Denatalità e ricette del secolo scorso
di ROBERTO FIORENTINI ♦
“Noi vogliamo una Nazione nella quale non sia più scandaloso dire che, qualsiasi siano le legittime scelte e le libere inclinazioni di ciascuno, siamo tutti nati da un uomo e una donna. Nella quale non sia un tabù dire che la maternità non è in vendita, che gli uteri non si affittano, che i figli non sono prodotti da banco, che puoi scegliere sullo scaffale come se fossi al supermercato e magari restituire se poi il prodotto non corrisponde a quello che ti aspettavi.” Questo è un inserto dell’intervento della (o del?) Presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla terza edizione degli Stati Generali della Natalità, sullo stesso palco del Papa. Ed ancora: “Vogliamo restituire agli italiani una Nazione nella quale essere padri non sia fuori moda ed essere madri non sia una scelta privata, ma un valore socialmente riconosciuto. Una Nazione nella quale tutti, uomini e donne, riscoprano la bellezza di diventare genitori, di accogliere, custodire e nutrire un figlio. Una Nazione nella quale fare un figlio è una cosa bellissima che non ti toglie niente, che non ti impedisce di fare niente e che ti dà tantissimo.”
Da questo intervento e non solo dai due frammenti che ho scelto sembrerebbe quasi che il (grandissimo) problema della denatalità che affligge il nostro Paese (o Nazione?) dipenda da mode, attitudini e comportamenti degli italiani, infiacchiti da teorie gender, mollezze piccolo-borghesi e, in soldoni, poca voglia di sacrificio da parte degli italiani (e particolarmente delle italiane) in età da procreazione. Siamo sicuri che sia proprio questo il problema?
“Un popolo ascende in quanto sia numeroso” ripeteva spesso questo slogan Mussolini. “Per questo motivo il Governo Fascista protegge e incoraggia in tutti i modi l’aumento della popolazione. Esso colpisce con una tassa i celibi; favorisce con l’esenzione dalle tasse e con premi di varie specie le famiglie numerose; esalta la famiglia, primo nucleo della società umana e scuola dei sentimenti più delicati: ha creato e va diffondendo sempre più l’Opera nazionale per la protezione e l’assistenza alla maternità e all’Infanzia (ONMI).” A mio avviso l’intervento della Meloni non differisce granché dalla visione fascista per la quale fare figli per la patria era un obbligo morale sia nella prospettiva esplicita di rafforzare la forza militare del regime, sia per la volontà nascosta di far tornare le donne al focolare domestico lasciando agli uomini il compito di credere, ma soprattutto obbedire e combattere. Peccato, però che, nonostante la pressione della propaganda, negli anni del regime fascista la natalità in realtà diminuì: nel 1926 era di 27,7 nati per mille abitanti si ridusse costantemente fino a raggiungere il valore di 22,4 nel 1936, per riprendersi, ma solo debolmente, raggiungendo il valore di 23,5 nati per mille abitanti nel 1940.
Invece, pur senza particolari politiche demografiche, furono gli anni del miracolo economico quelli che hanno visto l’ultima impennata della natalità. Sono stati gli anni del baby boom, con un picco nel 1964, in cui si registrano oltre un milione di nati vivi e 2,7 figli medi per donna. Ora, però, l’Italia colleziona record negativi: ha il tasso di natalità più basso del mondo con meno di dieci nascite ogni mille abitanti, ha una delle più alte età delle donne al parto, ha il più forte e crescente divario tra nascite e morti. Insomma, esiste davvero un problema. Ma quello del Governo non sembra certamente l’approccio più giusto.
In Italia quindi si fanno sempre meno figli, anche rispetto a un contesto europeo dove pure la natalità è in calo. Un problema che presenta tanti aspetti diversi. Si ricollega ad esempio con la capacità del nostro paese di investire sulle giovani generazioni, con le condizioni economiche delle famiglie che hanno figli e con la sostenibilità a lungo termine del nostro stesso sistema economico e sociale.
L’Istat, in un suo recente studio, ha certificato che le famiglie con figli tendono a trovarsi più spesso in povertà assoluta, in particolare al crescere del numero dei figli. L’incidenza della povertà assoluta tra le coppie senza figli è del 5%, valore che cresce al 6,3% tra quelle con un figlio. Supera il 9% nelle famiglie con un solo genitore e nelle coppie con due figli. Tra quelle con almeno tre figli raggiunge il 15,4%. Una tendenza che negli ultimi anni si è persino aggravata. Sempre l’Istat ha segnalato che è aumentato il divario tra le generazioni. Nel 2005 c’erano già delle differenze, anche se non così ampie. Gli over-65 erano i più colpiti (il 4,5% era in povertà assoluta già prima della crisi), ma la distanza con la fascia d’età meno povera (quella tra 35 e 64 anni) era comunque inferiore ai 2 punti percentuali. L’altro elemento è l’inversione dei livelli di indigenza tra le generazioni. Un decennio fa erano gli anziani ad essere più in difficoltà, oggi al contrario sono i minori di 18 anni i più colpiti dalla povertà assoluta. Attualmente la quota di individui assolutamente poveri cresce al diminuire dell’età.
L’esigenza di lavorare e far entrare due stipendi in famiglia è certamente fra le principali cause del calo delle nascite. In Italia, infatti, quasi una mamma su due non ha un lavoro e si dedica unicamente alla famiglia: il 42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata e il 39,2% delle donne con 2 o più figli minori è in contratto part-time. Secondo un Report di Save The Children, sono circa 6 milioni le donne “alla continua ricerca di un equilibrio” tra famiglia e lavoro, spesso “senza supporto e con un carico di cura importante, aggravato negli ultimi anni a causa della pandemia”. Condizione questa che si traduce in una fuoriuscita delle mamme dal mercato del lavoro, perché in Italia le tutele di maternità le ha solo chi ha un contratto a tempo indeterminato.
Ma anche chi è occupato ha un concreto problema di reddito: 22,7 milioni di italiani non superano i 20.000 euro. Su 40,5 milioni di contribuenti, il 4% dichiara più di 2.850 euro netti al mese, mentre il 56% dichiara meno di 1.300 euro netti al mese. Inoltre, dei nuovi contratti attivati nel 2021, sette su dieci sono a tempo determinato, il part time involontario coinvolge l’11,3% dei lavoratori (contro una media Ocse del 3,2%), solo il 35-40% dei lavoratori atipici passa nell’arco di tre anni ad impieghi stabili, i lavoratori poveri rappresentano ormai il 10,8% del totale. Se consideriamo il 40% dei lavoratori con reddito più basso, il 12% non è in grado di provvedere autonomamente ad una spesa improvvisa, (quindi non ha risparmi o capacità di ottenere credito), il 20% riesce a fronteggiare spese fino a 300 euro e il 28% spese fino a 800 euro. Quasi uno su tre ha dovuto posticipare cure mediche.
C’è poi il problema di trovare una casa per mettere su famiglia. Il costo medio del canone di affitto in Italia si attesta a quota 538 euro al mese. A calcolarlo nell’ambito di un report dedicato al tema è l’Unione italiana del lavoro – Servizio Lavoro, Coesione e Territorio, secondo cui la spesa complessiva annua per la locazione tocca i 6.450 euro andando a incidere per il 19,9% sul budget familiare.
Salari bassi, contratti precari e, in aggiunta, difficoltà a trovare case in affitto a prezzi accettabili. Siamo davvero certi che la soluzione sia far “tornare di moda” la famiglia, come dice la Presidente Meloni? Intendiamoci: certamente, oltre agli aspetti fin qui trattati, esiste un problema di diverso atteggiamento da parte delle giovani generazioni nei confronti della famiglia, raccontato dal netto calo dei matrimoni, la voglia di continuare gli studi che trattiene spesso i giovani nelle case dei genitori, l’anteporre la carriera alla famiglia, l’instabilità sentimentale e la difficoltà a trovare partner con cui condividere progetti di vita, stili di vita mutati. Quindi il problema della denatalità ha motivazioni culturali e di costume, oltre a quelle di carattere economico qui descritte. Questo è un fattore che rende ancora più complesso individuare soluzioni a questa autentica emergenza. Gli slogan che sembrano quelli del secolo scorso non possono bastare ma occorrono iniziative nuove e intelligenti e massicci investimenti pubblici. Come nel caso della Svezia, unico Paese europeo che ha invertito il trend del calo delle nascite. Come ci è riuscita? Secondo l’Osservatorio Conti Pubblici di Carlo Cottarelli (su analisi dati Eurostat), la Svezia ha speso per “social protection for family/children” il 3 per cento del Pil, contro l’1,8 per cento speso dall’Italia e il 2,4 per cento medio dei paesi UE. In termini di euro pro capite, la Svezia si attesta su una spesa annua di circa 1.400 euro per persona, un valore quasi triplo rispetto a quello italiano (490 euro). Ciò significa che i benefici per le famiglie con figli assorbono il 10% della spesa pubblica totale svedese, contro il 6% dell’Italia. Il “modello Svezia”, coerentemente con il modello scandinavo di welfare, si caratterizza per poche e semplici misure universalistiche, cioè rivolte a tutta la popolazione senza alcuna prova dei mezzi (salvo rare eccezioni). L’unica condizione prevista per poter richiedere il sostegno economico riguarda solitamente l’età del figlio a carico. Le prestazioni sono erogate in forma di sussidi monetari o di agevolazioni nella fruizione di servizi pubblici (per esempio asili nido o trasporto pubblico locale), mentre è da sottolineare la totale assenza di interventi dal lato della tassazione.
Probabilmente non basta, perché anche gli stili di vita sono diversissimi tra noi e il paese scandinavo. Diciamo però che se almeno non si parte dal rimuovere quegli ostacoli che non permettono ai giovani di pensare serenamente al futuro, consentendogli di trovare lavori stabili e ben retribuiti, tra venti/venticinque anni l’Italia si troverà ad affrontare un enorme problema che manderà all’aria il concetto di welfare cui siamo abituati, altro che gli slogan da “Dio, Patria e famiglia” della Meloni.
ROBERTO FIORENTINI
E’ condivisibile porre in evidenza le cause economiche che scoraggiano la natalità.
Esiste tuttavia anche un fattore culturale, antropologico, che limita l’assunzione di responsabilità.
Proporre politiche di natalità è utopia. Il narcisismo moderno, che caratterizza il nostro tempo, impedisce di programmare: il presente è il tramonto di ogni ideale collettivo!
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Giusto rimettere in asse la questione da Stati Generali come fa oggi Fiorentini, enucleando le ragioni economico-sociali che hanno progressivamente destrutturato la concezione borghese dalla famiglia nucleare. Altrettanto giusto ricordare che all’interno di questo mutamento insistono forze psico-antropologiche che attengono al femminile, al suo Self e all’apprezzamento sociale, polituco e culturale troppe volte solo sbandierato e nei fatti ostacolato o compromesso.
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Penso che siano fondate entrambe le letture del fenomeno denatalità: quella economica è indiscutibilmente evidente, si potrebbe ribattere ( la vulgata comune spesso lo fa…) che in altri tempi , di miseria “vera” , c’erano più figli, ma si tratta, appunto, di “altri tempi”, con minori esigenze e consapevolezza di welfare. Ed è evidente che oggi la ricchezza di prole non è considerata…ricchezza, la prole – e le famiglie- ha rinnovate esigenze , diverse concezioni dei bisogni primari e così via. La laudatio temporis acti è uno sterile virtuosismo concettuale.
L’altro motivo è, a mio avviso, antropologico e culturale, come Carlo e Caterina suggeriscono e pertiene ad una diversa concezione della persona, non solo “femminile “, e soprattutto ad un diverso concetto del tempo e della sua gestione. Affamati di un lungo, lunghissimo,hic et nunc , tendiamo a spostare oltre l’orizzonte progettuale. In questa ottica, poco credo possano influire politiche più o meno accorte di incremento della natalità. Se , infatti, è possibile- sebbene non facile e non di breve durata- influire sui fattori economici, molto più complesso è intervenire sulla visione culturale ed antropologica con cui l’umanità o un Paese raccontano se stessi.
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Esistono anche le donne e le famiglie che non vogliono fare figli, mentre prima era socialmente difficile dirlo pubblicamente.
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Ottimo articolo, integrato opportunamente dai, commentatori. Grazie per l’intervento.
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