“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – STORIE DI TENNIS E ALTRO (IL GUERRIERO TIMIDO)
di STEFANO CERVARELLI ♦
Si sono conclusi da pochissimi giorni, con la vittoria del russo Medvedev, gli Internazionali di Tennis di Roma.
Un avvenimento che ha sempre saputo unire sport e mondanità nella dolce primavera romana.
Quest’anno diversi fattori, purtroppo, hanno contribuito a rendere meno brillante la parte agonistica (di quella mondana nono so dirvi).
Primo fra tutti il maltempo; vento, freddo e pioggia hanno flagellato il magnifico scenario del Foro Italico, rendendo più difficile la vita ai tennisti, condizionandone, a parer mio, le prestazioni: infatti si è giocato sotto l’acqua, fino a quando è stato possibile, poi però diversi incontri sono stati sospesi – per essere ripresi appena si è potuto – mentre per altri è stato necessario il rinvio con conseguenti problemi organizzativi, mentre alcuni giocatori hanno risentito di questa situazione.
C’è stata poi la polemica per il caro biglietti, che non ha impedito però una grande affluenza di pubblico, nonostante il brutto tempo; infine, sul piano prettamente sportivo, è toccato registrare, purtroppo, il flop dei tennisti italiani usciti dalla competizione già agli ottavi.
Ultima considerazione. Come si dice? “Maggio non è più quello di una volta”, di conseguenza il mutamento delle condizioni climatiche rende necessari anche cambiamenti tecnico-architettoniche come la copertura del campo centrale del Foro Italico.
Perché questo riferimento agli Internazionali?
Perché, oltre a una piccola nota di cronaca sportiva, voglio raccontarvi una storia di Tennis.
Agosto 1955. In una cittadina del Mississipi, un ragazzino afroamericano di quattordici anni viene rapito, seviziato in modo atroce, ucciso e gettato in un fiume.
Sembrerebbe che il giorno prima avesse fatto lo “stupido” con una commessa, bianca, di un negozio della cittadina di Money. La ragazza negò che il ragazzo si fosse reso protagonista di qualcosa di veramente inopportuno; non fu considerato rilevante, la commessa era bianca e di conseguenza qualunque cosa fosse accaduta era inaccettabile.
Un mese dopo viene celebrato, per direttissima, il processo contro gli autori del macabro delitto; la giuria, formata esclusivamente da bianchi, assolse i due imputati. Qualche tempo dopo ecco la beffa; i due, sfruttando una legge statale che impediva a un imputato assolto di essere processato nuovamente per lo stesso reato, con molta tranquillità e senza nessuna fatica, ammisero di essere stati proprio loro ad uccidere il ragazzo, il cui nome era Emmett Till.
Questa vicenda costituì uno dei momenti chiave della vita di un altro ragazzino nero, più o meno suo coetaneo, che abitava a Richmond, nello stato segregazionista della Virginia; questo ragazzo si chiamava Arthur, come suo padre, anche il nonno si chiamava Arthur, era stato uno schiavo.
Il nome gliela aveva dato il padrone della piantagione che era stato anche governatore della Virginia; di cognome questi faceva Ashe, cognome che passò, oltre al nome, ai suoi schiavi.
Per quale motivo fece questo non si sa, come non si sa per quale motivo tre generazioni di Ashe abbiano da portare lo stesso cognome; fra le tante supposizioni ce ne fu una alquanto suggestiva.
Si avanzò l’ipotesi che ci fosse qualcosa di talmente profondo nella loro anima che derivava dalla loro origine di schiavi, che non voleva andarsene.
Il padre del ragazzo dell’ultima generazione lavorava come guardiano di un impianto sportivo destinato ai neri; aveva raccomandato a suo figlio di camminare sempre a testa bassa, di farsi i fatti suoi, ma sopratutto evitare episodi o situazioni che potessero dar fastidio alla locale sezione del Ku Klux Klan: e così, per un lungo periodo della sua vita, aveva fatto Arthur Ashe.
La vicenda di Emmett sembrava, per la verità, dar ragione al padre, ma fu anche il seme che dopo essere stato molto nella terra, diede vita a una pianta rigogliosa; quando?
Quando Arthur Ashe divenne un grande, famoso, tennista.
Nel centro sportivo dove lavorava il padre c’erano anche dei campi di tennis ed il piccolo Arthur iniziò a giocare; si capì subito che avrebbe dovuto dedicarsi al tennis sul serio; Arthur ci riuscì, con non poca fatica, ma ci riuscì.
Entrò nell’Università della California, a Los Angeles, dove riuscì a portare la squadra al titolo universitario; venne immediatamente convocato nella squadra americana di Coppa Davis, che vinse, diventando il primo tennista nero a riuscirci (quando si dice della funzionalità dei neri allo sport statunitense…..) .
Nel settembre 1968, quando Ashe era ancora dilettante, vinse il più prestigioso torneo americano: gli Open degli Stati Uniti (uno dei quattro tornei di tennis più famosi del mondo).
Ora c’è da dire che quell’anno, ad aprile, era stato ucciso Martin Luther King e il Giugno successivo stessa sorte era toccata a Robert Kennedy. Arthur, invece, giocava a tennis.
Anche negli anni precedenti, quando più calda era la rivolta degli afroamericani per i diritti civili, Arthur aveva preferito continuare a giocare a tennis.
E lo faceva dicono le cronache “dannatamente elegante, tatticamente molto intelligente, senza dare l’idea che faticasse, tirando certe pallate da non crederci”.
Un’altra atleta, anche lei afroamericana e anche lei tennista, Althea Gibson, che aveva vinto a Wimbledon per due anni di seguito, disse: “C’è una bella differenza tra Inghilterra e Stati Uniti, tra lo stringere la mano alla Regina, dopo la vittoria a Wimbledon, ed essere invece costretta a sedermi in fondo agli autobus in South Carolina, nello spazio riservato ai negri”.
Arthur però continuava a giocare a tennis.
Un’altra tennista, bianca, famosa dell’epoca, Billie Jean King esclamò: “Gesù Santo, sono più nera io di Arthur!). Non riusciva a capire il disinteresse di Arthur Ashe nelle drammatiche questioni che riguardavano i suoi fratelli afroamericani.
Ma il seme di Emmett cominciava a germogliare.
Nel 1970 Ashe provò ad andare a disputare un torneo in Sudafrica: venne respinto, così avvenne l’anno seguente e l’anno dopo ancora. A quel tempo lo sport sudafricano era stato già bandito dalla competizione olimpica, ma no dal tennis; Arthur allora si adoperò perché quel Paese venisse escluso dalla coppa Davis, e ci riuscì.
In seguito a questo nel 1973 Arthur venne ammesso al torneo, si recò in Sudafrica, ma lo scopo principale del suo viaggio era andare a Soweto, visitare quartieri e baraccopoli in cui, i nativi sudafricani venivano segregati dalla minoranza bianca.”Vedevo il ghigno di arrogante superiorità sulla faccia di molti bianchi e l’ossequiosità, il fatalismo, il senso di inferiorità su quella di molti neri”.
Da quel momento il tema dell’apartheid diventò predominante nella vita di Arthur Ashe e dedicò i successivi venti anni a combatterlo con tutte le sue forze. Nel 1985 viene arrestato perché stava protestando davanti all’ambasciata sudafricana, a Washington, contro l’apartheid; non sarà questa l’unica volta che verrà arrestato.
Nel frattempo continuava a giocare ed a vincere. Poi, a causa di un problema cardiaco, dovette ritirarsi, dopo aver subito diversi interventi chirurgici. Diventò responsabile della squadra statunitense di Coppa Davis, riuscendo, tra l’incredulità e la sorpresa di molti, a gestire Connors e McEnroe, veri fuoriclasse ma anche i due tennisti più “fuori”di testa di sempre, per di più molto lontani dal suo atteggiamento e dal suo carattere che lo portava ad avere, anche nelle situazioni più complesse e battagliere, sempre un profilo garbato.
Importante dire che poco tempo prima del suo ritiro Arthur aveva battuto Connors nella finale di Wimbledon. Due giocatori completamente opposti.
In Ashe il seme di Emmett era divenuto una pianta rigogliosa, impossibile da ignorare; questo però faceva sì che in lui gli anni di disimpegno, durante la sua gioventù, stessero cominciando a pesare. Qualche anno più tardi dirà che il suo impegno nella difesa dei diritti civili era scaturito anche dal rimorso di non aver partecipato al movimento di Martin Luther king. “Mentre il sangue dei miei fratelli scorreva, io giocavo a tennis..”.
Nel 1985 si sottopose a un nuovo intervento chirurgico al cuore. Sarà fatale, anche se non subito; l’intervento infatti andò bene, ma è molto probabile che insieme al sangue trasfuso ci fosse anche il virus HIV. Erano quelli gli anni in cui si credeva che la malattia fosse limitata all’interno della comunità degli omosessuali, non prestando sufficiente attenzione a tutto il resto.
Arthur si ammalò di AIDS solo qualche tempo dopo, ma non volle interrompere affatto il suo impegno nelle varie organizzazioni di beneficenza, di cui era anche testimone ammirato.
Nel 1992 divenne anche attivista nella lotta contro l’AIDS dando vita alla ARTHUR ASHE FUNDATION FOR THE DEFEAT OF AIDS.
Ma non fu certo questa la sua ultima partita.
Nel 1991 in seguito al colpo di stato in Haiti migliaia di haitiani si rifuggiarono negli Stati Uniti,vennero ospitati nella base militare di Guantanamano e in altre zone. In seguito il loro numero crebbe e il governo di quel Paese avviò procedure per il rientro forzato, nonostante ci fossero leggi che ne impedivano l’esecuzione.
Molti attivisti scesero in piazza nel 1992 davanti alla Casa Bianca per protestare, tra loro c’era anche Arthur Ashe che venne nuovamente arrestato.
Fu questa la sua ultima battaglia. Già gravemente ammalato morì qualche mese dopo. Un guerriero timido che poi, però, non si tirò indietro.
STEFANO CERVARELLI
Lo ricordo ancora come tennista. Ne seguivo le gesta da ragazzo. Ma non conoscevo la sua biografia di uomo impegnato contro la segregazione razziale. Un bel post per le nuove generazioni.
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Che magnifica biografia!!!Mentre leggevo, mi scorrevano davanti agli occhi i ricordi dello splendido film Selma…
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Un esempio paradigmatico di come lo Sport si sia trasformato, tra metà degli anni Settanta e metà degli anni Ottanta, da “fenomeno” a “realtà sociale”, divenendo non solo un valido strumento di integrazione, ma anche e soprattutto Cultura. Prima di allora si credeva che lo Sport dovesse rimanere fuori della politica, si dimostrò, invece, soprattutto in Sudafrica, un eccezionale strumento politico-sociale di integrazione e di unità nazionale, anche se va ricordato, a malincuore, che, ai Giochi olimpici del 1980, a Mosca, l’Italia partecipò senza gli atleti militari e con il solo vessillo del C.O.N.I. Quanta strada è stata fatta da allora da quando si diceva: “lo Sport agli sportivi!”.
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