LE SFIDE DELLA DEMOGRAFIA: UN’ANALISI DI LUNGO PERIODO

di CORRADO BONIFAZI

La demografia sta acquistando sempre più spazio nel dibattitto pubblico italiano, anche se questa maggiore attenzione tarda a tradursi in una efficace e complessiva azione politica. È d’altra parte inevitabile che in un paese da qualche anno in accentuato declino demografico cresca l’interesse verso fenomeni che hanno, e soprattutto potranno avere nel prossimo futuro, un impatto importante su diversi aspetti fondamentali della nostra società. Effetti che in buona misura possono già oggi essere individuati, visto che i processi demografici presentano, rispetto a quelli economici e sociali, una maggiore inerzia e quindi risultano più condizionati dagli andamenti passati e si caratterizzano per un più elevato grado di prevedibilità. Ad esempio, l’attuale calo delle donne in età feconda, che tanto peso ha sul calo delle nascite, era ampiamente scritto nelle tendenze passate del fenomeno, così come era prevedibile il calo nel numero degli studenti che sta via via interessando i diversi ordini del sistema scolastico.

Queste caratteristiche rendono quanto mai utili le letture di lungo periodo, per cui appare decisamente opportuna la pubblicazione, da parte di Alessandro Rosina e Roberto Impicciatore, di un volume che offre una visione complessiva della storia demografica del paese dall’Unità sino alla pandemia di Covid-19[1]. I due autori, demografi rispettivamente dell’Università Cattolica di Milano e dell’ateneo di Bologna, mettono a disposizione del lettore una ricostruzione agile e precisa dei processi demografici che in questo lungo arco di tempo hanno caratterizzato l’Italia. Cogliendo gli elementi principali di una storia che ha visto una straordinaria trasformazione. Come viene sottolineato nell’introduzione, un paese che all’Unità aveva un’aspettativa di vita «poco sopra i 30 anni, con altissimi rischi di morte in età infantile (meno della metà arriva ai 15 anni) e un numero medio di figli per donna attorno a 5» (p. 11) è diventato «uno dei più longevi al mondo, con aspettativa di vita superiore agli 80 anni, ma anche tra quelli con più persistente bassa fecondità, più vicina a uno che a due figli per donna (….) con conseguente accentuazione del processo di invecchiamento della popolazione» (p. 12). È in questa storia e in questi processi che vanno ritrovate le ragioni della situazione attuale, le cui ricadute negative sono accentuate dal mancato intervento di una politica incapace in tutti questi anni di cogliere la portata dei processi in corso e priva soprattutto del coraggio di affrontarli con la necessaria determinazione.

Questo processo di trasformazione demografica è strettamente intrecciato all’evoluzione complessiva del paese sotto i più diversi profili, da quello economico e sociale a quello culturale e antropologico. Tutti aspetti che vengono opportunamente, anche se sinteticamente, richiamati e considerati nel volume per favorire una più ampia comprensione degli andamenti dei fenomeni demografici. La lettura sincronica consente agli autori di evidenziare nelle diverse fasi le principali relazioni tra i fattori di contesto e le dinamiche della popolazione. Il volume si articola in cinque capitoli e in una appendice dedicata alle possibili tendenze future. Nel primo capitolo viene esaminato il lungo periodo che va dal 1861 alla fine della Seconda guerra mondiale, nel secondo il primo trentennio della Repubblica, nel terzo si arriva fino all’inizio degli anni novanta, mentre negli ultimi due viene considerato l’intervallo di tempo più recente utilizzando la crisi del 2008 come elemento di separazione.

La trattazione si apre con un breve excursus sulle principali caratteristiche demografiche dell’Italia preunitaria e, in particolare, sulle crisi di mortalità che fino al Settecento hanno rappresentato il principale fattore di rallentamento della crescita della popolazione. Al momento dell’Unità la demografia italiana è ancora quella di antico regime: le grandi epidemie sono diventate un ricordo del passato ma le malattie infettive ancora rappresentano quasi il 30% dei decessi e un terzo dei nati non raggiunge i 5 anni di età. Anche in Italia, però, si avvia negli ultimi decenni del secolo quella transizione demografica che, insieme alla rivoluzione industriale, ha segnato la definitiva trasformazione delle società europee. Il calo della mortalità anticipa quello della fecondità, determinando un aumento dei ritmi di crescita della popolazione che favorisce una intensa emigrazione verso alcuni paesi europei e le due Americhe. Il rallentamento della fecondità in Italia si avvia, con l’eccezione di qualche regione settentrionale, solo nei primi decenni del Novecento e presenta forti differenze territoriali, rafforzando i termini di quella questione meridionale tuttora presente nella vita del paese. Il primo conflitto mondiale e l’epidemia di spagnola, con l’aumento della mortalità e il rallentamento delle nascite e dei matrimoni, segnano una battuta d’arresto nel processo di cambiamento demografico, che però riprenderà negli anni tra le due guerre mondiali nonostante i tentativi del fascismo di influenzare i comportamenti riproduttivi e limitare la mobilità.

Il secondo dopoguerra è il momento in cui il paese avvia il suo definitivo decollo economico e, dal punto di vista demografico, rappresenta un periodo di straordinaria vivacità. Al boom economico si accompagna, infatti, un vero e proprio boom demografico, che raggiunge l’apice nel biennio 1963-64 con più di un milione di nati e un tasso di fecondità di 2,7 figli per donna. «Una parentesi unica», come notano gli autori, «di cui è stata protagonista una generazione (i genitori dei boomers) che si è trovata a essere l’ultima con valori tradizionali ancora forti e la prima a entrare nella società del benessere, in un clima positivo e di ampia mobilità sociale» (p. 53). Un periodo che vede anche una intensa mobilità territoriale verso l’estero e verso i poli di sviluppo interni, mentre vengono posti i capisaldi del sistema di welfare e si afferma, con le sue luci e le sue ombre, una moderna società dei consumi. Sul finire degli anni sessanta iniziano però a emergere quei processi di cambiamento sociale che determineranno i futuri andamenti demografici, chiudendo la parentesi del baby boom. Sul lato istituzionale sono gli anni dell’introduzione del divorzio, del nuovo diritto di famiglia e della legge sull’aborto, mentre sul fronte sociale si avviano profondi cambiamenti nelle relazioni familiari e si allarga il ricorso a una contraccezione moderna.

Il terzo capitolo del volume si concentra sugli ultimi vent’anni della prima Repubblica. Il paese entra in una nuova fase demografica in cui i cambiamenti culturali determinano mutamenti profondi nei corsi di vita individuali e nelle forme familiari. Si determina una riduzione dei livelli di fecondità che scendono al di sotto della soglia di sostituzione di 2 figli per donna e si traducono in saldi naturali contenuti (se non negativi) e in un progressivo invecchiamento della popolazione, creando sempre più spazio ai flussi di immigrazione dall’estero. Un processo simile a quello che già si era avviato in diversi paesi europei ma che, a differenza di altre realtà, in Italia non ha comportato quel generale ripensamento del welfare che sarebbe stato necessario per avere una fecondità più prossima alle medie europee e ai livelli di sostituzione. Secondo gli autori, sono le mancate riforme delle politiche attive del lavoro e degli strumenti di conciliazione tra famiglia e occupazione ad aver pesato di più nel calo delle nascite e a distanziarci da altri paesi. Si è così creato un freno «all’inclusione attiva delle nuove generazioni e delle donne nel mondo del lavoro» (p. 68). Proprio nel momento in cui anche in Italia hanno iniziato a modificarsi i tempi e i modi della vita di coppia e l’avere figli è diventata una delle scelte possibili, sono mancati due importanti tasselli di sostegno alla parte di popolazione più direttamente coinvolta nel processo di riproduzione. Il risultato è un aumento della permanenza dei figli nella famiglia d’origine, che funge così da ammortizzatore sociale supplendo alle carenze del sistema di welfare, creando però un equilibrio al ribasso in cui i giovani ritardano l’inizio di un proprio percorso autonomo e indipendente.

A cavallo dei due secoli si ha una ripresa della natalità che porta in quindici anni il valore del tasso di fecondità dal minimo di 1,19 figli per donna del 1995 a 1,44. Un aumento che riguarda però le sole regioni centro-settentrionale, dove alla crescita della fecondità delle italiane si aggiunge un più sostanzioso contributo delle donne straniere, mentre nel Mezzogiorno continua la diminuzione dei valori. Si inverte così, dopo più di un secolo, il rapporto tra le due grandi aree del paese e il principale problema demografico del Sud cessa di essere l’eccessiva crescita della popolazione per diventare un declino demografico sempre più accentuato, anche perché i flussi di immigrazione dall’estero non riescono a compensare le perdite registrate nell’interscambio interno. I processi in atto riflettono un cambiamento di fondo nella relazione tra lavoro femminile e fecondità, in tutta Europa sono ora «i contesti con maggior livello di benessere e crescita più equilibrata (….) a presentare valori elevati» (pp. 88-89) dell’uno e dell’altra. E l’Italia non fa eccezione. Il confronto tra Emilia Romagna e Campania, riportato nel testo, è estremamente significativo: nel 1995 i tassi di fecondità delle due regioni erano infatti pari a 0,97 e 1,51 figli per donna, nel 2009 erano diventati 1,46 e 1,39, mentre in tutto il periodo il tasso di occupazione femminile ha superato il 60% nel primo caso ma era sotto il 30% nel secondo. La relazione tra lavoro femminile e fecondità è diventata ormai positiva e dove le donne hanno maggiori opportunità di occupazione cresce anche il numero di figli. In questi stessi anni si registra anche un eccezionale incremento della popolazione straniera che, nonostante la mancanza di politiche attive di reclutamento, arriva a superare i 5 milioni di unità.

La breve ripresa della fecondità si interrompe con l’arrivo delle crisi economiche del 2008 e del 2011. Particolarmente colpiti dalle due crisi sono i giovani e le donne, che già in Italia erano tra le categorie meno protette dal welfare nazionale. Il risultato è un numero di nascite sempre più basso, perché alla fecondità in diminuzione si aggiunge una cospicua diminuzione delle donne in età feconda. Una situazione che ha le sue radici in processi iniziati ormai quasi mezzo secolo fa e che hanno portato, per lunghi periodi, la fecondità italiana ai livelli più bassi del continente. A tutto questo si sono poi aggiunti la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina, che hanno contribuito a rendere sempre più incerto il futuro delle giovani generazioni, ponendo ulteriori ostacoli a una crescita dei tassi di fecondità. Il peggioramento della condizione giovanile è un dato oggettivo. La quota di persone tra 25 e 34 anni né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione, i cosiddetti Neet, è ad esempio arrivata nel 2019 in Italia al 28,9%, 11,6 punti in più della media europea. Dal 2014 il numero di abitanti è intanto iniziato a diminuire e il processo di invecchiamento della popolazione ha continuato a procedere speditamente. Il rialzo di mortalità dovuto alla pandemia ha accentuato la perdita di popolazione. Sul lato politico, l’approvazione del Family Act e dell’Assegno unico sono senz’altro segnali positivi che arrivano però con un grosso ritardo e con mezzi insufficienti, come un contributo utile potrebbe venire dal Next Generation Eu. Sarebbe però quanto mai utile che si sviluppasse un approccio complessivo ai problemi demografici, capace di mettere insieme stimoli e interventi per aumentare la natalità e una politica migratoria in grado di gestire adeguatamente i flussi in arrivo e promuovere l’integrazione degli immigrati. Per far sì che tra le alternative di futuro delineate nell’appendice, l’Italia si incammini lungo il percorso meno problematico.

In questa breve sintesi si è potuto evidenziare solo alcuni dei molti aspetti considerati nel volume. Nell’insieme, il lavoro di Rosina e Impicciatore rappresenta un utile strumento per comprendere le ragioni e le radici della declinante demografia italiana, le cui conseguenze negative sono purtroppo destinate a diventare sempre più evidenti. È a partire dagli anni ottanta che il paese, secondo i due autori, ha iniziato a privilegiare la ricerca del consenso evitando di affrontare i cambiamenti sociali che si andavano affermando. Si è preferito scaricare i costi sulle future generazioni, per altro sempre più ristrette, attraverso un aumento abnorme del debito pubblico a cui ha corrisposto una discesa dei tassi di fecondità. Gli autori hanno colto i nessi principali tra il sistema popolazione e quel vasto insieme di fattori sociali, economici, culturali e politici che lo condizionano e, a loro volta, ne sono influenzati. Una sintesi riuscita in maniera particolarmente felice nelle parti dedicate alla trasformazione dei ruoli dei giovani, delle donne e delle coppie. Anche se la scelta, per molti versi comprensibile, di suddividere l’ultimo cinquantennio in tre diversi periodi ha frazionato una dinamica sociale che presenta forti tratti di continuità. Un rischio, per altro, inevitabile in qualsiasi trattazione di carattere storico di lungo periodo che deve per forza di cose affidarsi a periodizzazioni sempre opinabili specie per le fasi più recenti.

CORRADO BONIFAZI

[1] Alessandro Rosina e Roberto Impicciatore, Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide, Roma, Carocci editore, 2022, p. 187.

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