RUBRICA “BENI COMUNI”, 44. IL RIMEMBRAR DELLE PASSATE COSE… (Giacomo Leopardi, Alla luna, 1819) (parte 1)
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Evidentemente, a Giacomo Leopardi “rimembrare” piaceva: “Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale…” (e non aggiungo altro, date certe assonanze che sono di molta attualità) e, appunto, “il rimembrar delle passate cose”, una frase che si adatta perfettamente all’argomento di cui voglio parlare. Un argomento che, lo confesso, rimugino da molto tempo ma che ho avuto alcune difficoltà a tradurre in questa puntata della rubrica – Fabrizio ne è testimone – un po’ per le illustrazioni, foto e disegni da ritoccare e aggiornare, operazione abbastanza complessa, a voler essere minimamente precisi, se fatta a memoria e lontano dal mio archivio dei progetti, e in parte anche per il vezzo preso da alcuni appunti che, per facilitarmi la scrittura, digito o detto (voce del verbo “dettare”) al cellulare, ma poi si nascondono, scompaiono nell’etere o in qualche cartella introvabile.
Rimembrare si adatta al tema di oggi, anche se – pur nell’eleganza del termine – ha un sapore vecchiotto, come lo ha, forse effettivamente, questo desiderio di ricordare, di rievocare, di richiamare alla memoria questioni del passato. Il che significa, in altre parole, rifarsi alla storia, alla Storia e alle storie, quella e quelle del nostro passato. E in effetti, proprio di Storia e di Passato voglio parlare, che scrivo con le iniziali maiuscole perché il lettore intenda, ma sono una Storia ed un Passato particolari, nel senso che mi riferisco al contesto geografico locale, anzi, “a conti fatti”, a niente di diverso da quella Storia e da quel Passato di cui ci occupiamo in questa rubrica con una certa monotonia. Anche se, lo sappiamo, nonostante la costanza e la ripetuta assiduità del tema in questo blog e in tante altre “pagine” analoghe, non sembra che si siano ottenuti risultati corretti, accettabili ed omogenei presso la “pubblica opinione” nelle sue diversificate espressioni.
E qui faccio un’opportuna premessa esplicativa. Il Parco pubblico della Resistenza, quello dell’Uliveto e quello di Porta Tarquinia, sono (tra l’altro) dei veri e propri “Parchi della Rimembranza”. Per questo ho preso le mosse da Leopardi. Certo, non hanno quell’aspetto severo o solenne, in qualche misura cimiteriale, di quel tipo di giardino patriottico, popolato da una moltitudine di benemeriti – appunto patrioti, eroi, martiri, caduti, vittime, secondo i casi – rappresentati sovente con un busto sorretto da una stele in marmo bianco, ossia un’erma per dirla in modo appropriato. Essendo stato il progettista dei tre parchi, posso dire di aver cercato sempre di privilegiare gli aspetti relativi alla loro fruibilità da parte dei frequentatori, definendo le attrezzature per il gioco dei bambini, per il riposo degli anziani, per le attività ricreative e culturali e per piccoli impianti destinati alla pratica sportiva (tenendo conto che alle attrezzature sportive vere e proprie sono riservate diverse zone speciali di piano regolatore) con molta praticità. Gli spazi destinati alla “rimembranza” sono stati individuati in funzione dei valori commemorati (resi plasticamente evidenti da uno specifico “Monumento”, con il carattere di opera d’arte in se stessa), osservando il criterio di avere la dovuta visibilità, di trasmettere in modo eloquente il senso di quei valori e di consentire le manifestazioni pubbliche nelle forme cerimoniali più idonee.
Il Parco della Resistenza venne sistemato nel 1972 in quella tenuta degli Antonelli (nome ancora frequentemente associato al luogo), una delle “Vigne” che le famiglie benestanti avevano iniziato a coltivare già nel tardo ’500, ceduta al Comune con l’entrata in vigore del PRG nel 1968. Il monumento, ideato dall’artista Giovanni Massaccesi e dedicato alla Resistenza e ai Deportati nei lager nazisti, vi è stato posto con una toccante cerimonia inaugurale svoltasi il 12 novembre 1977.

Il Parco dell’Uliveto è stato creato inglobando la grande piantagione con oltre 150 olivi appartenuta, con il vicino casale, ai nobili Valentini. Nel 1978, grazie ad un finanziamento della Provincia di Roma, si sono realizzate diverse attrezzature, campi da gioco, un edificio di servizio oggi adibito a bar ed un utile teatro all’aperto, secondo un impianto planimetrico impostato su percorsi e zone di sosta caratterizzati da allineamenti e cannocchiali ottici. Il monumento ai Martiri delle Foibe, costituito da alcuni elementi simbolici evocativi, è stato inaugurato il 9 novembre 2004.
Il Parco intitolato ai Caduti sul Lavoro, voluto con tenace determinazione da Pasquale Scognamiglio, presidente della sezione locale dell’ANMIL, progettato da me nel 1972 e realizzato materialmente con le tecniche cementizie suggerite da Guerriero Nenna, è stato inaugurato il 1° maggio 1979 e, definitivamente, il 21 maggio 1995. Il progetto prevedeva la sistemazione di un’ampia area, inizialmente individuata nella nuova piazza lungo via Risorgimento e poi trasferita nell’angolo tra via Isonzo e via Braccianese Claudia. L’idea è consistita nel formare uno spazio organizzato in cui il visitatore partecipa dello spazio stesso, può percorrerlo, entrarvi dentro ed esserne coinvolto, con i suoi sentimenti, le sue emozioni. “Non un monumento-oggetto, quindi, offerto alla fuggevole e distratta attenzione del passante, ma un luogo attrezzato inserito nella città, che al tempo stesso rappresenti la partecipazione corale della società al sacrificio del Lavoratore e solleciti la meditazione dell’uomo, individualmente responsabile. Pietra, acqua e verde — elementi della composizione — vogliono suggerire, nell’interpretazione soggettiva che ognuno darà in se stesso della forma, una riappropriazione armonica della natura e della vita, resa più consapevole dal dramma”.
Fatta questa premessa, anche per assolvere ai doveri della rubrica di fornire al lettore notizie su beni comuni, aggiungo una breve annotazione, con diretto riferimento alla prima illustrazione, formata da ben dieci elementi, in cui ho tentato di esprimere le varie idee che voglio proporre, secondo l’assunto, per “rimembrare delle passate cose”. Inizio dal basso, dove ho riportato un ricordo (una rimembranza) del liceo, con la frase “Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti” (Hai disposto tutte le cose secondo la loro misura, il loro numero e il loro peso), una frase tratta dal libro della Sapienza della Bibbia, che il professore di Scienze Giovanni Faure ci faceva scrivere sul frontespizio dei nostri grandi quaderni, in cui dovevamo ricopiare i suoi schemi di Biologia, Chimica, Botanica, Zoologia eccetera, preparati alla lavagna con gessetti a colori, in cui lo scibile era sintetizzato in elenchi con graffe e suddivisioni, appunto in perfetto ordine, secondo misura, numero e peso degli argomenti. Un aiuto mnemonico notevole. Al quale mi sono ispirato nel mio metodo di lavoro.
Nelle altre immagini della figura, ho riassunto le mie due proposte: il “Viale della Storia cittadina” da realizzare lungo il tratto dell’antica Via Aurelia Nova che attraversa il Parco della Resistenza con i simbolici Cento Pilastri posti a “buona memoria di Centumcellae” dagli Antonelli e la “Galleria dei Sindaci” nel complesso della Sala “Renato Pucci” al Pincio.
La ripetuta rappresentazione della lunga teoria di pilastri in duplice filar del viale oggi intitolato agli Ex Internati, allineati a due a due, vuole richiamare l’attenzione del lettore – se ancora ve ne fosse bisogno – su quella preesistenza che, almeno dal ’700, imprime il proprio segno al paesaggio della piana in lieve declivio a sud-est del circuito bastionato di Civitavecchia. Lo stralcio della mappa in alto, su cui ho segnato il lungo rettifilo rosso (da Zampa d’Agnello al Ponte del Diavolo sulla Fiumaretta, per una lunghezza di circa 3 km, pari a 2,029 miglia romane) di cui fa parte il nostro viale, dimostra la forza emblematica di quella infrastruttura che era l’antica via Aurelia, anzi della variante Aurelia (Nova), che Traiano aveva realizzato per “circonvallare” i suoi possedimenti e noi non siamo riusciti a costruire, malgrado le raccomandazioni di Luigi Piccinato e i vincoli del suo piano, per allontanare l’inquinamento da viale Baccelli e sostituire il lentissimo attraversamento urbano (non risolto dall’autostrada) con la veloce arteria interrata finanziata dall’ANAS (ennesima occasione perduta “par la faute des…”). Nella foto, al centro dell’immagine di copertina, del viale con il pergolato in pali di legno sorretto dai pilastri, ho aggiunto il basolato che non c’è (più). Sappiamo dal diario di padre Jean-Baptiste Labat che già a quei tempi, tra il 1710 ed il ’16 – per quasi tutto il tracciato stradale prossimo alla città – i pietroni erano stati asportati da chiunque ne avesse bisogno per essere riutilizzati nelle nuove costruzioni: una comoda ed economica “cava di prestito” senza restituzioni. Sono gli stessi anni in cui le famiglie dei notabili civitavecchiesi riscoprivano le antiche origini della città e ne tramandavano i fasti nelle iscrizioni del Palazzo della Comunità. Nel disegno a volo d’uccello ho ricostruito l’aspetto della tenuta Antonelli e del viale intorno al 1840-60, con il palazzetto padronale, il casale, la stalla e i magazzini, i fontanili, i riquadri dell’orto, il mandorleto e la vigna. Una veduta confermata dalle mappe redatte negli anni dell’occupazione francese, con il viale e la sua pilastrata ben visibili, come nella Carta Topografica di Civitavecchia del 1841, delineata e incisa nel Dicastero Generale del Censo nella proporzione di 1:4000. Precisa e dettagliata, in questa pianta è ben visibile il tratto di Aurelia nova rimasto nella situazione originaria, sottolineata appunto dai pilastri cuspidati databili alla fine del Settecento, resi simbolicamente con 10 coppie di portali, data la scala, ma con altri particolari molto importanti.
In quei secoli, altre famiglie gentilizie, oltre a proseguire la tradizione medievale di imporre ai borghi dei sudditi, nei loro feudi, la mole incombente, sovrastante, dei palazzi che avevano sostituito o aggiunto ai castelli, “marcavano” il territorio con segni iconici di grande evidenza spaziale, tanto puntuali quanto lineari. Dai parchi e giardini disegnati secondo complesse geometrie, a lunghissime “promenades” (si pensi a Caserta) con fontane, canali, schizzi e cascate, oltre a sculture, gazebi, tempietti. Nel caso di Caprarola, il grandioso palazzo dei Farnese di Paolo III è il “punto di fuga”, di convergenza prospettica e di meta finale (politica, psicologica, tributaria) dell’intero paese e del suo asse direttore che vi punta nella doppia prospettiva planimetrica e altimetrica, nella subordinazione reverenziale e, appunto, subalterna delle case, prostrate in ossequio ai piedi dell’imponente mole pentagonale. In altri casi, questi assi “regolatori” – singoli o molteplici, “tridenti” o “stelle”, ma sempre con un punto di confluenza delle linee – sono costituiti da lunghi filari alberati: i cipressi che a Bolgheri, i viali pizzuti del senese, le varie “alberate” di pioppi, platani, tigli di tante località. Giorgio Santacroce, nel 1560, riceve dagli Orsini il feudo di Oriolo Romano e vi impianta il primo insediamento, organizzato come città “ideale e felice”, pianificata appunto fin dalla fondazione, sulla consolare Clodia, secondo un progetto di piano regolatore razionale e preciso il cui disegno urbanistico è ancora perfettamente leggibile. Dal grande palazzo signorile, poi passato nel 1671 agli Altieri, e dalla piazza antistante si dirama il sistema dei tre lunghi viali alberati che collegano rispettivamente il palazzo stesso al Convento di Sant’Antonio (proseguendo in direzione di Roma), alle nuove case del paese, allineate in quattro brevi schiere parallele di abitazioni per le famiglie dei contadini umbri e toscani chiamati a disboscare e coltivare le terre e, infine, all’eremo carmelitano di Montevirginio, attraverso il terzo rettifilo, la notissima e preziosa Olmata. Purtroppo, nel 1970, gli olmi sono stati decimati da una malattia, per cui il Comune ha dovuto necessariamente sostituirli. L’intervento, condotto nel 1984, ha visto la messa a dimora di alcune specie di querce ed ha permesso, se non altro, di mantenere i caldi colori autunnali dell’olmo. L’uso di piante d’alto fusto per affiancare e demarcare strade, percorsi, corsi d’acqua e canali, confini e discontinuità di vario tipo ha avuto infinite applicazioni, fino a tempi recenti, quando le bonifiche e diverse trasformazioni della campagna hanno utilizzato altri sistemi lineari, in cui siepi, piante frangivento o fasce tampone ai bordi dei campi, svolgono una funzione di tutela per gli agro-ecosistemi e di “difesa” per le superfici agricole. E qui voglio ricordare (e raccomandare) al lettore, sul tema, l’ottimo volume Le strade alberate, della serie “Storia dell’urbanistica” (n° 2/1996) diretta da Enrico Guidoni. Un libro ormai “d’epoca”, a sua volta, “di passate cose”, ma ancora utilissimo e gradevole, con i contributi di molti amici ed in particolare con uno scritto introduttivo “Le strade alberate tra città e territorio” della cara Sofia Varoli Piazza, ottima relatrice al mio convegno di Bolsena del 2015, VII delle giornate di studio “Punti di Fuga”, sul tema “I giardini della Tuscia”.
A parte alcune piante rimaste nella toponomastica a individuare vicoli e campi (un olmo, un olivo, forse un lauro e un oleandro) e qualche orto e frutteto nei cortili (se ne contano più di venti nella veduta della Galleria vaticana delle Carte Geografiche), gli alberi avevano vita difficile in una città come Civitavecchia, dove non c’erano né giardini né viali alberati. Invano – come ho ricordato altrove – padre Labat e Antigono Frangipani hanno raccomandato di piantare alberi di “mori gelsi” o comunque frondosi sui rampari della cinta bastionata, utili per tanti fini. Questo, fino al 1836, quando Paolo Emilio Provinciali, con il materiale di demolizione d’un tratto delle mura rimasto intercluso (abbattute per completare il tessuto edilizio con nuovi palazzi e col teatro comunale) ampliò a mare il terrapieno della spianata dove giungeva la via Aurelia da Roma, lungo le mura del borghetto Sant’Antonio, piantandovi quattro filari di alberi ornamentali e creando quello che doveva rimanere il viale della passeggiata domenicale. Non si trovavano altre piante, perché, intorno alla cinta dei bastioni con fossato, scarpa, parapetto e cordolo, spalto, braga fascinata, cammincoperto e controscarpa, era mantenuta una fascia inedificabile soggetta a servitù militare in cui non potevano esserci neppure alberi e cespugli per evidenti ragioni di sicurezza. Non mancavano ad ogni modo rami di alberi da tagliare, nonostante l’intenso uso civico del legnatico, sui poggi e colli boscosi poco distanti, se qualche eventuale esercito nemico avesse voluto sorprendere le difese di Civitavecchia, imitando l’accorgimento shakespeariano del “bosco di Birnam”. Comunque, qualche vegetale si poteva ammirare negli stemmi pontifici piazzati un po’ dappertutto su mura, palazzi e moli: il rovere di Giulio II, i gigli di Paolo III, la castagna di Urbano VII, i cipressi di Gregorio XIV e lo sbilenco alberello sradicato di Innocenzo IX.
Ma devo porre fine a queste divagazioni e giungere rapidamente al dunque, a esplicitare l’iniziativa immaginata lungo quel viale che è stato, per molti decenni, il breve percorso tra l’auto (sei o sette, nel corso del tempo) con cui ero giunto da Roma e la vecchia scrivania anteguerra (un’altra storia amena!) dell’ufficio nella Dacia dove ho svolto il mio servizio.

Dunque: cosa intendo parlando del “Viale della Storia cittadina” da realizzare lungo il tratto dell’antica Via Aurelia Nova che attraversa il Parco della Resistenza con i simbolici Cento Pilastri posti a “buona memoria di Centumcellae” dagli Antonelli? Ne ripeto ancora una volta l’origine e le vicende. Si tratta d’una teoria esattamente di 100 pilastri lunga 170 metri, che stanno lì da due o tre secoli, costruiti dai proprietari Antonelli, a sottolineare il tracciato della consolare romana, appunto nella sua variante traianea, sono riportati nelle mappe ottocentesche, appaiono in foto aeree d’epoca e in filmati di feste campestri degli Anni Trenta, sono stati meticolosamente conservati da me nel ’72, semplicemente rintonacandoli e ripristinandone le travi del pergolato a sostegno di molte piante di Bougainvillea di bellissimo effetto, cui fu aggiunta, anni dopo, a comodo riparo del pubblico dalle intemperie e dal sole, una copertura di tutto il viale, intitolato nel frattempo agli Ex Internati, quando nel parco, dedicato a ricordare la Resistenza, fu posto il monumento di Massaccesi che commemorava appunto quei Martiri della lotta al nazifascismo, hanno rischiato d’essere scapitozzati per qualche malasorte suggerita da mentalità vendicative (?) francamente medievali e sono stati salvati ma lasciati lì, nudi e crudi, a rappresentar se stessi e senza pesi (“sine pondere”). Tanto che ho pensato varie volte di proporli al simpatico Domenico Iannaccone per la sigla del programma Che ci faccio qui. Ora, memore del bel libro Viale Belle Arti. Maestri e amici, di Cesare De Seta (Bompiani, Milano 1992), cui sarò sempre grato per il lusinghiero apprezzamento dei miei studi di allora espresso nel ’90 a Vito Laterza, credo piuttosto di proporre una loro metamorfosi, da coorte di pretoriani schierati per qualche “Ave Caesar!” o da confraternita di incappucciati salmodianti in processione per un “Ave Maria”, a “tacche” di un calendario secolare sul tema dei Fasti (e Nefasti) Civici, ripristinando in forme aggiornate le iscrizioni commemorative dipinte nella sala del nuovo Palazzo Comunale nel 1695-96.
FRANCESCO CORRENTI (CONTINUA)

Bella storia dei parchi cittadini.
Il termine “rimembranza” ricorre subito dopo la Grande Guerra ad imitazione dei luoghi di ricordo germanici(Heldenhein).
Ogni paese d’Italia ebbe il suo parco (Bosco degli Eroi). Gli alberi (cipressi piramidale) rappresentano l’anima del milite incarnata nella viva pianta. Un cannone del nemico generalmente è la reliquia della vittoria.
Con circolare n.67 del 30 novembre 1922 si stabilì che ogni agglomerato urbano realizzasse un luogo della memoria con piante dedicate ai soldati.
In provincia di Roma i parchi si trovano ovunque.
La domanda è: a Civitavecchia dove?
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Il mio commento è una rimembraza talmente forte da farmi piangere mentre scrivo.Sulle panchine del parco della Resistenza cercavo la sagoma di mia madre, un poco piegata dagli quando venivo a trovarla da Roma.In quello spazio su cui affacciava il suo palazzo portavo le mie figlie piccole, passeggiavo con lei lungo il viale che allora era appunto coperto e ombroso e lei tesseva le lodi di vhi l’aveva salvaguardato, realizzato e inizialmente anche ben curato.. Posso ora farlo io per lei che, grazie a quel luogo dell’anima degli ultimi decenni del suo tempo mortale (“per citare il poeta), ha potuto non rimpiangere la vista del suo adorato mare.. Davvero grazie Francesco. Grazie per quei pilastri e per quella via delle rimembranze.. ❤️
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Zia Renata,per me la più lontana logisticamente tra le figlie del sor giocondo , aveva scelto questo sito con un forte spirito indipendente ,che ho avuto modo di conoscere proprio quest anno quando per il 25 aprile ,il corteo Anpi si è mosso proprio da questo parco per celebrare il giorno della liberazione
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Le preziosità informative e culturali che scaturiscono dagli appunti e dai resoconti appena letti e piacevolmente goduti,mi portano ad auspicare e proporre nel caso incontri anche informali tra gli appassionati delle storie cittadine per rafforzare in tutti noi le radici comuni di tante rimembrance
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Bella e rimembrante lettura sull’Aurelia nova, con gelsi, ulivi e mandorle ch sparuti, appaiono ancora nella città. Frequentatrice di parchi cittadini io ti ringrazio a nome anche dei miei nipotini. Paola.
Ieri ho attraversato viale Baccelli in una fitta coltre di platani, immaginavo che accanto a me ci fosse Platone!
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Risposta collettiva ai tre gentili commenti (con quello di Carlo Alberto impreziosito da ulteriori informazioni, come sempre). Per il Bosco degli Eroi, evidentemente, nel 1919 si ritenne sufficiente la Piazza con il Monumento ai Caduti di Giovanni Riva (Torino, 1890 – Torino, 1973). Furono veramente tanti (l’elenco in Civitavecchia “Vedetta imperiale”, pp. 129-130) e ci sarebbero voluti troppi cipressi. Ricambio poi la gratitudine a Paola per il gentile pensiero dei suoi nipotini: è la migliore ricompensa per un architetto di parchi (e qui, tra Platone e nipotini evito di citare Antonio Tabucchi e altri discendenti). Quanto agli incontri anche informali tra gli appassionati delle storie cittadine, io ci sto. Sono a disposizione. Purché ci si possa sedere frequentemente, posso anche partecipare a qualche “cammino”. Con Hasekura, San Giulio e chiunquealtro. Un tempo l’Associazione Archeologica Centumcellae organizzava anche passeggiate e conversazioni. Ho ritrovato proprio ieri una delle tante cui ho partecipato. E non solo a Civitavecchia…
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Grazie Francesco per la cortese disponibilità.Io sono sempre pronto a inserirmi nel gruppo,tanto per passeggiate quanto per incontri per i quali metto a disposizione la mia casa piuttosto centrale. Al riguardo sarebbe sufficiente un preavviso di non più di 2 giorni. A presto
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A Caterina ed al suo commosso ricordo della Mamma sono grato per gli stessi motivi detti sui nipotini di Paola. Come per gli scolari di tanti anni fa che misuravano la loro statura sul pannello di via Achille Montanucci. Quando un luogo entra a far parte dei nostri sentimenti, se ci commuove o ci diverte – a seconda del suo scopo – direi che ha raggiunto il suo scopo. Parlo naturalmente di luoghi che siano stati progettati per una qualche funzione pubblica.
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Alcune annotazioni odierne su Facebook di Francesco Etna mi hanno fatto rileggere questi commenti, a distanza di cinque mesi, passati tra i tanti problemi e le incombenze che ci affliggono, indipendenti dalla nostra volontà. Se è possibile un contatto telefonico o di altro tipo, qualche iniziativa la vedo possibile…
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