Metti una sera con Raspùtin

di GIUSEPPE NUCCITELLI

Il consiglio è di segnare in agenda questo appuntamento: giovedì 13 aprile alle 18. Verrà infatti presentato a Civitavecchia, negli spazi della Cariciv di via Risorgimento, un romanzo veramente degno di considerazione: si tratta dell’ultima fatica di Sergio Kraisky, scrittore di consolidata esperienza e di sperimentata ispirazione, la quale tuttavia, a parere di chi scrive, non aveva mai raggiunto la vibrante necessità che percorre le pagine di questo La maledizione di Rasputin (Voland, Roma 2022, euro 17).

I destini di Raspùtin, però, sfiorano soltanto le pagine del libro: il punto d’intersezione è costituito dalla venuta al mondo del personaggio centrale – Pavel Krotovskij – in prossimità della Rivoluzione d’Ottobre e in coincidenza giusto della messa a morte del monaco siberiano alla fine del 1916: “Come Rasputin fu duro a morire, così Pavel fu duro a nascere”.

Poiché le vicende narrate partono appunto da questi dintorni e approdano al presente, che fa da prologo ed epilogo al tutto, va da sé che le vicende della famiglia Krotoskij (la quale ha in sé, da parte materna, scorta di sangue ebraico) s’intrecciano a tutto il palinsesto del “secolo breve” e postumi.

In questo tragitto, la famiglia s’incontra e s’incrocia con un’altra stirpe non particolarmente grata al Novecento, quella degli Schmidt, sì che la leggendaria maledizione di Raspùtin imprigiona i personaggi attraverso le concretissime trappole del destino che li attendono dal nord dell’Unione Sovietica al sud dell’Italia, dall’est dell’Afghanistan all’ovest del Sud-America.

Trappole che non solo sconvolgono le vite dei protagonisti, ma sono destinate a irretirli  in un limbo di ferite e di recriminazioni che non si risolve con la morte, in una condizione intermedia che richiama, esplicitamente, quella dei defunti di Bobok.

È, infatti, questo il racconto “minore” di Dostoevskij al centro del labirinto di carte lasciato in eredità da Pavel ad Aleksandr, al quale non resta che tentare di “fare ordine tra i ricordi dei morti”, come gli consiglia la moglie australiana Amber, perché non vi è altro modo “per mettere a tacere i fantasmi”.

Ma Aleksandr-Kraisky non è lo scrittore di incerte fortune Ivan Ivanovič e i suoi morti non sono semplicemente imprigionati nei ruoli e nelle maschere della vita che li ha abbandonati: piuttosto, alla vita essi sono stati crocefissi con i chiodi smisurati della storia e quelli sottili delle loro scelte.

Dal primo punto di vista, le fortune dei Krotovskij e degli Schmidt tramontano al sorgere del ‘900: essi vengono – come i Tunda e i Trotta di Joseph Roth – investiti rovinosamente dallo tsunami della contemporaneità: “scompariva tutto un mondo, le crepe di quel terremoto attraversavano la Russia in lungo e in largo, laceravano le famiglie e si insinuavano dentro l’anima delle persone”.

Vi è, però, una differenza essenziale nel tratto maschile dei personaggi di Kraisky rispetto a quelli di Roth.

Per questi ultimi, infatti, la sottrazione del loro mondo costituisce anche il personale e completo sradicamento dall’esistenza, ciò che li rende infine – come nello scintillante explicit di “Fuga senza fine” – essenzialmente “superflui”.

I maschi Krotovskij, al contrario, non sono di quelli che si siedono tranquilli nel cuore di Parigi, accettando il cartellino rosso della Storia. Essi mettono in campo un vitalismo narcisista che si orienta nei tempi cercando di coglierne le opportunità, come nel caso di Pavel che sfrutta ogni chance di diversione, di eclissi e di fatuità che la sovversione delle antiche regole – il demone dell’anomia, direbbe Durkheim – pone a sua disposizione.

Spetta allora alle donne sostenere dalle radici piante così ondivaghe, sì che stavolta sono loro a venir sradicate e fagocitate nel vuoto feroce di questi passatempi maschili. E quando Sigrid (Schmidt) tenta di sottrarsene, allontanandosi da Pavel e tentando di recuperarsi nell’Afghanistan della propria infanzia, in realtà va solo incontro a un’ulteriore e atroce declinazione – transculturale, verrebbe voglia di dire – di questa ferocia distratta, quasi burocratica.

La penna di Kraisky sostiene autorevolmente questo doppia declinazione della vicenda al maschile e al femminile, inerpicandosi – dal lato tragico –  verso un’asciuttezza di linguaggio e una linearità narrativa che fa correre ancora una volta il pensiero a Roth.

Sull’altro versante, un’analoga sobrietà strutturale si colora però degli effetti di uno sguardo impietoso e ironico che porta a provare – verso Pavel e soci – una sorta di simpatia nauseata.

È un esperimento di scrittura davvero ben riuscito, che progressivamente sospinge il lettore ad abbandonarsi a quella complessità della vita che non si decompone nella morte, ma che anzi sopravvive alle cellule e permette a Pavel di rompere finalmente il silenzio con Aleksandr proprio da quella condizione intermedia, per avvertirlo che “il paradiso è qui, sottoterra. L’inferno, come si sa, è in terra, mentre in cielo, figlio mio, in cielo non c’è assolutamente nulla”.

Sono queste le ultime parole, ma forse anche le prime, che egli può dire al suo Saša. La maledizione di Raspùtin è dunque infranta, la pagina ha fatto infine ordine tra i ricordi dei morti e pacificato i fantasmi, ha permesso loro di trovare la via del silenzio autentico, così diverso dal mutismo terreno.

Eppure, mentre scorrono gli ultimi capoversi, si ha l’impressione di udire ancora in lontananza la voce di Pavel, il quale aveva per professione una certa dimestichezza con la letteratura, proprio come Giorgio Kraisky (1916-1998), padre dell’autore. Un mormorio stupito, un commento tra sé e non sé sull’armonia dolente di questo bel libro scaturito infine dalle sue carte e dai suoi patemi.

Forse, un invito rivolto a tutti noi a leggerne le pagine nitide e, a chi può, a non mancare l’appuntamento del 13 aprile a Civitavecchia.

GIUSEPPE NUCCITELLI

https://spazioliberoblog.com/