposizione poteva tenere insieme no vax e giustizialisti, no tap e cultori delle scie chimiche, simpatie xenofobe e pauperismo, antieuropeismo e idolatria della rete, gerarchie leaderistiche e democrazia diretta. Tutto buono per mietere consensi elettorali a buon mercato in una fase di obiettivo stallo dell’offerta politica. I problemi sarebbero venuti dopo, quando l’esperienza di governo avrebbe costituito per il Movimento un’impietosa prova del budino
Solo in una simile prospettiva, del resto, è possibile immaginare nel caso italiano un governo di coalizione, quello gialloverde, fra due populismi: uno assimilabile alla destra radicale e l’altro ispirato a un plebeismo anti-casta di incerto e variegato profilo ideologico. Un’operazione di puro illusionismo, consistente nel rivolgersi di volta in volta a un segmento diverso di “popolo” e nel cavalcarne gli umori del momento, solleticati da un fatto di cronaca o fotografati dall’ultimo sondaggio. Tecnica del consenso che non ha niente a che fare con la capacità di esercitare il governo. Perché il paradosso populista sta proprio qui, nel demonizzare il potere per conquistare il potere, nell’esorcizzare la casta per sostituirla con un’altra casta. I leader populisti galleggiano – non sempre con successo – nella melassa culturale delle rispettive “catene di equivalenza”. Quella del leader populista è sempre una recita che sconfina nel surreale. Si può abolire la povertà per decreto o esigere la soppressione della burocrazia con effetto immediato. Una leggiadra improntitudine che può tingersi indifferentemente, secondo le convenienze e secondo la “catena” attivata in quel momento, del lessico e degli umori tanto della vecchia sinistra quanto della vecchia destra. Il populismo di ogni colore aspira a esercitare un potere contro ma alla “ragione populista” è del tutto estranea qualunque idea di innovazione del pensiero politico. La povertà culturale dei leader populisti, specialmente quelli italiani, riflette senza dubbio un generale declino del ceto politico, ma svela anche un fondo limaccioso di anti-intellettualismo ricorrente in tutti i totalitarismi del Novecento.
Per Fassin il populismo di sinistra rappresenta dunque una contraddizione in termini. Non c’è infatti nulla di più ideologico e di meno pluralista del tentativo di depotenziare l’opposizione destra/sinistra che da due secoli presiede al conflitto politico e alla dialettica democratica dell’Occidente. Essa esprime valori, interessi sociali e alternative rappresentazioni del futuro che hanno il diritto e il dovere di confrontarsi rispettando le regole della democrazia. Il trasformismo si attaglia invece perfettamente al modello populista, come dimostra in Italia il caso del governo Conte-I[6]. Il tentativo di liquidare l’opposizione fra conservatori e progressisti, fra destra e sinistra, per sostituirla con quella fra alto e basso o fra popolo (immaginario) ed élite (indefinibile), ha accompagnato dovunque l’avanzata delle destre e del modello neoliberista nell’Europa del dopo Muro. Persino l’esempio a prima vista più affine al paradigma del populismo di sinistra, cioè la spagnola Podemos, non regge alla verifica dei fatti. L’attenzione ai diritti civili e il rispetto delle minoranze – al netto di una buona dose di folclore movimentista – sono certo maggiori in Podemos che nel M5S italiano[7]. Ciò non basta tuttavia a colmare la distanza dai problemi del lavoro e a superare una rappresentazione propagandistica delle politiche di welfare. Certo, in Podemos si esprime un “populismo inclusivo” di cui è del tutto priva la versione cinquestelle, a metà strada fra le logiche “esclusive” della destra radicale – per la quale, ad esempio, i migranti non possono appartenere al popolo – e le posizioni “tolleranti” del pensiero neoliberale. Nemmeno è facile istituire una somiglianza con il caso di France Insoumise, il movimento fondato in Francia da Jean-Luc Mélenchon che più sembrerebbe avvicinarsi al paradigma del populismo di sinistra. Mélenchon è un militante della sinistra di tendenza trozkista che a partire dal 2014 ha sposato alcune strategie tipiche del populismo, come la personalizzazione della politica, un accentuato leaderismo, la costruzione di un “noi” identitario contro un “loro” inteso come nemico esterno. Da questi antefatti discende la progressiva presa di distanza dalla classica opposizione sinistra/destra – e addirittura un tentativo di rivisitazione del concetto gramsciano di egemonia. France Insoumise pare insomma ispirata a un marxismo eretico del tutto estraneo al grillismo italiano. Tuttavia, la stessa «rivoluzione dei cittadini» predicata da Mèlenchon altro non è, a ben vedere, che un socialismo repubblicano impegnato a riempire il vuoto lasciato dalla disintegrazione dei corpi intermedi e delle istituzioni della Quinta Repubblica. Critico da sinistra verso i partiti socialdemocratici, il movimento francese si guarda bene dal relegarsi nel cantuccio dell’intransigenza minoritaria dell’estrema sinistra. Del M5S condivide la spregiudicatezza tattica – favorita nel M5S dalla totale assenza di una cultura politica di riferimento -, e l’aspirazione a esercitare il potere ad ogni costo, con qualunque alleanza disponibile[8]. Le analogie finiscono qui, sebbene tutti e tre gli esempi citati – M5S, Podemose e France Insoumise– abbiano sicuramente concorso a ridefinire la nozione di populismo. Osserva infatti Fassin che “il populismo non è più solo un insulto e tale denominazione può assumere anche un carattere positivo. Non è più percepito necessariamente come il rovescio demagogico della democrazia, presentandosi ormai invece come una forma di rinnovamento democratico anche a sinistra” (p. 32).
Proprio qui si colloca l’inganno populista, perché “in un populismo di sinistra è il populismo che gioca il ruolo di sostantivo, la sinistra non è che un aggettivo” (p. 84). Non esiste, insomma, una ricetta populista per ricostruire la sinistra, mentre al contrario si fa più urgente la necessità di (ri)costruirla. Sta qui la sfida più difficile e più affascinante. Essa consiste nell’elaborare una strategia di conquista di un altro popolo: il popolo dimenticato ma smisurato degli astensionisti, autentica maggioranza silenziosa in quasi tutte le democrazie mature. La sinistra ha davanti a sé un compito ambizioso che si può riassumere in un sintetico imperativo: “trasformare il disgusto astensionista in gusto elettorale”(p. 81).
Perché la sinistra torni attrattiva bisogna però che essa si concepisca come un cantiere aperto all’innovazione, all’invenzione e all’interpretazione. In un contesto radicalmente mutato, fu in fondo questa l‘intuizione che nel tempo della rivoluzione industriale permise alla sinistra di trasformare in azione politica progressista il generico ribellismo dei lavoratori industriali verso lo sfruttamento capitalistico e l’ordine sociale borghese. Parafrasando ciò che un vecchio politologo americano come Elmer E. Schattschneider[9] aveva sostenuto sessant’anni fa a proposito del futuro della democrazia, si potrebbe affermare che l’idea di sinistra “è ancora in corso di invenzione ed è ancora aperta a una molteplicità di interpretazioni, [probabilmente] nessuna definitiva”. È da questa professione di umiltà che Fassin invita a ripartire. Ma è un percorso lungo il quale si possono incontrare altri interessanti compagni di viaggio.
NICOLA R. PORRO
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Cito: “Perché la sinistra torni attrattiva bisogna però che essa si concepisca come un cantiere aperto all’innovazione, all’invenzione e all’interpretazione.”
Penso che la sinistra abbia smesso di essere attrattiva allorché ha smesso di fare e dire cose di “sinistra”. Innovazione, invenzione e interpretazione non sono ‘sostanza’, ma modalità necessarie all’essere attori protagonisti dei tempi e non oggetti passivi di un mondo che cambia più velocemente di quanto la società riesca a regolare. Sono tre, oserei dire, strumenti, e, come tali, neutri, alla stessa stregua dell’energia atomica, del web, della televisione ecc.
Voglio dire che la sinistra non torna “attrattiva” per il fatto che innova, inventa, interpreta, ma diventa attrattiva a seconda di come innova, cosa inventa e come interpreta le sfide.
Siamo sempre lì, il populismo riempie i vuoti che la ‘sinistra autoreferenziale’ ha lasciato. Spesso e volentieri le mutazioni della sinistra, non sono state altro che il tentativo di mettere il bollino di certificazione a cose che ha dovuto subire come fossero inevitabili mutazioni della società globale. Lo ha fatto spesso fermandosi al significato del titolo ma facendo finta di non conoscerne gli effetti, quelli si che sono l’essenza delle cose. Potrei citarne a bizzeffe, ma per stare all’attualità un ipotetico “decreto semplificazione”, sembrerebbe a alcosa di positivo, bello e magari di sinistra, ma occorre vedere cosa e come si semplifica per poter dire che è qualcosa di sinistra.
Tornando alla citazione iniziale, questa mi pare un po’ “vuota”, la politica non è un oggetto di consumo che deve apparire nuovo ed accattivante acchiappaconsensi, la politica è quella che gestisce i cambiamenti, quella che crea i contenuti non è qualcosa che si inventa giorno per giorno per stare al passo con i tempi, è quella che li governa, se non ne fosse capace ne potremmo tranquillamente fare a meno.
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