“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – MAMME SPORTIVE
di STEFANO CERVARELLI ♦
Oggi parlo di mamme.
Ma non allarmatevi, non intendo mettere mano all’argomento che negli ultimi giorni è stato al centro dell’attenzione generale, provocando pareri ed opinioni controversi; non è questa la sede più opportuna, la natura di questa rubrica fa sì che io debba occuparmi delle mamme da tutt’altro punto di vista, parlare cioè delle mamme sportive.
Non fraintendetemi, non mi riferisco a quelle mamme disinvolte, brillanti, dinamiche, amanti di una vita “salutista” (lontano da me l’idea che questa sia una colpa), mi riferisco alle mamme atlete che praticano sport a livello agonistico-professionale.
I tempi sono cambiati. Quante volte abbiamo ascoltato o ripetuto questa frase.
E non c’è niente che aiuti a capire come i tempi siano cambiati – in meglio – che ripensare al cammino compiuto dalle donne nello sport.
Non voglio ripercorrere ora questo cammino ma alcune brevi considerazioni, alcuni momenti di questa crescita mi sembra giusto evocarli, anche per poi poter meglio comprendere l’attuale posizione femminile nello sport.
Converrete con me nel dire che nei tempi andati consuetudini, mentalità, tradizioni rendevano veramente difficile alle donne fare sport; questo andava bene finché si era bambine, adolescenti, perché: “fare sport fa bene alla salute” ma poi si cresce, bisogna pensare alle cose “serie” , al lavoro, alla famiglia, al marito, insomma, fare il “mestiere di donna”; fare sport poi addirittura da mamme era davvero qualcosa riservato solo alle più coraggiose, in ogni senso erano le pioniere che non si rassegnavano a quella trafila e che, tra mille difficoltà, continuavano indomite nel portare avanti la loro passione fino ad arrivare a successi nazionali ed internazionali.
Non per niente quelle che si sono cimentate in questo duplice ruolo vengono ricordate, molto più che per i risultati, anche eccellenti, ottenuti, proprio per il loro essere “anche” mamme. Duro era comunque il diaframma da abbattere per accettare l’idea dell’atleta-mamma, anche se a queste veniva riconosciuta la loro perseveranza, la loro tenacia, la loro volontà per mantenere un fisico in grado di affrontare dure prove agonistiche.
Quello del problema, per le donne, di far conciliare vita sportiva e vita privata, è un problema che ha iniziato ad andare a soluzione solamente negli ultimissimi decenni.
Ricordo che negli anni settanta quando scrivevo sul mensile “Civitavecchia Nuova”(lo ricordate?) ebbi occasione proprio di affrontare questo argomento in un articolo dal titolo “Sport o amore?” nel quale riportavo testimonianze di ragazze che si trovavano a combattere, non solo con l’ostracismo familiare, ma anche con quello dei fidanzati che non volevano assolutamente che la propria ragazza si esibisse in calzoncini, mostrando le gambe o, ancor peggio, che lo sport inducesse l’attenzione nei loro riguardi.
L’articolo suscitò reazioni di ogni tipo.
Pensate un po’ quindi come poteva essere, non dico accettata, ma solo contemplata l’idea che la donna sposata con figli potesse fare sport e quanto duro e lungo sia stato il cammino femminile dal liberarsi di questi preconcetti.
Poi i tempi, piano piano, sono cambiati. Il ruolo della donna all’interno della società ha assunto ben altre dimensioni, così anche in quello sportivo ha sempre più conquistato spazi, aiutata in questo anche dai progressi avvenuti in campo medico, fisico, atletico, che le hanno permesso di prolungare la sua carriera agonistica.
Di pari passo, con caparbietà e tenacia, le ragazze hanno portato avanti le loro sacrosanti rivendicazioni tendenti ad ottenere la parità di genere, culminata con il raggiungimento, in molti Paesi, dello status di professioniste in diverse discipline.
In Italia naturalmente siamo arrivati per ultimi; non è da molto infatti che nel calcio femminile è stato finalmente riconosciuto il professionismo. A questo riguardo voglio dire che l’unica altra federazione che riconosce il professionismo femminile è quella del Golf, anzi questa è stata la prima a permettere il passaggio dallo status di dilettante a quello di professionista: era il 1981!
Nonostante tutto anche nel recente passato la donna è stata messa di fronte ad una scelta a condizioni che non oserei definire umilianti e questa volta non c’era di mezzo un fidanzato, bensì proprio un figlio, un figlio al quale veniva chiesto all’atleta di rinunciarvi: pena sanzioni severe.
Vi porto ad esempio due casi, del terzo parlerò più avanti.
L’islandese Sara Gunnarsdottir, giocatrice ora della Juventus Women, ha dovuto far causa, vincendola, alla sua vecchia società, il Lione, per i mancati stipendi durante la gravidanza (in Francia esiste da un bel po’ il professionismo); a Laura Lugli, giocatrice del Pordenone Volley, oltre a non pagare un mese di stipendio, hanno chiesto i danni per essere rimasta incinta. Poi, anche sotto la spinta dell’opinione pubblica, c’è stata la retromarcia da parte della società.
Questo per dire come sia lungo e tormentato il cammino delle donne nello sport.
Ma poi… poi arrivano anche le belle notizie.
Spostiamoci in Francia, e precisamente a Clairefontaine, dentro una delle strutture più organizzate al mondo e dove le Bleus (la nazionale femminile di calcio) si sono radunate a tre mesi dal Mondiale.
Tra le giocatrici c’è una mamma che di mestiere fa la centrocampista: Amel Majri, che si è presentata al ritiro con la neonata Maryam, ad aspettarla c’è una nursery.
Per il momento è soltanto una stanza dedicata a lei, a una bambina di nove mesi al seguito della madre sul posto di lavoro. Per la neonata una culla smontabile, un fasciatoio, una tata a ore. Una stanza che però preannuncia un cambiamento, un altro radicale cambiamento, nel mondo dello sport femminile.
Amel Majiri è una donna di 30 anni, un’atleta tra quelle che sempre di più decidono di “mescolare” la professione sportiva con il ruolo di mamma e che non ha voluto separarsi dalla figlia.
Il C.T. a questo riguardo ha detto: “Oggi è una bimba ma, se saremo organizzati, potranno essercene cinque o sei e ne saremo felici. Questo atteggiamento porta serenità e serve per lavorare bene”.
Dal suo canto la ministra dello sport francese ha accettato l’istanza e promesso fondi per asili legati allo sport professionistico.
Quello francese non rappresenta l’unico caso.
La nazionale olandese negli ultimi campionati europei realizzò un sistema di sostegno per sei mamme; si trattava di un rimborso per i papà, o parenti, che si prendevano cura della prole stando in un albergo vicino al ritiro della squadra.
Gli USA, pur avendo raggiunto la parità salariale da poco, già dal 1996 avevano adottato una politica nel merito, migliorandola di continuo; oggi i bambini, con meno di 5 anni, vengono ospitati in alloggi (alberghi od altro) vicinissimi ai luoghi di ritiro con tre tate pagate dalla federazione, mentre per quelli più grandicelli, fino a dieci anni, vengono finanziati i viaggi.
In Italia la federazione non ha di questi problemi semplicemente perché in azzurro non ci sono mamme; difficilmente le italiane avrebbero potuto permettersi questa scelta fino all’inizio del 2023, allorquando è stato loro riconosciuto lo stato di professioniste.
Prima, in mancanza di contratti regolamentati, restare incinte, come già rilevato sopra, significava non avere più lo stipendio, mentre la sponsorizzazione poteva scendere anche del settanta per cento!
A questo proposito eccomi, come preannunciato, a parlare del terzo caso.
Allyson Felix, sprinter trentottenne, che ha conquistato venti medaglie mondiali, ha dovuto lottare contro il suo sponsor, la Nike, perché questo voleva inserire nel contratto la clausola di recessione dello stesso in caso di gravidanza.
A livello globale il suo caso è stato quello che, vuoi per la notorietà dello sponsor, vuoi per la notorietà e il valore dell’atleta, ha suscitato più clamore.
La Felix ha avuto il coraggio di affrontare il grande colosso Nike costringendolo, dopo una lunga battaglia legale, a cambiare le clausole.
Oltre che a vincere la causa, successivamente la Felix ha fatto in tempo a tornare a vincere (naturalmente avendo come sponsor un altro marchio) diventando l’atleta più titolata della storia dei Mondiali ed a ritirarsi davvero soddisfatta, appendendo l’ultima medaglia di bronzo vinta nella sua ultima gara (la staffetta 4 x 400) al collo della figlia di tre anni, e facendo con lei in braccio, il giro d’onore.
Ultima riflessione. Eravamo abituati, e per la verità lo siamo ancora, a vedere sugli spalti degli impianti sportivi mamme tifare ed incitare i propri figli: presto vedremo anche il contrario.
Sì, i tempi stanno cambiando.
STEFANO CERVARELLI