“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – UN SOGNO SPEZZATO DAL FASCISMO

di STEFANO CERVARELLI

Milano, 11 giugno 1933.

Data storica per lo sport italiano; si disputa infatti, sul campo rionale di via Fabio Filzi, la prima partita di calcio femminile, pubblica, in Italia.

E come quasi sempre avviene nella nascita di uno sport (basta ricordare come nacque il Basket) anche questa disciplina nasce per caso: questa volta in un parco pubblico.

Ci troviamo, sempre a Milano, nei giardini di Porta Venezia, un anno prima; un gruppo di ragazzini, dopo aver fatto le porte con maglioni e giacche, sono impegnati in un’accesa partita di calcio, sport  che, pian piano in fatto di popolarità, stava soppiantando il ciclismo nel nostro Paese.

Molti di quei ragazzini, sicuramente nelle loro stanze, (chi l’aveva una stanza propria) o in qualche angolo di casa, sicuramente avevano la foto del loro più grande beniamino: Peppino Meazza, bomber dell’Ambrosiana Inter, o magari di altri giocatori, quelli che, a distanza di due anni, si sarebbero laureati Campioni del Mondo, sotto la guida di Vittorio Pozzo, dando così all’Italia il primo titolo, bissato quattro anni dopo, intervallato dall’alloro olimpico del 1936.

Personificandosi nei loro campioni preferiti quei ragazzini stanno portando avanti la partita con molto fervore, senza risparmio di energie e .. di colpi.

Ad un certo punto, il pallone scagliato con forza finisce accanto ad una panchina dove si trovano sedute alcune ragazze.

Chi è che avendo un pallone vicino non cede alla tentazione di dargli un calcio? Così una di loro, Rosetta, si alza velocemente e sferra un calcio alla sfera di cuoio con l’intento di rispedirlo ai ragazzi, il tiro è violento, secco, il pallone arriva preciso tra i piedi di un ragazzino.

Questo, nel riceverlo, non riesce a nascondere una certa sorpresa, guarda la ragazza e le si rivolge dicendole forte, per essere sicuro di essere sentito: “Uè, ma tu dovresti giocare a calcio!”.

E’ l’inizio della storia della prima squadra di calcio femminile.

Le prime protagoniste sono quelle ragazze che stavano sedute sulla panchina e che poi erano tre sorelle: Rosetta, Marta e Giovanna Boccalini, quest’ultima però, pur essendo abbastanza brava con il pallone, non farà parte della squadra perché  già madre di due bambini, ma contribuirà a costituire il Gruppo Calciatrici Milanesi.

Le componenti di questo  gruppo sono ragazze molto giovani, tra i sedici e i vent’anni, e il numero delle iscritte va sempre più aumentando; si cerca, e si trova, l’allenatore e un presidente della società; iniziano regolari allenamenti, sopra un  campo, però, che niente ha a che vedere con manti erbosi, ricolmo com’è di fango e sassi.  Avendo giocatrici a disposizione vengono formate due squadre: una ha i colori nerazzurri dell’Inter, squadra di cui tutte erano tifose, mentre l’altra ha la maglia color granata con il logo del Cinzano, in omaggio al presidente il quale, oltre ad essere tifoso del Torino, era un commerciante di vini.

Ovviamente nella tenuta di gioco delle ragazze non comparivano i calzoncini corti da calciatore: era impensabile; sì, va bene giocare al calcio, però……le giocatrici indossano un gonnellino nero  che arriva appena sopra il ginocchio e calzettoni alti per coprire il più possibile le gambe , con scarpe fatte fare alla bell’e meglio. Apro una parentesi: siamo nel 1932-33, dovete sapere che in altri Paesi  Europei il calcio femminile è già realtà consolidata e le atlete possono giocare con i più comodi calzoncini. Le nostre pioniere, data l’aria che tira (lo vedremo meglio dopo) non se la sentono di osare tanto; per loro poter giocare è già un grosso traguardo.

Intorno alla squadra nasce l’interesse dei giornali e con questo anche quello della collettività: lo scetticismo però è  ancora prevalente. Opinione diffusa è che per le donne può andar bene il tennis, l’atletica, il nuoto così così perché “ gonfia” i muscoli e “ rovina” l’estetica; ma il calcio! Il calcio proprio no, non è adatto a delle signorine, per giunta “di buona famiglia” il contatto fisico non è adatto a loro.

Nelle motivazioni contrarie trovano spazio altre considerazioni. C’è il rischio di ricevere una pallonata con il pericolo, si sostiene,  di compromettere la capacità di fare figli. E  questa è un’eventualità che assolutamente non può trovare spazio nell’Italia fascista.

Addirittura, in proposito, si decide di ascoltare  un illustre cattedratico, Nicola Pende,dell’Università di Genova; questi, nella primavera del 1933, scrive una lettera in cui dice: “Dal lato medico nessun danno può venire alla linea estetica del corpo, né agli organi femminili e sessuali in specie” quindi conclude “gioco del calcio sì, ma per puro diletto e con moderazione”.

Confortato anche da questa tesi il capo del CONI, Leandro Arpinati, darà via libera al riconoscimento della disciplina.

E così arriviamo a quella fatidica data di cui dicevo all’inizio.

La prima partita ufficiale di calcio femminile disputata,in pubblico, in Italia. La cronaca ci fa sapere, attraverso le pagine del giornale CALCIO ILLUSTRATO che l’incontro finì 1-0  per il Cinzano con rete di Mina Bolzoni. Nei giorni precedenti la partita le ragazze non stavano più nella pelle e l’emozione aumenta ancor più  quando, ad un loro allenamento, assistono i campioni dell’Ambrosiana Inter guidati da Peppino Meazza!

Si preparano grandi progetti  per l’autunno seguente, si parla anche di organizzare trasferte e, forse, chissà, se ci sono squadre a sufficienza, anche un piccolo campionato. Insomma l’entusiasmo non viene meno, così come le idee. Ma…. ma tutto improvvisamente svanisce, il nuovo presidente del Coni, Achille Starace si rivela essere molto meno aperto del suo predecessore, specialmente in materia di sport femminile.

Sebbene mancassero ancora quasi tre anni alle Olimpiadi il regime era interessato a che le donne  si preparassero al meglio nelle discipline ammesse ai Giochi di Berlino del ’36; il calcio non era ancora tra queste.

Starace addirittura arrivò a mandare alcuni funzionari al campo dove le ragazze erano solite allenarsi per selezionare quelle più brave da avviare ad altri sport; a questo fece seguito una circolare con la quale si vietava il calcio femminile!

L’avventura era finita, il regime fascista proibì alle donne di giocare al calcio.

Rosetta passò alla pallacanestro (che tra l’altro sempre sport di contatto era) vincendo tre campionati con l’Ambrosiana, sua sorella Giovanna divenne partigiana e fu tra le fondatrici della rivista NOI DONNE per poi, dopo la guerra, diventare consigliera comunale a Milano e vicepresidente dell’INPS.

Dovettero passare 35 anni per vedere nascere la Federazione Italiana Calcio Femminile, era il 1968 e chissà che le rivendicazioni in atto allora non abbiano avuto il loro peso nella decisione. Il calcio femminile italiano tocca il suo vertice (fino a questo momento) nel 2019 quando ai Mondiali in Francia le azzurre, guidate da Milena Bartolini, si fanno applaudire per i loro successi. Un applauso nel quale non si può  fare a meno  di accomunare le loro, sportivamente parlando, antenate, alle quali solo il regime fascista impedì di realizzare il loro sogno.

STEFANO CERVARELLI