Giorgia e i suoi fratelli: venti di destra sullo Stato sociale

di NICOLA R. PORRO

Basta un’occhiata alla mappa geopolitica dell’Europa per constatare la metamorfosi che il vecchio continente ha conosciuto nell’arco dell’ultimo decennio. La destra-destra è al governo in Paesi chiave come l’Italia e in altri importanti come la Polonia e l’Ungheria. Si è inoltre insediata saldamente nelle democrazie scandinave, giudicate sino a tempi recenti il bastione inespugnabile del riformismo socialista. Potenze come la Francia e il Regno Unito sono governate da forze di centrodestra, insieme a Paesi Bassi, Lituania, Slovacchia, Croazia e Grecia. Fra i Paesi maggiori solo la Spagna è a guida progressista, insieme a Portogallo, Danimarca e Slovenia. Mai, dal secondo dopoguerra a oggi, un fronte conservatore – in alcuni casi a guida radical-populista – aveva concentrato in Europa tanto potere e goduto di tanta visibilità. Il fenomeno, peraltro, è maturato attraverso libere elezioni e in assenza di “crisi catastrofiche” come quelle che, fra le due guerre del Novecento, avevano creato le condizioni per le insorgenze reazionarie in Italia, in Germania, in Spagna e in altri contesti nazionali. 

Il New York Times del 18 aprile us ha proposto ai propri lettori – poco familiarizzati con il complicato panorama politico europeo – una riflessione sul tema a firma di Juliana Chueri e ispirata a un saggio pubblicato su The Loop e dedicato alla populist-radical-right. L’analisi si è concentrata sul caso italiano e sulla figura di Giorgia Meloni, individuata come la più rappresentativa della “mutazione genetica” in atto nelle democrazie europee. La redattrice del NYT ricorda tuttavia come una destra radicale, ma non riconducibile al modello dei fascismi storici, si fosse affacciata in diversi Paesi europei già una quarantina di anni fa. All’epoca le pulsioni populiste erano state intercettate piuttosto da personaggi outsider, estranei e ostili alla politica tradizionale e in qualche caso provenienti dal mondo dello spettacolo – come nel caso di Coluche nella Francia degli anni Ottanta e, più tardi del Grillo fondatore del Movimento cinquestelle in Italia. Abili a mimetizzare i contenuti reazionari della loro propaganda e a “sceneggiarla” in chiave mediatica, essi davano voce a una protesta di tipo plebeista e qualunquista più che propriamente populista. Pare anzi probabile che dei vecchi populismi ignorassero la natura e il contesto storico che li aveva partoriti. In qualche caso – si pensi alla Lega Nord nella sua originaria versione bossiana, fra gli Ottanta e i Novanta – l’appello populista si associava invece a forme di contestazione anarcoide di qualunque forma di centralismo e negatrici della stessa identità nazionale. Tematiche entrambe palesemente incompatibili con i capisaldi ideologici delle destre di qualunque colore. 

L’ondata più recente della destra radicale – quella cui stiamo assistendo – è invece riuscita a legittimarsi presso l’opinione pubblica di molti Paesi europei, ottenendo importanti risultati elettorali e candidandosi, in qualche caso con successo, ad assumere dirette responsabilità di governo. I Fratelli d’Italia, in particolare, hanno costituito una filiazione diretta di quella destra “postfascista” che – rinnegando silenziosamente la svolta di Fiuggi promossa da Gianfranco Fini nel 1995 – non aveva mai formalmente rinnegato la propria ascendenza ideologica. Va però riconosciuto che il vecchio establishment missino e le nuove leve, come Giorgia Meloni, hanno prodotto una comunicazione politica meno sbracata di quella leghista (specialmente nella sua versione bossiana e poi salviniana) e distinta da quella berlusconiana delle origini. Anche gli analisti internazionali convengono sul fatto che FdI, capace ancora oggi, secondo i sondaggi, di intercettare il consenso di quasi di un terzo dell’elettorato italiano, si distingua dalle forze propriamente populiste o neopopuliste sotto un duplice profilo. Da un lato, presenta una configurazione ideologica ancora inquinata da residui nostalgici ma meno eclettica e ondivaga di quella proposta da leghisti, berlusconiani e pentastellati. Dall’altro, appare meno propensa a coltivare linguaggi, codici comunicativi e forme espressive proprie della classica subcultura populista. La stessa Giorgia Meloni propone un’immagine inedita di leader della destra radicale aggiungendo sapore mediatico agli argomenti politologici. Ce n’è abbastanza, insomma, per spiegare l’attenzione crescente rivolta dai politologi e dai media internazionali al caso italiano. L’Italia, del resto, rappresenta pur sempre una media potenza: è la terza economia europea – la seconda, dietro la Germania ma davanti alla Francia, per export e per fatturato industriale – nonché un fondamentale avamposto strategico dell’Alleanza atlantica. Al di là degli aspetti di costume e di qualche dissertazione sociologica, gli opinionisti internazionali si concentrano dunque comprensibilmente sulle politiche concretamente sviluppate dalla destra radicale europea quando è stata chiamata ad assumere responsabilità di governo. 

Ad accomunare i programmi delle destre di governo, in Italia e negli altri Paesi a guida “sovranista” ci sono quattro tematiche cruciali:

(i)             l’intenzione di limitare i presunti “abusi” del welfare contenendone i costi e limitandone le prestazioni, soprattutto a danno degli immigrati e dei richiedenti asilo; 

(ii)            politiche di forte contrasto all’immigrazione;

(iii)          un inasprimento dei programmi di contenimento della criminalità; 

(iv)          un’agenda economica di ispirazione neoliberista temperata, nel caso italiano, dalle suggestioni solidaristiche proprie della cosiddetta “destra sociale”. 

Già a metà degli anni Novanta, del resto, le destre europee avevano cominciato a occuparsi di politiche redistributive con il dichiarato intento di contendere alle sinistre la bandiera della lotta alle disuguaglianze di reddito e di opportunità. A fare da battistrada era stato il Partito popolare danese (DF) che aveva mietuto significativi successi elettorali non più contestando lo Stato sociale bensì atteggiandosi a suo “autentico difensore” contro le inefficienze e gli sperperi imputati ai governi socialdemocratici. Il messaggio mirava a sedurre una classe operaia in via di accelerata mutazione, preoccupata degli effetti dell’innovazione tecnologica, sempre meno fidelizzata ideologicamente e sempre più differenziata al proprio interno. Facile preda, perciò, di una propaganda centrata sull’idea che la sola difesa efficace dello Stato sociale consistesse nell’escludere dai suoi benefici la popolazione immigrata. Questa filosofia di “sciovinismo assistenziale” avrebbe via via conquistato anche gli altri Paesi scandinavi, avanguardia storica e laboratorio sociale di un regime di welfare generoso e universalistico.

Nel 2022 i Democratici Svedesi (SD), guidati dal leader populista Jimmie Åkesson, sono diventati il secondo partito del Paese, un tempo roccaforte inespugnabile del riformismo socialdemocratico, conquistando oltre un quinto dei voti. La martellante campagna degli SD si era concentrata su due soli temi: contro i migranti, presentati come i responsabili del “degrado” del welfare, e a favore di un’implacabile repressione della criminalità. Il loro lapidario quanto eloquente slogan elettorale era: “Scegli: o immigrazione o welfare”. La destra radicale, rivolgendosi a un elettorato timoroso di perdere protezione sociale, ha cercato di indossare così i panni di un inedito e combattivo partito dei lavoratori.

Certo: a osservatori smaliziati la cosiddetta “agenda distributiva” della destra radicale appare nient’altro che un’operazione di marketing elettorale. Priva tanto di ancoraggi teorici quanto di conoscenze adeguate alla complessità delle politiche pubbliche, quando è stata chiamata alla prova del governo (soprattutto nelle istituzioni locali), la nuova destra scandinava non ha saputo fornire risposte efficaci. I costi delle sue politiche sono risultati insostenibili e quasi insormontabili le complicazioni burocratiche. I malumori dei ceti popolari – a cominciare proprio dagli operai di fabbrica – sono stati perciò rinfocolati attizzando il rancore sociale contro i “beneficiari abusivi” del regime di welfare, identificati principalmente con gli immigrati recenti. Tale campagna, nel caso scandinavo, ha così assunto colorazioni sempre più esplicitamente razziste con il crescere, in quota di composizione, degli immigrati extra-europei.

Malgrado gli insuccessi, quel miscuglio improvvisato e incoerente di posizioni di sinistra e di destra – ancora più rozzo di quello proposto dalla cosiddetta “Destra sociale” italiana – continua a esercitare in Scandinavia un certo appeal in un’opinione pubblica disorientata. Sondaggi recenti relativi alle motivazioni di voto hanno mostrato, infatti, come a ispirare il consenso alla destra radical-populista fosse soprattutto la proposta di programmi assistenziali ancora più generosi di quelli tradizionali ma limitati ai soli cittadini “nazionali”. Quel messaggio tossico non ha perso efficacia e si è anzi rivelato contagioso anche al di fuori dell’area nordica. Se infatti le forze di ispirazione nazionalista e identitaria incontrano obiettive difficoltà a dar vita a movimenti transnazionali e sono tendenzialmente refrattarie a misurarsi con il “pensiero complesso” dell’economia e della finanza globalizzate, sono però ancora sostenute da un diffuso quanto insidioso “comune sentire”.  Esso ispira a ogni latitudine politiche redistributive di facile presa, ispirate all’egoismo nazionale più che alle consunte retoriche nazionalistiche. L’elezione, nel settembre 2020, di Giorgia Meloni a presidente dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr) – uno schieramento euroscettico e ideologicamente composito – assume in questa chiave un significato preciso. 

La destra radicale, ribattezzatasi “conservatrice”, infatti, non contesta lo Stato sociale in quanto tale bensì le sue carenze e contraddizioni. Si candida così a rifondare quel sistema di welfare che, sin dagli anni Trenta, aveva rappresentato la bandiera identitaria delle sinistre europee. Per questa via, e non senza spregiudicatezza, il radicalismo di destra tenta di sottrarsi alla tenaglia ideologica rappresentata dalla canonica opposizione fra sinistra e destra. Non aspira a riformare il welfare perché troppo costoso (come nella critica neoliberista) bensì a sostituirlo con un regime dualistico: generoso con quanti “meritano” protezione sociale (deserving) ma del tutto disinteressato ai destini di quanti non la meritano (undeserving). Per i primi – identificati con i lavoratori attivi, con i titolari di una lunga storia lavorativa e con i pensionati – l’ultradestra sostiene una logica quanto mai “protezionista”: politiche compensative e prestazioni sociali generose in materia di pensioni, assistenza sanitaria, assegni familiari e indennità di disoccupazione.

Il pieno accesso alle prestazioni di welfare è invece negato agli “immeritevoli”, intesi come gli stranieri di immigrazione recente (i vecchi immigrati, al contrario, militano non di rado nelle fila delle destre) e i cittadini che “non contribuiscono abbastanza alla Nazione”.  La condizione di disoccupato di lunga durata si trasforma così in una specie di stigma morale. Come le “classi pericolose” descritte da Foucault, gli immeritevoli non dovrebbero possedere diritti bensì essere sottoposti a una speciale sorveglianza dello Stato. Possono accedere semmai a benefici parziali, regolati da politiche di workfare – forme assistenziali erogate dai datori di lavoro – e limitati a prestazioni essenziali. Questa visione segregazionista dell’ordine sociale non è un’invenzione recente ma si attaglia perfettamente alla filosofia e alle retoriche della destra radicale europea. Ovunque sia andata al potere, essa ha infatti sempre perseguito politiche coerenti con una visione “selettiva” del welfare: in Italia Giorgia Meloni ha minacciato di negare l’accesso all’assistenza sociale a coloro che rifiutano le offerte di lavoro, inaugurando una linea di contrasto frontale a ogni “abuso di welfare”. Anche il nuovo piano del governo svedese, su pressione del partito di Åkesson, prevede tagli alle tasse per i pensionati accompagnati da norme più severe e più restrittive in materia di sussidi agli immigrati. Questo genere di policy ha influenzato anche in area UE un vasto arco di forze, compresi governi e partiti non classificabili come destra radicale. 

Quella che si profila è insomma una rivoluzione allo stesso tempo sociologica – cambiano il regime di protezione sociale e i suoi i destinatari – e politico-culturale perché muta la stessa mappa dei diritti e dei doveri. Il welfare proposto dalle nuove destre europee si fonda su un’obbligazione morale, oltre che ideologica, che privilegia i garantiti ed esclude i “reietti”. Qualcuno ha scomodato in proposito l’etica calvinistica, altri vi hanno individuato un singolare connubio fra riconoscimento di un sistema di diritti e cultura dell’esclusione. Di certo l’idea che lo Stato sociale debba essere riservato a pochi “meritevoli” configura una gerarchia di rango antiegualitaria e incompatibile con i princìpi ispirati a quel binomio diritti-solidarietà che rappresenta la pietra angolare sia del cristianesimo sociale sia del pensiero socialista. A qualsiasi latitudine, per la nuova destra radicale lo Stato non è tenuto a interessarsi della povertà: la distinzione fra “meritevoli” e “immeritevoli” attiene all’ordine morale, non a quello sociale. Serve però a giustificare nella pratica un regime di acute disuguaglianze che incontra il favore di una parte consistente della stessa classe operaia, un tempo sostenitrice di politiche redistributive e bastione politico della sinistra storica. Lo Stato sociale europeo, invece, pur avendo conosciuto cambiamenti profondi, non aveva mai rinunciato a perseguire princìpi di eguaglianza. Il tempo di Giorgia e i suoi fratelli si annuncia foriero di tempeste.

NICOLA R. PORRO

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