RUBRICA “BENI COMUNI”, 42.1. SOSTENGO IL (GRAN-DE) TAURINO! (prima parte)
di FRANCESCO CORRENTI ♦
«Bacigalupo. Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano. Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.»
Sì il Grande Torino era davvero la mia squadra del cuore, benché fossi romano, dalla nascita in poi, con la famiglia paterna siciliana, anzi etnea. Mia mamma, mio nonno materno, la famiglia Colla erano di Torino (sostenitori di Don Giovanni Bosco, con parenti a Canelli e in Savoia, Francia). Il Torino era campione d’Italia. Io ero, orgogliosamente, del Torino, con il Toro nello scudetto e il colore granata sulla maglia. Poi ci fu Lisbona, il Benfica, Superga, quel 4 maggio 1949. Avevo 10 anni, Superga era un luogo famigliare, ne avevo sempre sentito parlare, in casa. I miei si erano sposati, nella basilica di Superga, l’8 settembre 1923. Sono andato più volte, a Superga, a riflettere su entrambi gli eventi, con animo e pensieri partecipi. Ed io sono sempre del Torino, nel cuore.
Chiudo la parentesi “sportiva”. Probabilmente il lettore non si è accorto della parentesi, ma l’argomento della puntata non è la mia squadra del cuore, è quello che la copertina mette bene in evidenza. Il grande dilemma scaraventato in prima pagina, si fa per dire, nel piccolo mondo antico di noi curiosi della storia urbana, da Flavio Martino con il suo articolo del 19 aprile scorso “Terme Taurine / Terme di Traiano”, in cui ha espresso la sua opinione, piuttosto severa, sull’uso indiscriminato e a suo parere improprio dei due termini, “Terme Taurine o di Traiano”, per indicare – nelle denominazioni ufficiali e nelle pubblicazioni istituzionali (anche in rete) – lo stesso grande complesso archeologico monumentale posto a monte della città di Civitavecchia. Colpevoli dell’errore il Ministero della cultura, il Comune, la Pro Loco, Portmobility. E forse noi tutti, aggiungo io, non tanto per “indifferenza colpevole”, ma proprio perché è un “modo di dire”, con la strada che unisce il complesso alla città e si chiama appunto “Via delle Terme di Traiano”. Quando ne avevo la possibilità, ho provato a proporre di cambiare quella denominazione, ma inutilmente e poi, temo, non avrei avuto il plauso di Flavio Martino. Perché avrei abolito proprio il nome che lui ritiene appropriato per quel grande complesso archeologico.
Flavio – che non avevo più sentito da molti anni – mi aveva immerso nel problema da circa un mese, inviandomi molti suoi interventi pubblici sullo stesso argomento e, pochi giorni addietro, proprio l’articolo poi inviato a SpazioLiberoBlog. Lo stesso giorno, sono apparsi cinque commenti. Il primo, di Maria Zeno, ritiene opportuna e doverosa la precisazione ed auspica una presa d’atto da chi di dovere. Il secondo, di Carlo Alberto Falzetti, è più articolato, ma condivide la tesi “flavia” o “martiniana” di chiamar “di Traiano” quelle grandi, dove del resto nei primi anni Duemila furono realizzati gli Horti Traianei, con un progetto – elaborato dal Comune con la collaborazione dell’Orto Botanico di Roma e del Dipartimento di biologia vegetale dall’Università La Sapienza – finalizzato all’istituzione, anche qui, di un Orto botanico, articolato in vari comparti di diversa tipologia (agrumeto, roseto, giardino romano, impianti tecnici, percorso anulare con aree di sosta, piccolo ponte di legno) e finanziato nell’ambito dei fondi DOCUP Obiettivo 2, 1997/99, Misura 3. Per il resto, Carlo Alberto esprime il suo sconforto per le numerose questioni in cui la verità storica è stata ed è ancora ignorata o travisata e per la mancanza di un programma culturale di ampio respiro. Che avrebbe effetti molto positivi sul livello intellettuale delle manifestazioni connesse e sul successo qualitativo e quantitativo del turismo locale. Pur dubitando che il nome prestigioso dell’Ottimo Principe venga speso per un acume pubblicitario erudito, di cui non crede dotati gli enti preposti, afflitti da “sbadataggine, semplice ignorare, pigrizia mentale”. Ma, in questo, mi sembra di cogliere nelle convinzioni di Carlo Alberto qualche sfumatura che non le identifica con quelle di Flavio.
Del terzo commento, mio come il quinto, ne parlo subito dopo, mentre il quarto è di Daniele Di Giulio, che, pur senza esprimere formalmente il suo dissenso, riporta le argomentazioni di Salvatore Bastianelli e la cronologia diversificata delle varie parti del complesso monumentale che ne rendono inesatta l’attribuzione a Traiano e invece logicamente plausibile l’appellativo di Terme Taurine.
I tre commenti suddetti, come si vede, di amici ben noti del blog e persone di altissimo impegno civile delle quali non occorre ricordare i grandi meriti culturali, dimostrano che sul dilemma terminologico di cui parliamo sussistono opinioni diversificate e pure opposte, dovute in parte all’impostazione del quesito, nel senso di basarsi su considerazioni storiche e toponomastiche in apparenza razionali, senza però fonti valide di conclamata evidenza per le diverse denominazioni d’entrambe le due entità termali, e nella sostanza condizionate da una letteratura scientifica e specialistica tutt’altro che univoca e precisa.
Il mio commento scantona, prende di petto il problema generale dell’informazione lamentato altre volte (Un sito istituzionale di forte connotazione aliena, SLB del 6 giugno 2016): «Un passo avanti importante potrebbe essere riportare le notizie storico-urbanistiche che erano presenti in passato nel sito ufficiale del Comune e che sono state sostituite da notizie con scarsa attinenza alla realtà ed alla storia. Sulla questione posta da Flavio, come ho scritto nella mia rubrica uscita ieri, farò alcune considerazioni, probabilmente, nella prossima puntata della rubrica, perché qualcosa non mi torna, e ne ho già fatto cenno. Una curiosità non peregrina mi sorge spontanea: ma Traiano, l’imperatore Marco Ulpio, come le chiamava le Terme che oggi da alcuni vengono chiamate “di Traiano”?»
Una curiosità che sorge spontanea, quella, tra noi curiosi della storia urbana, perché va a scrufoliare il nocciolo del problema. Quale era il nome antico, originario, degli edifici termali del territorio, dando per appurato – dirò poi come – che un qualche nome lo avessero? Quale è stata, nel volger dei secoli, l’eventuale evoluzione delle denominazioni toponomastiche di quei luoghi? Quali, infine, le indicazioni onomastiche dei medesimi luoghi dopo quel momento tra fine Seicento e primi Settecento in cui – a cominciare dal “Magnifico Dottore Signor Arcangelo Molletti Nobile Cittadino” – si riportarono alla luce le Antichità e memorie di Civitavecchia, riscoprendone i “Fasti civici”. Anzi, apro qui un’altra parentesi, forse inventando quello stemma o emblema civico poi tanto dibattuto in cui le famose lettere OC o anche CO sono state ora credute ora negate come riferite all’Ottimo Consiglio del vecchio marinaio Leandro, mentre piuttosto erano riferite – dato che sulla magnifica e nobile erudizione di quei dotti magistrati cittadini io non ho dubbi – all’ottimo Concilium o Consilium principis dell’optimus princeps, convocato proprio ad Centumcellas, teste Plinio.
Volendo allora, mi ripeto, fare il punto finale della situazione, alla luce dei tanti indizi, ipotesi, antichità e memorie, e riprendendo il titolo della puntata, dichiaro subito quale è la tesi che credo più ovvia ma comunque rigorosamente logica, per cui – questa volta chiudendo le parentesi e sciogliendo le metafore – “sostengo il grande e unico toponimo di Taurino”, evitando il riferimento a Marco Ulpio Traiano e precisando secondo il caso le denominazioni più puntuali. “Terme Taurine”, quindi, sono quelle del “grande complesso archeologico monumentale posto a monte della città di Civitavecchia”, ma anche altre possibili strutture, cui attribuire eventualmente altre specificazioni. Come in Veneto, il nome di “Terme Euganee” comprende l’insieme innumerevole delle sorgenti e degli stabilimenti pubblici e privati esistenti in provincia di Padova, nei comuni di Abano Terme, Battaglia Terme, Galzignano Terme, Montegrotto Terme e Teolo (vedi qui su SLB, Beni comuni, 3. Acque e musei… del 18 gennaio 2022). Non ho cambiato idea, rispetto alle mie convinzioni riferite in Chome lo papa uole…, da cui sono trascorsi una quarantina di anni. Ricordato l’atto di omaggio a Giulio Cesare compiuto da Castrum Novum tra il 46 ed il 45 a.C., di premettere al proprio nome il titolo di Colonia Iulia, scrivevo che di poco posteriore sarebbe stata l’erezione a municipio di Aquae Tauri, l’abitato presso le sorgenti termali della «Ficoncella», che secondo il Solari dovrebbe il suo nome a Statilio Tauro, consul suffectus nell’anno 37. A questo medesimo periodo potrebbe anche risalire la costruzione del primo gruppo di edifici delle cosiddette «Terme Taurine», articolati intorno all’ampio peristilio e datati, appunto, tra l’epoca tardo-repubblicana e quella augustea, quando una “attrezzatura” pubblica di quel genere era a servizio d’un territorio con pochi centri urbani e molte ville sparse.
Salvatore Bastianelli, infatti, fa risalire il primo nucleo delle terme ad età sillana, quindi intorno all’80 a.C.: datazione basata sull’opus quasi-reticulatum, in cui sono realizzate le parti più antiche del muro perimetrale del primo calidarium, che sembra troppo alta. Per quanto riguarda il toponimo, l’ipotesi del Solari (Topogr., I, pp. 213-214, presta il fianco a dubbi, considerato che il centro abitato preesisteva ai supposti interventi edilizi di Statilio e difficilmente avrebbe mutato nome, senza conservare traccia del precedente. Bastianelli prospetta anche altre etimologie (come Taurini inteso nel significato di «abitanti dei monti»). La tradizione antica, riportata da Claudio Rutilio Namaziano (De reditu suo, I, 249 e segg.), attribuiva il nome all’origine delle acque, che sarebbero prodigiosamente scaturite dal terreno smosso dalle corna di un toro. A mio parere, il toponimo potrebbe forse derivare dalla denominazione etrusca delle sorgenti, da cui avrebbe tratto il nome l’abitato, poi latinizzato con una parola assonante ma di significato diverso: ad esempio il Pallottino, Etruscologia, p. 421, traduce il termine thaura con «tomba, sepolcro» e proprio a valle delle sorgenti, si trova la necropoli dei «Pisciarelli», presso la quale le acque defluiscono verso valle in vari “rivoli” (da cui il toponimo attuale, derivante dal termine popolaresco). Ma il fatto certo è che le terme pubbliche, a disposizione dei viaggiatori, che l’ex prefetto dell’Urbe – nel 417 (conosciamo le circostanze e le particolarità di quel viaggio di rientro in Gallia) – raggiunge facilmente, data la breve distanza di tre miglia di non grave salita (nec mora difficilis milibus ire tribus), hanno un nome preciso, che è quello con cui sono famose: Tauri dictas de nomine thermas. Lì si ritempra, rimanendo incerto tra il bere o il bagnarsi in quelle acque dalle straordinarie qualità per entrambi gli usi: Purus odor mollisque sapor dubitare lavantem / Cogit, qua melius parte petantur aquae.
Dobbiamo, perciò a Rutilio il preciso riferimento mitologico e indirettamente geografico che ha generato la dizione toponomastica di “Terme Taurine”. Che si tratti di quelle di cui restano le grandi strutture monumentali non vi sono dubbi. Storicamente, non vi sono altre denominazioni oltre a quella di “Terme Taurine”, il primo riferimento scritto ad esse è quello di Rutilio, come non abbiamo notizia letteraria di altri impianti rinomati se non di questi stessi, il cui primo nucleo risale a età tardo-repubblicana (salve le precisazioni di Bastianelli) o al periodo augusteo, con limitati lavori di restauro e trasformazione del nucleo originario – insomma, semplici opere di manutenzione realizzabili senza impicci con la burocrazia municipale – di età neroniana e poi traianea, che non ne hanno modificato la consistenza. Su questa realtà, l’opinione di tutti gli studi archeologici, come anche delle pubblicazioni specialistiche e delle guide più rigorose è unanime e perentoria. Altro dato incontestabile è che la parte più cospicua del complesso sia d’epoca adrianea, costruita cioè sotto il successore di Traiano. Ad essere improprio, dunque, per non dirlo un vero errore, risulta storicamente proprio la dizione di “Terme di Traiano”. A Flavio Martino, questa mia fermissima convinzione l’ho dichiarata fin da subito. Certo, tutto il territorio, allora, apparteneva all’imperatore, era parte del fiscus Caesaris, dei praedia imperiali, quindi anche quei vecchi balnea sono stati anch’essi “di Traiano”, ma non in quanto costruttore, non essendoci parti del complesso realizzate da lui o almeno durante il suo regno.
Che poi, subito, qualcuno ci avrebbe visto pure la mano, la matita, il tecnigrafo (?) di Apollodoro di Damasco, sempre citato quale architetto di fiducia di Traiano, tanto onnipresente – ed invadente, penso – da essere al più presto eliminato, nel modo più concreto e definitivo, appena assunto il potere, da Adriano. Il quale ha potuto, così, dare sfogo senza ingerenze alle proprie aspirazioni urbanistiche e architettoniche, realizzando quella personale “centum cellae” (che sarà seguita da altre, con i successori) che è la Villa Adriana tiburtina, con le sue “cento camerelle” e tutto il resto, le cui dimensioni sono tali da coprire, se fosse stata situata sull’attuale Civitavecchia – come dimostra la mia planimetria in questa pagina – lo spazio tra il viale Garibaldi e lo svincolo di Civitavecchia Nord dell’autostrada A12, ossia una distanza di oltre tre chilometri, anzi più precisamente di circa 3.300 metri. Una dimensione ampiamente superiore a quella raggiunta dalla residenza imperiale di Nerone, la Domus Aurea, che si estende dal Palatino all’Oppio e al Celio, o la magione di Domiziano sul Palatino, che occupa due terzi del colle, intercalando spazi chiusi ed aperti, e che avevano già incrementato – come ha notato Bruno Zevi (Storia e controstoria, p. 98) – il gigantismo che era stato caratteristico di molte attrezzature urbane, vere e proprie macrostrutture inserite nel tessuto di Roma: dopo il Tabularium, il Circo Massimo pressi il Foro Boario e il Teatro di Marcello nel Campo Marzio (55 a.C.).
Verrà poi il palazzo-fortezza di Diocleziano a Spalato, che riproporrà per intero l’impianto del castrum fortificato delle colonie delle origini, ma siamo in un territorio ed in un’epoca totalmente cambiati rispetto ai precedenti. E, tuttavia, credo sia rimasto legittimo il mio riferimento a Spalato (Chome lo papa uole…, vol. I, p. 96 e segg.) per un raffronto dimensionale con la villa traianea, comunque da immaginare articolata in parti diverse, con diverse prese di possesso del territorio, da quella maritima alla rustica, da una zona urbana a quella fructuaria, ampia e variata, con ambiti maggiormente riservati ad usi particolari, a diverse forme d’impiego del tempo dedicato all’otium. Tenendo conto che una dimora del principe (pensaci! ci esorta Plinio) è speciale in tutto, in ogni senso, ed è concepita non solo per garantire la sua riservatezza, ma anche le esigenze di una famiglia, d’una corte, di un gruppo di consiglieri, delle coorti pretoriane (che non era una piccola guardia del corpo, come quei gruppetti che vediamo intorno agli attuali VIP), dei marinai e classiari della flotta, e di tutti gli altri addetti, impiegati, amministratori, camerieri, servitori, cuochi, operai, fabbri, idraulici, giardinieri, contadini, schiavi e così via all’infinito.
Senza trascurare l’altra importante caratteristica della trasformazione territoriale portata da Roma e rappresentata dai grandi santuari, quelli – cito ancora Zevi – dell’acropoli di Ferentino, della Fortuna Primigenia a Palestrina, di Ercole a Tivoli, del tempio di Giove Anxur a Terracina. Che sembra aver avuto – e lo vedremo in seguito – una replica di tutto rispetto anche dalla parti di Aquae Tauri.
Nelle sue memorie, padre Jean-Baptiste Labat riferisce d’essere stato molte volte, tra il 1710 e il ’16, a visitare le rovine nella località chiamata Bagni di Traiano o di Adriano, facendo scoperte interessanti, e di aver poi interrotto questa pratica, quando fu avvertito che la gente cominciava a pensare che fosse alla ricerca di tesori, data la diceria d’un francese venuto tempo prima a Civita Vecchia, dicendo di volercisi stabilire per impiantarvi una impresa commerciale, ma alcuni giorni dopo, nottetempo, scomparso, portando via un tesoro straordinario trovato in una delle arcate di quei Bagni. Labat si diffonde in spiegazioni e chiarimenti circa l’attribuzione all’uno o all’altro imperatore degli edifici. Propende comunque per la seconda ipotesi, quella di Adriano, pur lasciando liberi i lettori di pensare come preferiranno. Per essere del tutto esauriente, aggiungo che nelle nostre note di traduttori, con Giovanni Insolera, abbiamo scritto (1990-95): “Gli studi recenti hanno chiarito che le parti delle Terme Taurine d’età imperiale sono da riferirsi ad Adriano. La denominazione tuttora in uso di Terme di Traiano è impropria, come altre attribuzioni di monumenti civitavecchiesi: Forte Michelangelo (se riferito all’architetto), Tempietto Bramantesco ecc.”
Qui interrompo la puntata, per non dilungarmi in modo eccessivo e ripetere, metaforicamente, le tanto ingombranti elucubrazioni costruttive di Adriano con le mie architetture verbali e cartacee. Il fine è dichiarato e lo ripeto: “sostengo il grande e unico toponimo di Taurino”. Ai motivi già illustrati ne aggiungerò altri, ben documentati, ma la rubrica resta aperta ai lettori – contrariamente al solito, oso attribuire il plurale a questa gentile categoria, basandomi su alcune supposizioni razionali – ed alle loro graditissime opinioni e, nel caso attuale, repliche, osservazioni e controdeduzioni alle tesi qui esposte.
(1. continua alla prossima puntata)
FRANCESCO CORRENTI
Egregio Architetto Correnti,
ho letto con grande interesse il suo articolo sulla mai realizzata valorizzazione delle nostre acque termali.
La ringrazio per le parole di apprezzamento per l’azione condivisa da mio padre Maurizio, in qualità di presidente dell’azienda di Soggiorno, per l’attuazione di un progetto tanto visionario quanto concreto, animato dall’amore per la nostra città. Mi fa piacere che lei lo abbia ricordato con tanto entusiasmo.
Quell’entusiasmo creativo manca crudelmente alle istituzioni che sono preposte a tracciare lo sviluppo di Civitavecchia.
Apprezzo molto il fatto che lei non si è arreso alla mediocrità e alla mancanza di ambizione di molti dei nostri concittadini.
La seguirò con rinnovata stima, come fece mio padre.
Ancora un grande grazie.
Ines Busnengo
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Cara e gentile Dottoressa Busnengo,
gli anni e le esperienze mi hanno convinto che il ricordo, il rimpianto, la nostalgia, inevitabili in noi quando si ripensa al passato e alle persone con cui si sono condivisi in amicizia e sintonia tante iniziative, siano del tutto inutili (per gli altri e per la società) se non si traducono in fatti concreti che possano essere compresi e condivisi ancora. Circostanze comunque difficili a verificarsi se manca un insieme di fattori essenziali. Allora, in quegli anni Settanta-Novanta (per tanti aspetti molto difficili) quei fattori c’erano e si ottennero risultati esemplari. Purtroppo interrotti prima di aver raggiunto la meta finale. Si possono riprendere, senza quelle persone davvero speciali che sapevano collaborare tra loro e condividero gli obiettivi? Che dire? Non saprei proprio…
Un altro caro amico di quegli anni, l’architetto Renato Amaturo, quando gli si chiedeva il perché si avesse quella spinta a proseguire in certe imprese senza utili personali, spesso nell’indifferenza e nell’ostilità dei più, solo perché si ritenessoro giuste e utili alla collettivit,. aveva una risposta precisa. Ma non la dico.
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Condivisero…
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Errata corrige: condivisero, collettività.
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