RUBRICA “BENI COMUNI”, 42.2. SOSTENGO IL (GRAN-DE) TAURINO! (seconda parte)
di FRANCESCO CORRENTI ♦
(2. continua dalla puntata precedente)
“Sostengo il grande e unico toponimo di Taurino” è l’affermazione completa del titolo di questa quarantaduesima puntata della rubrica, con cui ho terminato la prima parte e riprendo adesso la seconda parte della trattazione. Se non è chiaro, lo ripeto: io ritengo che la denominazione di “Terme Taurine” sia quella giusta, storicamente corretta, per indicare “uno dei complessi romani più notevoli della zona”, come scrive Mario Torelli, Guide archeologiche Laterza, 3. Etruria, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari 1980, pp. 115-117. Non solo, ma la stessa denominazione va attribuita anche alla vasca a gradoni arrotondati e con pianta a “stadio” nella località della Ficoncella ed alle altre strutture termali della stessa zona, cioè di quell’ampia parte della campagna a monte di Civitavecchia, dove si deve ritenere localizzato l’abitato municipale di Aquae Tauri che dà nome ai luoghi. Anche il Calisse (Storia, p. 70, cont. n. 3 di p. 69, cit. in Chome, n. 268 p.157) scrive: «In questi anni delle invasioni saracine deve porsi anche la fine delle terme taurine, già luogo abitato, come si è veduto, e che oramai vien coperto da secolare silenzio, fino ai tempi recenti, quando se ne sono esplorati gli avanzi e meglio utilizzate le acque salutari». In realtà, pur se saccheggiata in quegli anni, la zona delle terme continuerà la sua esistenza, collegata al centro monastico-templare di S. Giulio e poi di S. Egidio, ma è da notare la dicitura “terme taurine” con iniziali minuscole del sostantivo e dell’aggettivo, a indicare generici impianti in una certa zona e non il nome proprio di edifici specifici.
Non ha ragione di essere, invece, l’espressione “Terme di Traiano” applicata a quel grande complesso archeologico, un’espressione che, come “Bagni di Traiano”, possiamo far risalire agli studi sulle origini della città compiuti verso la fine del XVII secolo e i primi anni del XVIII da Giuseppe Rocchi, da Arcangelo Molletti (1700-1721) e da altri. In proposito, è da ricordare quanto ha scritto Odoardo Toti, la cui scomparsa, seguita a quella dei grandi pionieri degli studi locali commemorati in alcune puntate della rubrica – Scotti, Bastianelli, Barbaranelli, Cordelli… – cui si sono aggiunti di recente Fagliari Zeni, Serangeli e Maffei, ha rappresentato la chiusura definitiva – ancora non completa – del capitolo novecentesco della storiografia civitavecchiese, animato da scoperte, riscoperte, confronti e contrapposizioni. Questa la prefazione di Toti al suo lavoro del 1992, la Storia di Civitavecchia, vol. I:
“Storici e cronisti di varia estrazione culturale, si sono avvicendati, dal XVI secolo, a raccogliere, ordinare, interpretare, talvolta ampliando con pure invenzioni fantasiose, la storia della città di Civitavecchia. Se la paziente e difficile opera di raccolta delle testimonianze e dei documenti, compiuta via via con una progressione crescente, offre oggi a noi tutti una messe di notizie di considerevole rilevanza, non di meno lo storico moderno ha il dovere di tentare una sintesi che spazi via tutto ciò che non può essere razionalmente accettato ed offrire una analisi o una ricostruzione esclusivamente fondate sulla documentazione probante e attenendosi alla logica e alla certezza delle prove archeologiche, se queste ultime si offrono come ausilio alla ricerca.”
Una nota del testo riporta alcune osservazioni interessanti, tuttora utili per ricostruire secondo la loro cronologia effettiva il progressivo sviluppo delle ricerche e delle elaborazioni in campo storiografico, con l’apporto basilare del CDU comunale, sgombrando il campo da quelle “pure invenzioni fantasiose”, su cui aveva giustamente puntato l’indice:
“A cura dello scrivente e di Francesco Correnti è in corso lo studio e la pubblicazione integrale del manoscritto dal quale sono tratte le pagine qui riportate. La figura di Arcangelo Molletti è stata posta nella giusta luce, per la prima volta, da Francesco Correnti nel prezioso volume “Chome lo papa uole” edito dalla Cassa di Risparmio di Civitavecchia nel 1975; questo lavoro è un esempio chiaro di uno storico estremamente corretto nell’esporre le sue idee e nell’informare sulle fonti disponibili. Sul Torraca: F. Correnti, “Gaetano Torraca e la storiografia civitavecchiese nel Settecento”, Introduzione alla ristampa anastatica dell’opera Delle Antiche Terme Taurine, a cura del Centro di documentazione urbanistica sull’assetto del territorio e la storia urbana del Comune di Civitavecchia, 1991.”
Dall’immediato dopoguerra fino agli anni Sessanta, la prassi usuale degli studi locali di giovani appassionati, svolti prevalentemente nell’ambito della comunque esemplare attività dell’Associazione Archeologica “Centumcellae” – necessariamente diversi dalle opere di altissimo livello culturale e di vasto orizzonte di Fernando Barbaranelli – faceva riferimento alle storie municipali edite dal Settecento al Novecento, con piena adesione alla Storia insuperabile – e peraltro dall’autorità incontestabile – di Carlo Calisse. La stessa accettazione acritica della leggenda tradizionale del “ritorno” dalla Centocelle leonina alla Civita Vecchia continuava a trovare credito generale, fuorviando l’approfondimento della vera storia di Civitavecchia, nonostante il saggio esaustivo, dichiaratamente in antitesi, di Philip Lauer e le precise controdeduzioni del Signorelli e del Silvestrelli, riprese da Odoardo Toti nel 1958, che aveva chiarito egregiamente l’attribuzione all’una o all’altra città dei documenti e dei fatti più ragguardevoli di quel periodo, pur non trovando nei contemporanei una concreta presa d’atto e l’accoglienza completa fino alla pubblicazione del mio Chome lo papa uole… nel 1985 (già anticipata su molti argomenti fin dal ’75).
Fu quindi una vera innovazione, in quella città ancora immersa nel clima ambiguo della ricostruzione dalle ferite e dai vuoti creati dai bombardamenti e dagli sgombri delle macerie, il criterio dato alla ricerca storico-urbanistica avviata nel 1975 ed all’attività del CDU/Centro di documentazione urbanistica sull’assetto del territorio e la storia urbana, istituito con deliberazione del Consiglio Comunale n° 500 del 18 novembre 1977. Infatti, ad approfondimento delle analisi e delle tesi svolte con Paola Moretti in ambito universitario dagli anni Sessanta, che avevano già portato al reperimento, alla classificazione e alla riproduzione dell’immensa iconografia – soprattutto progettuale e di rilievo dello stato di fatto – da tutti gli archivi possibili, il lavoro ha riguardato la “rilettura critica” e la pubblicazione (con eventuale ristampa anastatica) di tanti documenti anteriori, inediti oppure fino a quel momento conosciuti, appunto, solo attraverso le citazioni del Calisse e del Guglielmotti, ma mai letti e studiati direttamente sulla fonte originale, disegno autografo, manoscritto o stampato d’epoca che fosse. Ed ecco, così, la “scoperta” o il “ritrovamento” di vere e proprie “mitiche reliquie” e cabrei, mappe, brogliardi e quant’altro, della scomparsa Libraria domenicana, della Confraternita della Morte e dei Fatebenefratelli (questi appena trasferiti al nuovo Ospedale San Paolo), dell’Ufficio del Registro, dell’Archivio Notarile Mandamentale e dell’Archivio Comunale, a Civitavecchia, o dei fondi della Biblioteca Apostolica e Archivio Segreto, della Casanatense, dell’Accademia di San Luca, della Calcografia, dei Fatebenefratelli a via della Nocetta, dell’Ospedale di San Giacomo in Augusta, della nuova cappella dell’Istituto Massimiliano Massimo dei Gesuiti all’EUR, dell’Archivio di Stato e Archivio Centrale dello Stato, e degli Uffizi a Firenze, della Civica Raccolta delle Stampe “Achille Bertarelli” di Milano, della Nationale di Parigi e del Museo di Dresda, e così via, con la collaborazione, l’intervento, il consiglio, l’aiuto o il ricordo di tanti e ne scrivo alcuni pochi nomi in disordine, ripensando a quel primo periodo di ricerche, perché ognuno rappresenta un momento di forte emozione: padre Giovanni Di Mattia, Carlo Galli, Fabrizio Pirani, Franco Nemesi, Gianni M. Amicizia, Luciano Gargiullo, Silvio Caratelli, Fabrizio Ferrari, Basilio Pergi, Armando Blasi, Giuseppe Scotti, Umberto Mazzoldi, Renzo Mancini, Goffredo Marconi, Renato Amaturo, Aldo Ferri, Arnaldo Bruschi, Libero Urbani, Attilio Monti…
Torneremo in altro momento su quegli anni entusiasmanti che videro il concorso di molte persone affiatate, anche se di diversi orientamenti e in varie collocazioni, nel perseguire alcuni obiettivi comuni, convergenti su una nuova e più ambiziosa opera di ricostruzione, dopo quella materiale del tessuto urbano, viziata da gravi lacune, ormai compiuta dalla generazione precedente, non solo per restituire alla collettività cittadina quell’identità sociale di cui oggi tanto si parla (deplorandone l’isolamento e l’incapacità di dialogo con le altre), ma proprio per salvarne le molteplici tessere, i frammenti dispersi, le “reliquie” appunto. Che ho definito “mitiche” per esprimere la sensazione emotiva di riconoscerle, avendone avuto cognizione indiretta da chi le aveva consultate tanti decenni prima, e constatarne, secondo i casi, la miracolosa sopravvivenza o le mutilazioni oppure l’irrimediabile scomparsa. Ne abbiamo fornito un quadro panoramico con gli otto articoli delle Ultimissime dal Medioevo, focalizzando alcune scene con le cinque puntate delle Notizie dalla Preistoria e altri racconti episodici. Accogliendo un suggerimento impegnativo, si potrebbe compilare una rassegna più rigorosa, ragionata, ricognitiva di aspetti molto particolari… Vedremo… Se… Ma… I problemi sono i soliti o peggiorati, gli ostacoli sempre gli stessi o più gravi, le difficoltà, la mancanza di condizioni essenziali, il contesto… scoraggiante. Vedremo…
È il caso di ascoltare, nuovamente, il racconto autobiografico di padre Labat. Consulto quindi l’Indice dei nomi e delle cose notevoli dell’edizione 1995, fedelissimo all’originale anche nello spirito: “Bagni dell’Imperatore Traiano, trovati sotto il Convento dei Domenicani a Civita Vecchia, [pagina] 282”. Apro alla pagina e leggo, con la sensazione di poter apprezzare e condividere il pensiero di un amico, di un collega, animato dalle stesse curiosità e passioni, sinceramente interessato e coinvolto come noi. Racconta, il frate-architetto, che le tante ore trascorse per dirigere i lavori di sistemazione di cui era incaricato, scavando e ritrovando antichi ambienti sotterranei sotto i locali conventuali di Santa Maria, malgrado il caldo e l’umidità, non gli avevano provocato il minimo inconveniente:
“Forse, il piacere che trovavo in questo lavoro impediva alla presunta malaria di agire su di me. Questo piacere non fu di poco conto, perché trovammo a circa dodici piedi sotto il livello della strada i resti perfettamente conservati dei Bagni che l’Imperatore Traiano aveva in quel luogo, che facevano parte del Palazzo delle cento camere che questo Imperatore aveva fatto costruire in riva al mare, di cui Plinio il giovane ci parla nelle sue lettere. L’esistenza di questi resti toglie il dubbio del Traduttore delle stesse lettere che il Palazzo delle cento camere fosse nel luogo che oggi si chiama Civita Vecchia e che in Latino ha il nome di Centum Cellae, ovvero le cento camere. […] La parte più integra che ho trovato dei Bagni di Traiano era un corridoio di circa 7 piedi di larghezza per 10 piedi di altezza attraverso il quale si entrava nelle piccole camere Dove ci si andava a riposare dopo essere usciti dal calidario. […] La scoperta del corridoio, di cui misurai la profondità, mi fece conoscere che le nostre cantine avevano fatto parte di questi Bagni, ma benché fossero molto rialzate, bisognava certamente che il suolo forse a livello di quello del Corridoio, perché erano per più della metà colme di terra e di rovine. Ciò mi obbligò a far scavare in quel luogo e infine scoprii il fondo […] molto più bello, poiché era tutto di Mosaico, così vivo dopo essere stato lavato, come se fosse appena uscito dalle mani dell’operaio. Trovai ancora la stessa cosa, facendo le fondazioni dei pilastri d’un lato del Chiostro che non era stato completato e mi sono convinto che tutto il cortile, lo spazio che occupa la Chiesa e l’edificio del Convento e la maggior parte della Città dalla Darsena fino alla porta di Roma erano occupate da questo Palazzo.”
Come vediamo, il domenicano parigino aveva le idee molto chiare sulla posizione e sulla conformazione degli edifici traianei anteriori alla costruzione del porto, più chiare e veritiere di quelle che ancora capita di ritrovare espresse superficialmente ai giorni nostri. L’unica imprecisione riguarda l’attribuzione delle sale termali pavimentate a mosaico poste sotto quelle che erano le stanze del convento verso Campo Orsino e circa metà del chiostro completato proprio dal Labat, e che oggi sono (sarebbero) visibili nel piano interrato del condominio a sinistra, guardando verso il porto ed il mare, della piazzetta Santa Maria, costruito – nonostante la presenza di quelle notevoli vestigia archeologiche – negli anni Sessanta dalla ditta Verticchio. Sono i resti di quegli edifici a due o tre piani, prospettanti verso il mare, di cui restavano strutture notevoli ancora ai primi del ’500 (Leonardo da Vinci ne schizza l’aspetto) ed erano dovuti a importanti trasformazioni apportate tra la fine del Il secolo e gli inizi del III, cioè negli anni di Settimio Severo: una parte delle costruzioni traianee viene abbattuta e sostituita da un nuovo corpo di fabbrica con sale destinate a balnea, bagni pubblici, e con una serie di tabernae allineate sulla strada a monte. L’edificio costituisce, evidentemente, quella che oggi definiamo un’attrezzatura sociale e dimostra che, all’epoca della sua costruzione, è ormai in atto quell’evoluzione in senso urbano, destinata a rendere Centumcellae il centro più importante e vitale della zona, parallelamente al declino delle antichissime città d’origine etrusca e delle colonie marittime.
Dato a Cesare quel che è di Cesare, nei vari siti del territorio civitavecchiese arricchiti da antiche preesistenze termali, passiamo ad un breve riepilogo degli scavi, delle scoperte e dei restauri che hanno consentito di rimettere in luce e rendere fruibile il grande complesso delle Terme Taurine, dette impropriamente “di Traiano” (a partire dal XVI secolo), risalenti per la parte settentrionale agli anni intorno all’80 a.C. Quando a Roma, con la proclamazione di Silla dittatore a tempo indeterminato da parte dei senatori rimasti, dopo la sanguinosa repressione dei populares seguaci di Mario, ormai scomparso, si placa la violenza della guerra civile e si instaura un breve periodo di tregua. Forse, possiamo immaginare che siano lavori dovuti proprio al nuovo corso, i cui effetti abbiano raggiunto pure Aquae Tauri. Il nuovo sistema statale ha mantenuto esteriormente il carattere repubblicano e tuttavia, di fatto, le vecchie garanzie per bilanciare il potere oligarchico sono state revocate, come è stato annullato il potere dei tribuni della plebe ed il comando sull’esercito dei consoli. In tale clima, la confisca dei beni dei proscritti ed il loro acquisto a prezzi irrisori da parte dei “vincitori”, il loro arricchimento e la moltiplicazione dei loro possedimenti”, potrebbe delineare proprio i presupposti per l’iniziativa (se di tipo imprenditoriale) di realizzare un impianto d’uso pubblico non lontano dall’abitato municipale in cui risiede uno dei numerosissimi popoli della regione augustea dell’Etruria – e cioè Aretini Antichi, Fidenziori e Iuliensi, Amitinensi, Blerani, Cortonensi, Capenati, Clusini Nuovi e Veteri, Fiorentini, Fiesolani, Nepesini… Pistoiesi e Perugini… Tarquiniesi, Tuscaniensi, Veientani, Volaterrani, Volcenti, Volsiniesi e altri ancora – quella degli Aquenses cognomine Taurini, gli “Acquensi denominati Taurini”, come scrive Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, III, 52) più d’un secolo e mezzo dopo, all’incirca nel 77 d.C., due anni prima di morire nel porto di Stabia durante l’eruzione del Vesuvio, nel tentativo di portare aiuto, come comandante della flotta, a quegli abitanti. Da notare che la flotta romana di Plinio senior era la “Classis Misenensis”, stanziata appunto a Misenum, ed era stata istituita da Augusto per il controllo sul Tirreno, insieme a quella di Ravenna per il controllo sull’Adriatico, ma nel sepolcreto dei classiari del porto traianeo ad Centumcellas, costruito quasi un trentennio dopo (con opere esattamente descritte proprio dal nipote di quel Plinio), sono state trovate lapidi di marinai appartenenti ad entrambe le flotte. Possiamo supporre che anche costoro siano stati, nel tempo libero, tra i frequentatori dei Balnea, che intanto, tra il 120 e il 140 d.C. si sono accresciute della parte voluta da Adriano, senza però prendere – come nota il direttore di Latina Gens Tarquinio Oreste Locchi – “il nome dell’imperatore che le fece costruire, ma bensì quello che già avevano le acque fin da antichi tempi, cioè: Terme Taurine”.
Nello stesso capitolo sulle Terme del volume monografico (Civitavecchia “vedetta imperiale sul mare latino”, Roma 1932, p. 59-62) – cui rimando le amiche e gli amici del blog – è tracciata una dettagliata sintesi delle vicende storiche del monumento ed una descrizione dello stato dei ruderi riportati alla luce, con un’accurata ricostruzione del funzionamento in epoca romana, che ci consente di capire l’aspetto originario delle sale, la forma delle volte, i ricchi materiali dei rivestimenti e le varie zone – articolate in relazione alle attività cui erano destinate, igieniche, curative, distensive, ludiche, sportive o di relax, proprio come negli stabilimenti moderni – e quindi gli ingressi, gli spogliatoi, le piscine, i soggiorni, le palestre e le biblioteche, i portici e i giardini, con zone miste comuni e altre riservate alle donne o agli uomini, e i locali di servizio, i corridoi, le cucine, i passaggi destinati alla servitù, in un complesso lungo oltre 180 metri, meno imponente delle grandiose terme dell’Urbe o di altre località dell’impero, ma altrettanto elegante e raffinato… Tutto, naturalmente, abbellito da opere d’arte, mosaici, pitture, statue, ceramiche… e tutti gli arredi di cui nulla è rimasto, il mobilio, i divani e le poltrone, i lettini, i servizi per la tavola e la decorazione degli ambienti, per l’illuminazione serale e notturna, i contenitori per cibi e bevande, i bracieri, gli incensi e i profumi… Viene davvero voglia di chiudere gli occhi e sognare, vederseli lì davanti, quei nostri antenati lontani, prima di tutti gli sfaceli, le distruzioni, il degrado ambientale… evocare i personaggi che le usarono nel corso dei tempi e ancora il presbitero della chiesa del beato Giovanni sita in località Taurina, forse all’interno stesso delle antiche terme… Godere del benefico calore di quelle acque, osservando all’orizzonte, sul mare, quei tramonti infocati che promettono belle speranze, nell’ampia distesa tra Capo Lunare a mancina e l’Argentario col Giglio e Giannutri a diritta. Che poi, più che chiudendo gli occhi, si potrebbero ricostruire quelle visioni e riguardarle come adesso è possibile fare percorrendo, con sensazioni molto realistiche, la prima strada della terra, com’era nell’Ottocento e sostare nella piazzetta del pesce ed entrare in Santa Maria, che è una bellissima esperienza istruttiva e per molti un momento di commozione – tutt’altro che una sciocchezza, inutile “robetta”, usando sciocche assonanze, come dice qualcuno, animato dai consueti, tipici sentimenti di astio per le iniziative degli altri. Ma meglio ancora sarebbe attuare i progetti, che pure ci sono e da tempo, lì pronti, e tornare in questo suggestivo insieme di natura e di storia, il “Taurino”, dalla Ficoncella a San Giulio e Sant’Egidio. Estote parati…
(2. continua alla prossima puntata)
FRANCESCO CORRENTI