I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 25 : Il “68” e l’attrazione fatale per il totalitarismo. I cattivi maestri e la pratica degli
stermini di massa “a fin di bene”.
L’Europa, protetta dall’ombrello americano, ormai camminava con le sue gambe.
Il lavoro e le innovazioni tecnologiche portarono il benessere nelle case degli europei e, con esso, miglioramenti nelle condizioni di vita di fasce sempre crescenti delle popolazioni.
Il “sessantotto” sembrò provocare una battuta d’arresto. I movimenti nascono nelle Università californiane, ma s’infiammano quando attraversano l’Atlantico e incontrano Parigi, regina delle rivoluzioni di ogni tempo. Parigi era il luogo dello spirito, che nessuno sapeva cosa fosse.
I ragazzi che a centinaia di migliaia sfilano per i boulevard non impugnano bandiere politiche, ma esprimono un ribellismo confuso, dal conflitto generazionale al rifiuto dei modelli e delle certezze della tradizione, dalla libertà sessuale alla cancellazione di ogni costrizione.
I protagonisti di quella stagione e a lungo le generazioni successive, specie in occidente, esaltarono le conquiste del movimento, convinti che il mondo fosse iniziato a maggio del 1968 tra i sanpietrini divelti di Parigi.
Molte volte nella storia è accaduto che i giovani, infiammati dal delirio di onnipotenza generato dalla gioventù e da una naturale generosità, considerino una missione personale cambiare il mondo.
Raramente, forse mai, ci sono riusciti. Viene il tempo dell’inserimento nella vita reale, l’amore, il matrimonio, i figli, il lavoro, la carriera, l’amante, il divano, le partite di calcio.
Presto sparisce l’utopia del destino comune: successi e delusioni sono sempre personali.
I ragazzi nati a cavallo del 1970 non fecero eccezione.
Eppure, al “68” seguì un’illusione di emancipazione che ancora oggi, come corresse su un piano inclinato, non si è fermata. Certo, una boccata d’aria fresca, arrivata con mezzo secolo di ritardo rispetto ai cappelli a cilindro, alle redingotes, al regicidio di Sarajevo. Sono passati cinquant’anni e ancora oggi si fa fatica a fare un bilancio, ammesso che ne valga la pena.
L’esaltazione, però, non fece breccia tra i popoli che vivevano ai tempi della guerra fredda, che cercavano il benessere, il successo e cominciavano a pensare alla seconda casa. A rate.
Nessuno si rese conto che quella rivoluzione aveva inferto un colpo mortale a istituzioni religiose e antropologiche millenarie. Le stesse democrazie liberali iniziano un graduale decadimento, intellettuali e studenti sono attratti dal marxismo, ogni occasione è buona per manifestare contro gli Stati Uniti, per bruciare le bandiere americane.
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Nasce un’attrazione fatale per il totalitarismo. La propaganda sovietica ha bisogno di bandierine.
Fidel Castro, con i suoi barbudos e il medico argentino Ernesto Guevara, detto il Che, abbattono nel 1959 il regime corrotto di Batista e cacciano gli americani da Cuba. Diventeranno eroi planetari e nulla scalfirà la loro immagine, neppure quando saranno evidenti le tante promesse tradite.
Tra la liberazione di un popolo e la dittatura il passo è breve e sempre eguale. L’utopia si scioglie in uno stato di polizia, quello cubano dominato dal partito unico, comunista. Nessun dissenso viene tollerato, i pochi coraggiosi, che protestano perché contrari da sempre o per il tradimento della rivoluzione, sono ridotti al silenzio, con il carcere, la tortura e la morte. Se ne salvarono in pochi.
Molti sfidarono il mare con barchette simili a gusci di noce pur di non perdere la libertà e la vita.
Altra costante il benessere di pochi e la povertà del popolo. Eppure, Fidel governerà Cuba per cinquant’anni e lascerà il potere … al fratello.
Il Che cercherà altre rivoluzioni in giro per il mondo e in una di esse, in Bolivia, perderà la vita. Le T-shirt con la sua immagine ancora vanno a ruba. La rivoluzione castrista ha avuto il merito, forse l’unico, di alfabetizzare l’isola, creando eccellenze nel campo della medicina.
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Nel frattempo, un impetuoso vento marxista imperversa nel sud-est asiatico.
La prima stella del marxismo orientale fu Mao Tse-tung. Al potere dal 1949, quando impose alla Cina una dittatura comunista, così popolare tra gli utili idioti occidentali da rivaleggiare con Stalin.
Nel 1966 scatenò una rivoluzione contro … sé stesso. In realtà, il suo potere si era consumato e una parte dei dirigenti comunisti voleva relegarlo a un ruolo simbolico. D’altra parte, tra stermini degli avversari politici, dei contadini, lunghe marce, balzi in avanti, una carestia, che qualcuno giudica la più terribile che mai abbia colpito l’umanità, causata da politiche demenziali, Mao, tra una ragazzetta e l’altra, aveva trasformato il suo paese in un camposanto. La rivoluzione, definita culturale, riuscì.
Mao fece stampare 300 milioni di “libretti rossi” impugnati da decine di milioni di giovani cinesi, che attraversarono tutte le città del già Celeste Impero, trasformandosi in guardiani della Rivoluzione Culturale e di Mao, il quale riuscirà ancora per 10 anni a fare del male al suo popolo. Quei libretti, tra il tripudio dei cattivi maestri, vennero impugnati da migliaia di studenti occidentali e fecero furore nelle università.
Alla sua morte, nel 1976, Mao lasciò il suo popolo affamato e senza futuro.
Ci sarebbero voluti tre anni perché la guida del partito comunista cinese venisse assunta da un uomo, Deng Xiaoping, che seppe dimostrare che l’intelligenza vale di più, del denaro, del frumento, del bestiame, di ogni bene utile alla vita degli uomini. Deng, ottimo giocatore di Bridge, in 10 anni rese la Cina quella che conosciamo oggi. Dimostrò, inoltre, con i fatti che il fanatismo e le ideologie sono la rovina dei popoli. Non sempre, però, al potere arrivano giocatori di Bridge.
Oggi il leader maximo del XXI secolo è un uomo che per prima cosa ha cercato l’investitura a vita.
Raramente i dittatori fanno eccezione: renderà il mondo un luogo molto pericoloso.
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Tra i portatori del verbo marxista in oriente un posto di prima fila spetta a Pol Pot, o come si chiamava. Del resto, era la speranza di Jean-Paul Sartre, che per decenni esercitò una ferrea egemonia sulla cultura francese, e al quale probabilmente non bastavano le gesta dei partiti comunisti che avevano occupato la Cina, il Vietnam, la Corea del Nord, la Birmania.
Sartre, forse il primo dei cattivi maestri, aveva conosciuto e ammirato Pol Pot nel periodo dei suoi studi parigini; non sappiamo se la stessa stima la conservò quando, rientrato in patria, in Cambogia, in quattro anni sterminò un terzo dei suoi connazionali, circa due milioni di persone. Sembrava, tra trasferimenti forzati, torture, esperimenti medici su uomini usati come cavie, che volesse mettersi in competizione con Hitler.
Solo la Repubblica Popolare del Vietnam nel 1979 mise fine all’orrore, occupando la Cambogia.
Sartre chiuse gli occhi nel 1980 e nessuno saprà mai se il suo sguardo abbia trattenuto gli orrori delle gesta del suo promettente pupillo. Quelli della banda Baader Meinhof se li era goduti da vivo.
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Tutto si può dire dei cattivi maestri meno che non fossero egualitari, un concetto che tornerà buono ai nostri giorni. Per loro, la rivoluzione è il sale della vita, non importa se marxista, militare, religiosa, a condizione che rovesci l’egemonia occidentale, specie se americana. Le rivolte popolari a Budapest, nella Germania dell’est, a Praga, a Poznan in Polonia e via dicendo? Rigurgiti fascisti.
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Muammar Gheddafi, che aveva preso il potere in Libia nel 1969, decise di imporsi al mondo a colpi di attentati e finanziando i movimenti terroristici islamisti, finché Ronald Reagan gli bombardò la camera da letto, letteralmente, e lui si salvò per miracolo. Rinsavirà un attimo dopo. Basta soldi ai terroristi, le vittime degli attentati, tra cui i passeggeri di un aereo di linea, vennero risarcite, ma non rinunciò alla propaganda.
Uno dei figli, a sancire il nuovo corso, ricoprì di sterline la London School of economics.
La London School non sarà Parigi, ma un buon diploma val bene una messa.
Morirà tragicamente, e questo non è mai un bene, nel 2011 per una pensata priva di senso di francesi e inglesi. Peggiore il destino della terra di Enea e Didone: non conoscerà più un giorno di pace.
All’Italia non andrà meglio, con turchi e russi insediati davanti alle coste della Sicilia.
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Un astuto egiziano, Yasser Arafat, nel 1970 si aggiunse alla schiera degli «uomini del destino».
Capì che per raggiungere fama, prestigio e soldi non serviva una linea dinastica, fabbriche, eredità favolose, bastava una buona causa, anche se ci si doveva lavorare. A portata di mano, Arafat trovò la Palestina, dove musulmani ed ebrei convivevano da più di un millennio. Più intenso l’insediamento in Palestina, in pratica una fuga, degli ebrei europei nel clima di antisemitismo che soffiava in Europa e che in Francia culminò con l’affaire Dreyfus.
Theodor Herzl, un giornalista ebreo, tra la fin dell’‘800 e i primi del ‘900 capì che gli ebrei non erano più sicuri in Europa e prima teorizzo e poi fondò un movimento che portò in Palestina gli ebrei che volevano lasciare l’Europa. Erano 600.000 intorno al 1930. La coesistenza dei due popoli fu naturale e pacifica, fino a quando il Gran Mufti di Gerusalemme, massima autorità religiosa islamica, si rivelò un fanatico ammiratore di Hitler e dei nazisti.
Gli ebrei non erano più sicuri, nemmeno in Palestina.
Le vicende che hanno portato allo scontro mortale tra Paesi arabi e Israele sono troppo complesse per essere affrontate in queste pagina, dove, invece, è in primo piano l’uomo del destino, Arafat.
Con lui il terrorismo fece un tremendo salto di qualità. Qualcuno gli rimproverò di aver abbattuto, aerei civili, ma tutti ricordano la strage di atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco del 1972.
Arafat, fece presto a capire che più spettacolari erano le azioni terroristiche, più numerose le vittime, tanto maggiori erano gli aiuti in denaro da parte dei Paesi e delle istituzioni europee. La propaganda fece il resto: una tempesta di odio investì Israele, unico Stato democratico del Medio Oriente, dove vivono 1,5 milioni di cittadini arabi, musulmani se lo vogliono, che studiano in Università tra le migliori del mondo, che hanno raggiunto il Parlamento e oggi l’attuale governo è sostenuto da un Partito di matrice araba, che hanno raggiunto l’alta corte di giustizia, che esercitano le professioni liberali, che se gli chiedi di andarsene da Israele ti mandano al diavolo.
Molti dubbi sull’uomo del destino subentrarono dopo la sua morte nel 2004. Il suo patrimonio venne stimato in oltre un miliardo di dollari e la moglie Suha, tra l’altro cattolica, pensò bene di fare man bassa. Ci vollero anni all’Autorità Palestinese per recuperare la gran parte di quei soldi.
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Nel 1979 l’ayatollah Khomeyni, dopo 15 anni di esilio, cinque dei quali a Parigi, rientrò in patria a Teheran. Trionfalmente. Subito fondò una spietata teocrazia di cui fu a capo fino alla morte, nel 1989. Qualcuno si sentì autorizzato a osservare: «ecco ci mancavi solo tu».
In Francia, patria d’elezione dei cattivi maestri, era considerato un profeta e godeva di una ammirazione al limite del fanatismo, gli intellettuali facevano a gara a esaltarlo. Ci volle una grande giornalista e scrittrice italiana, Oriana Fallaci, a trattarlo come meritava: ottenuta un’intervista, ai silenzi e alle reticenze del santone si tolse il fazzoletto dal capo, gli girò le spalle e lo piantò in asso.
È finita con gli orrori d’ordinanza: repressione feroce di donne, omosessuali e oppositori, razzismo religioso, impoverimento dei sudditi, dittatura armata dei pasdaran, padroni del paese e ricercatori professionali di privilegi. Ormai i pasdaran sparano ad altezza uomo, anche quanto i cittadini scendono in piazza per protestare per la mancanza di acqua, come è accaduto i primi mesi del 2021.
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Che dire, infine, degli Assad e di Saddam Hossein, che hanno ridotto in macerie i loro paesi e le città delle Mille e una Notte, Damasco e Bagdad. Preso il potere con ardite velleità socialiste, inedite nei paesi arabi, ripiegarono sulla religione quando le loro dissennate e predatorie politiche ne avevano segnato la sorte.
EZIO CALDERAI (CONTINUA)
Una rivisitazione della storia dal tuo punto di vista
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Ci mancherebbe altro. Non è che la libertà di pensiero e di espressione fosse sconosciuta prima della Costituzione o di Roberto Benigni.
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Ci mancherebbe altro. Non è che la libertà di pensiero e di espressione fosse sconosciuta prima della Costituzione o di Roberto Benigni. Ezio Calderai
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