EUGENIO SCALFARI E CIVITAVECCHIA

di MASSIMO COZZI ♦

A proposito di Eugenio Scalfari e del Premio di giornalismo Città di Civitavecchia, a lui dedicato, mi è capitato di sentir dire, più volte e da più persone, che non c’era alcuna necessità di un simile tributo, perché, a Civitavecchia, il nostro concittadino c’era solo nato ma non vi aveva mai vissuto. Due dei suoi libri: 1) L’uomo che non credeva in Dio, Torino, Einaudi, 2008 e 2) Racconto Autobiografico, Torino, Einaudi, 2014 dimostrano l’esatto contrario e la lettura di alcuni brani, di seguito riportati con il numero 1) e 2), mi auguro sia utile a confutare l’inconsistenza e l’infondatezza di quanto, erroneamente, asserito per superficiale informazione e scarsa conoscenza dei fatti.
Il presente lavoro di cernita e collazionamento rappresenta un piccolo contributo, una sorta di work in progress, ed è aperto agli interventi di quanti hanno già scritto e/o desiderano scrivere sull’argomento.
Tralascerò la descrizione dei luoghi che si potevano scorgere dalle finestre dell’abitazione di Scalfari bambino, tratta da: Racconto Autobiografico, perché è già stata riportata dall’architetto Francesco Correnti, su SPAZIOLIBEROBLOG del 23 novembre 2022, nel suo articolo: “La sera andavamo in via Trento (a proposito di Eugenio Scalfari)”*, pur se, come scrive lo stesso Correnti nella lettera a Scalfari del 13 maggio 2014, manifestando la propria perplessità, “la sua descrizione della sua città natale quale si vedeva dalla sua casa pone degli interrogativi ad un architetto urbanista pignolo come me”.
Riporterò alcuni brani, riferiti all’infanzia di Scalfari, definita dallo stesso: “una stagione fatata”, vissuta, dal 6 aprile del 1924 (giorno della sua nascita) al 1933, a Civitavecchia, atti a far luce sulla sua vita privata “non serena, ma fortunata e felice”, sugli affetti, i ricordi, la formazione la “parte istintuale del mio carattere” dove “la mia memoria cominciò ad accumulare sensazioni e ricordi”.
* Il titolo dell’articolo è un chiaro riferimento al titolo del libro di Eugenio Scalfari: La sera andavamo in via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» alla «Repubblica», Milano, CdE, 1986.
Eugenio Scalfari, in 2), scrive: “Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924, all’ultimo piano di un palazzo costruito nei primi anni dell’Ottocento nella piazza centrale della città.[…] In quell’alloggio avevano vissuto i miei nonni materni e i loro cinque figli (mia madre era la seconda, gli altri erano due femmine e due maschi). Ma allora la famiglia occupava tutto il piano del palazzo. Poi mio nonno, Francesco Scotti, morì nel 1923; mia zia Maria si sposò e andò a vivere in un’altra casa, mia zia Lidia si sposò anch’essa e si trasferì a Roma dove andarono a vivere anche mia nonna e i suoi due figli maschi. […] Nella casa restammo soltanto i miei genitori e io. Lì si è formata la parte istintuale del mio carattere, lì la mia memoria cominciò ad accumulare sensazioni e ricordi.
Le sere della bella stagione mi affacciavo sul balcone insieme a mia madre. Sul mare aperto si vedevano le luci delle lampare, le barche da pesca che stendevano le reti al largo e pescavano a strascico. Suonavano le sirene dei «postali» e dei rimorchiatori, le luci delle cabine brillavano in alto mare”. […].
Riferendosi alla madre in 1) scrive: “ MI teneva in braccio e io piangevo disperatamente aggrappato a lei, […].
Mi aveva detto dobbiamo andar via, lasceremo questa casa, è troppo grande per noi, ne avremo un’altra , ti piacerà, […].
Anche lei c’era nata in quella casa ventitré anni prima di me, […].
Mi svincolai dal suo abbraccio e ricordo di averle detto: «Quando sarai grande te la ricomprerò e torneremo qui»[…].
Forse quella promessa l’avrei mantenuta, ma quando fui grande e tornai in quel luogo dell’infanzia la casa non c’era più, sprofondata in un cratere di bombe da cui emergevano pochi muri sdentati e rovine sparse tutt’intorno insieme a travi, calcinacci e spezzoni di tegole. La guerra era passata furiosamente distruggendo le banchine del porto, il muraglione dell’Arsenale, le pescherie, la Torre della Rocca, la chiesa di Santa Firmina e i palazzi di piazza della Vittoria. Al posto della casa dove ero nato vent’anni prima c’era solo quel cratere. […]
Quel pianto disperato in braccio a mia madre è il mio primo ricordo, insieme alla finestra sul mare, il cesso sul balcone e la ringhiera di ferro, le navi del porto che partivano e arrivavano, il suono della sirena del postale che salpava per la Sardegna e i gabbiani che volavano maestosi e all’improvviso cadevano a picco sui pesci del mare e sulle immondizie della darsena.
Da quella finestra è cominciata la mia vita, la mia memoria, la mia malinconia. Anche il mio risentimento e la voglia di compensare un torto subito.
Come mia madre mi aveva preannunciato la nostra nuova abitazione era al terzo piano di un vecchio palazzo pieno di scale, di gatti semirandagi e […].
Me ne stavo in una delle tre stanze del nostro appartamento, destinata a camera da pranzo e luogo dei miei giochi. Dava sulla chiostra del cortile con una porta-finestra dai vetri smerigliati per impedire che ci guardassero dentro. Accanto c’era lo stanzone semibuio della cucina; la stanza da letto e il salotto affacciavano invece sulla piazzetta di Sant’Antonio.
Scalfari, in 2), dà notizie sulla sua famiglia materna a partire dal bisnonno, sullo stabilimento balneare Pirgus, sulla scuola elementare, frequentata, fino alla quarta, a Civitavecchia. Al riguardo è interessante la lettura dell’articolo: Un premio giornalistico intitolato ad Eugenio Scalfari, su Civonline.it del 20 luglio 2022, relativo al ricordo di Enrico Ciancarini, presidente della Società Storica Civitavecchiese, della “pubblicazione del primo numero del “Giornaletto della Scuola” il giorno 1 marzo 1933, perché tra gli alunni della scuola elementare “Cesare Laurenti” di via XVI settembre c’era Eugenio Scalfari”, che, nell’occasione, scrisse il suo primo articolo.
Il mio bisnonno materno si chiamava Domenico Scotti, nato e vissuto per lungo tempo a Procida. Gli Scotti erano armatori, Domenico possedeva tre navi veliere che trasportavano grano, carbone, tessuti e altre mercanzie tra Tunisi e Pozzuoli. Su quelle navi mio nonno Francesco fece le sue prove da mozzo e poi da marinaio. […]
Verso la metà dell’Ottocento Domenico Scotti decise di trasferire la sua residenza e i suoi velieri da Procida a Civitavecchia. Nel frattempo il figlio Francesco aveva preso la patente di capitano di lungo corso e fu lui a guidare per i mari la flottiglia dei tre velieri. Poi anche questa fase finì, i vapori presero il posto delle navi a vela.
Mio nonno era benestante, aveva comprato terre a Civitavecchia e a Tarquinia. Aveva sposato Aristea Fanuele, una giovinetta di diciassette anni, lui ne aveva quarantuno ed era amico e coetaneo di Francesco Fanuele, orafo di famiglia ebrea convertita alla religione cattolica da oltre un secolo.
Mio nonno era ormai diventato uno dei notabili di Civitavecchia. Per lungo tempo fu presidente della Camera di Commercio, fondò l’ospedale e lo presiedette, fu eletto sindaco. […] Da Aristea ebbe tre femmine e due maschi. Morì a settant’anni, un anno prima che io nascessi.
Aristea è stata una figura centrale della mia infanzia e della prima giovinezza. Mia madre le era legatissima e di conseguenza io a lei e al resto della famiglia materna molto di più di quanto non sia avvenuto con gli Scalfari calabresi. […]
Il nome di mia madre era Domenica, ma fu sempre chiamata Gina.
Era, come ho già detto, una donna assai bella, mia madre, e molto romantica, ma senza istruzione scolastica. […] Con lei giocavo, con lei passeggiavo la sera sulla piazza e la mattina sul lungomare, con lei andavo al mare d’estate.
Lo stabilimento si chiamava Pirgus, una fila di cabine su una spiaggia di modesta larghezza e poi un’ampia rete di cabine e rotonde di legno su palafitte piantate nel mare. Là si riunivano i villeggianti a conversare.
Mia madre non sapeva nuotare, […] camminava nell’acqua fin dove si toccava, poi risaliva con me a fianco. Era molto corteggiata dai giovani []. Alcuni dei suoi corteggiatori, per rendersi graditi, mi avevano insegnato a nuotare, e questo fu per me un’ottima iniziazione, perché il nuoto è stato il solo sport della mia vita che tuttora pratico nonostante la mia «veneranda» età.
Nel settembre 1930 cominciai a frequentare la seconda elementare (la prima l’avevo fatta in casa) e continuai fino alla quarta. Il maestro si chiamava Valentini. Ero felice di andare a scuola, per me era una festa stare con i miei compagni, studiare e giocare con loro. Quando nel ’33 ci trasferimmo a Roma il mio profitto, in quinta elementare, peggiorò di colpo; cambiato il maestro, cambiati i compagni, la voglia di studiare diminuì, andare a scuola non era più una festa ma anzi un peso. Comunque fui promosso al ginnasio e frequentai il Mamiani, che era allora uno dei migliori istituti scolastici di Roma. […]
A luglio del 1938 ci trasferimmo da Roma a Sanremo.
Nella città ligure Scalfari frequenta, dal ’38 al ’41, la prima, seconda e terza liceo, sezione C del liceo-ginnasio Cassini, dove, in seconda e terza liceo, ha come compagno di banco Italo Calvino, del quale diviene intimo amico. Il loro sodalizio finisce tre giorni dopo l’8 settembre del ’43.
Al riguardo, scrive in 1): “Ci siamo scritti nel ’45. Due lettere, il resoconto dei due anni trascorsi, lui partigiano sulle montagne sopra Baiardo, io a Roma e poi in Calabria. Lui comunista, io liberale.
Poi più niente. Col tempo lui diventò un grande scrittore.
In Calabria, dal ’44, trascorre due anni: “Ho passato in campagna due anni della mia vita. Avevo giusto vent’anni quando riparammo in Calabria, i miei genitori ed io, dopo otto mesi di pena, clandestinità e fame nera, passati a Roma occupata dai tedeschi con il fronte di guerra a Nettuno, cinquanta chilometri più a sud.” Rientra a Roma e consegue, presso l’Università degli Studi “La Sapienza” la laurea in giurisprudenza.
Prima d’intraprendere la professione di giornalista, lavora, come funzionario, presso la BNL. Scrive in 1) : “Ho scelto il giornalismo come la migliore professione che potessi fare, la più adatta al mio modo di essere.
MASSIMO COZZI