GIORGIA E I SUOI FRATELLI (II): GENESI E FORTUNE DEI NUOVI POPULISMI

di NICOLA R. PORRO

A gonfiare le vele della nuova destra europea concorrono due dinamiche interagenti. Da una parte il declino dei vecchi partiti di massa e dell’influenza esercitata dalle loro ideologie. Dall’altro, l’affermazione di partiti fai-da-te e di una politica bricolage, capace di attingere ai più disparati repertori ideologici e basata quasi per intero su strategie di seduzione mediatica. Nel caso italiano, inoltre, la trasformazione dell’offerta politica è stata incoraggiata da un sistema elettorale fortemente proporzionale. Esso ha garantito per decenni cittadinanza e rappresentanza a un amplissimo arco di forze e di subculture politiche. La cosiddetta “Repubblica dei partiti” è stata caratterizzata da un’elevata e costante partecipazione al voto e da una sostanziale stabilità dei rapporti di forza. Ciò malgrado, si assisteva a un continuo avvicendamento di governi e di leadership: nessun altro Paese al mondo ha conosciuto l’alternarsi di sessantotto governi in settantacinque anni di democrazia!

Anche l’attuazione, nel 1970, dell’ordinamento regionale – previsto dalla Costituzione e potenziale strumento di rafforzamento ed espansione della democrazia – avrebbe prodotto l’effetto perverso di consegnare spazio istituzionale al primo populismo organizzato: quello di ispirazione secessionista della vecchia Lega Nord. Più avanti, il collasso della Prima Repubblica e della Democrazia cristiana – il Partito-Stato che per decenni aveva in qualche modo addomesticato gli spiriti animali della destra – avrebbe aperto la strada a un populismo di nuovo conio: quello rappresentato dal partito-azienda berlusconiano. Alla fine della prima decade del Duemila, il Movimento cinquestelle avrebbe avanzato un’offerta politica di genere ben diverso ma anch’essa in tutto e per tutto assimilabile al modello populista. A mezzo secolo dalle loro prime insorgenze pubbliche, i tre neopopulismi possono essere considerati i sensori di una sempre più acuta crisi di rappresentatività del sistema politico e allo stesso tempo fra i responsabili del suo progressivo degrado. 

 

Ad accomunare i tre modelli sono il culto del capo (enfatizzato fino alle soglie del ridicolo nel caso berlusconiano), la tendenza a sostituire la politica con la propaganda (più accentuata nella versione salviniana del leghismo) e l’idiosincrasia per l’elaborazione culturale, spacciata per affrancamento dall’oppressione delle ideologie e perciò funzionale, nel caso cinquestelle, a giustificare ricorrenti pratiche di trasformismo. Il coltello del nuovo populismo – lo aveva intuito perfettamente, al momento della “discesa in campo”, l’istinto mercantile dell’Uomo di Arcore – avrebbe affondato la sua lama nel burro. La sinistra, in un quadro internazionale che imponeva una brusca conversione di paradigma, era dalla fine degli anni Ottanta alle prese con le doglie di un parto interminabile. I suoi leader non riuscivano a mobilitare i tanti disorientati da una deriva grottesca, ma non per questo meno preoccupante, della democrazia tout court. Alla quasi immobilità elettorale della Prima Repubblica si sarebbe così sostituita, fra il 1994 e il 1996, una Seconda Repubblica condannata a divenire ostaggio dei nuovi populismi. Le cangianti fortune elettorali di queste forze emergenti si sarebbero tradotte in un’alternanza vorticosa di alleanze, di maggioranze instabili e di leadership effimere.

Gli argomenti propriamente politici del caso italiano, insomma, si mescolano e si sovrappongono con quelli derivanti dalla sua configurazione istituzionale. Se non teniamo nel debito conto le fragilità morfologiche del nostro sistema politico, incolpare i nostri partner principali (la Germania, la Francia) di non riconoscere adeguatamente il rango internazionale dell’Italia è un esercizio di sterile vittimismo. Per paradosso, dovremmo piuttosto compiacerci di come l’Italia sia comunque riuscita ad accedere al G7, a rappresentare un interlocutore non secondario delle maggiori potenze e a contenere l’impatto, potenzialmente devastante, dei tre populismi. Al gap politico di cui il Paese continua a soffrire suppliscono un sistema produttivo agile e policentrico, la creatività ereditata da una straordinaria tradizione artigiana, una forza lavoro di qualità, un’antica vocazione europeista e un’ubicazione geografica militarmente strategica. È però rimasto irrisolto il problema dell’efficienza ed efficacia del sistema politico: un vulnus che lede la qualità della democrazia. Il continuo rincorrersi di proposte di riforma del sistema elettorale non ha prodotto esiti significativi. 

 Si tratta, infatti, di un’illusoria panacea se non si approfondiscono correttamente le cause all’origine del problema. L’astensionismo e l’assenteismo elettorale rappresentano del resto patologie ormai cronicizzate in molte democrazie e alcuni studiosi li considerano addirittura sensori preziosi di umori sociali sempre più volatili e di elettorati sempre meno fidelizzati. La questione dell’efficienza e dell’efficacia delle istituzioni parlamentari è infatti dibattuta in altri Paesi quanto e più che da noi. Concentrare l’agenda politica sul funzionamento del sistema – regime elettorale e forma di governo (presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato e quant’altro) – rappresenta però spesso per i governi in carica un prezioso diversivo in momenti di difficoltà. Nel caso italiano il fallimento di tutti i precedenti tentativi ammonisce a non nutrire soverchie illusioni. A rendere difficile l’innovazione in una materia tanto delicata sta il semplice fatto che nessuna forza in campo è in grado di stimare preventivamente costi e benefici del cambiamento: sul rischio di perdere potere e influenza è così sempre prevalsa la filosofia del quieta non movere. Cambiamenti significativi nei regimi politici si sono sempre prodotti, del resto, sull’onda di crisi laceranti, come nel caso esemplare della vicenda algerina e del tentativo golpista che nel 1958 portarono alla repentina liquidazione della Quarta Repubblica francese (1946-1958), al governo De Gaulle e a un radicale cambiamento del sistema politico-elettorale. 

Lo stesso panorama internazionale non fornisce indicazioni univoche: il campionario di sistemi elettorali e di regimi di governo è quanto mai ampio e variegato. Si confrontano regimi tendenzialmente bipartitici – casi esemplari il Regno Unito e gli Usa – prodotti da sistemi elettorali marcatamente maggioritari (e/o presidenzialistici), e altri, come la Quarta Repubblica francese o la nostra Prima Repubblica (la “Repubblica dei partiti”), che, in forza di un sistema elettorale fortemente proporzionale, incentivano la frammentazione della rappresentanza a scapito della governabilità delle istituzioni. Agli apologeti del sistema maggioritario va tuttavia ricordato come la forzosa riduzione del numero dei partiti non garantisca di per sé la governabilità. Non di rado, infatti, la conflittualità si trasferisce all’interno dei partiti-contenitore compromettendo, anche in questo caso, stabilità e prestazioni dei governi. 

Forse occorre allora osare una lettura di più ampio respiro che riguardi tanto i mutamenti striscianti degli Stati-Nazione quanto il ruolo di sistemi sovranazionali – l’Ue, la Nato – che ne hanno obiettivamente eroso, o quantomeno fortemente ridotto, il potere ordinativo. La miserabile parabola della Brexit, ispirata alla volontà di restituire sovranità e potere allo Stato-Nazione e tradottasi invece nel declassamento dello status internazionale del Regno Unito, sta a dimostrarlo. Le recrudescenze nazionalistiche, peraltro, rappresentano anche (ma non soltanto) un frutto perverso delle subculture di destra e del tentativo velleitario di fermare il corso della Storia. Non deve però sorprendere che una forza di destra radicale come quella al governo in Italia, una volta pervenuta al potere e fermamente intenzionata a conservarlo, si sia ben guardata dall’assecondare gli spiriti animali del nazionalismo europeo preferendo tacitare i mugugni degli amici di Putin e accreditandosi, nella vicenda ucraina, come Paese di rigorosa osservanza atlantica. L’adesione al sistema militare Nato è del resto assai più convinta negli ambienti della destra di quella alla Ue. Quest’ultima, storica bestia nera di tutti i nazionalismi europei, è stata più volte bersaglio, sino a tempi recenti, di un’aggressiva campagna di delegittimazione da parte di Giorgia Meloni. Divenuta forza di governo, la nostra destra radicale si è sin qui accontentata di lucrare un po’ di protagonismo reagendo alle improvvide dichiarazioni di un ministro francese. Il quadro sembra insomma essere caratterizzato assai più da pratiche di trasformismo e da ansia di legittimazione che non da tentazioni autoritarie, al netto delle cantonate verbali di questo o quel maggiorente bisognoso di buone letture più che di pur legittime reprimende. È in ogni caso dubbio che rischi di involuzione democratica si prevengano agitando lo spauracchio del “ritorno dei fascismi” o confidando, viceversa, nella responsabilità dei partner di governo. Se FdI affonda radici nel radicalismo di destra, più marcatamente populista sono infatti tanto il dna secessionista del leghismo quanto quello aziendalistico berlusconiano. 

Più utile è allora interrogarsi sullo stato di salute dell’antifascismo. In un saggio recente Gianfranco Pagliarulo (Antifascisti adesso, Milano, Mimesis, 2023, pagg. 122), che è presidente dell’Associazione nazionale partigiani (Anpi), ne traccia un quadro sconsolato. L’autore è convinto che l’antifascismo non rappresenti più un pensiero maggioritario in Italia e nella stessa Europa. Consumato da uno strisciante revisionismo e confinato in rituali liturgie celebrative, sarebbe in realtà oggetto di un tentativo insidioso: quello di ridurlo alla variante nazionale di una fra le tante ideologie partorite dal secolo delle ideologie. L’antifascismo rappresenta invece, ci ricorda Pagliarulo, la nostra religione civile, la pietra angolare su cui poggia la Repubblica “nata dalla Resistenza”. Ad alimentare la preoccupazione stanno la vigorosa crescita tanto dell’astensionismo elettorale quanto del consenso alla destra radicale, le suggestioni qualunquistiche che hanno caratterizzato l’offerta politica degli ultimi decenni e il ricorrente appello rivolto all’uomo (o alla donna) forte. Tutti ingredienti già chiaramente presenti nella fase di stato nascente dei totalitarismi europei fra le due guerre. 

Per sviluppare la riflessione sul caso italiano – quello del solo Paese della Ue al momento governato dalla destra radicale – occorre però disporre di una precisa e aggiornata carta d’identità dei Fratelli d’Italia. Passato dal 4 al 26 per cento dei consensi elettorali in appena quattro anni, è da considerarsi un partito fascista o comunque una filiazione diretta di quel modello? È sufficiente segnalare la continuità del corredo iconografico o qualche sgrammaticatura comunicativa per fornire una risposta perentoria? Pagliarulo invita a non banalizzare la questione. A dispetto di qualche acrobazia verbale, conservare nel simbolo del partito la fiamma che allude alla memoria mussoliniana, non è un fatto di mera coreografia. Come non lo è promuovere a incarichi di responsabilità figure salite agli onori delle cronache per fatti di violenza politica, esternazioni razziste o declamazioni nostalgiche. Ciò mentre movimenti come Casa Pound, Forza Nuova e Lealtà Azione proseguono indisturbate le proprie attività in spregio di una legislazione penale che vieta la ricostituzione “in qualsiasi forma” del disciolto Partito fascista (onestà intellettuale impone tuttavia di ricordare l’acquiescenza in materia anche di altri governi succedutisi negli ultimi due decenni). 

 

Di pari passo, avverte Pagliarulo, procederebbe il tentativo di consegnare alla memoria i valori fondativi della Repubblica, ridimensionandoli a prodotto di una narrazione lontana e comunque divisiva. Discende da queste riflessioni l’appello a rigenerare l’antifascismo, a difendere l’intangibilità della Costituzione e a restituire vigore alla partecipazione popolare.  Occorre soprattutto riportare alle urne diciassette milioni di “non elettori” (fra assenti e schede bianche): nel settembre 2022, più del 36 per cento degli aventi diritto ha rinunciato al voto e il centrosinistra non è andato oltre i dodici milioni di voti. La destra, a guida radicale, ha vinto ma l’allarme non è suonato e la reazione della sinistra italiana è apparso drammaticamente inadeguato. 

Le preoccupazioni di Pagliarulo e l’appello che ne deriva non devono cadere nel vuoto. Credo però che ciò non esima da qualche osservazione così come non ritengo, d’altro canto, che l’invocata rigenerazione del fronte democratico possa ridursi al pur necessario ripensamento delle regole del gioco. L’Italia, d’altronde, non rappresenta un’isolata eccezione sulla scena europea: costituisce piuttosto il caso nazionale più rilevante nella marea montante del populismo di destra. Già nel settembre 2022 il nostro Paese – con i Fratelli d’Italia forti di oltre un quarto dei voti espressi – occupava idealmente la sommità del podio sovranista. Seguivano la Svezia, che aveva conosciuto nello stesso periodo il boom elettorale dei Democratici svedesi (20.7%) e il Portogallo, dove i populisti di Chega! (Basta!), avevano ottenuto qualche mese prima il 7.2% dei voti alle legislative, conquistando 12 deputati e quintuplicando i voti guadagnati tre anni prima. Occorre allora dilatare la prospettiva e indagare non solo i trend elettorali ma anche le “visioni” – in parte convergenti in parte no – che tanto consenso hanno conquistato alle destre, tanto quelle eredi di una storia lontana quanto quelle gemmate (forse non sorprendentemente) nella postmodernità. È da tali visioni, dalla loro potenza comunicativa e dall’esame delle loro strategie che deve prendere le mosse una riflessione che proverò a sviluppare in un prossimo intervento.

 

NICOLA R. PORRO

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