LE PRIMARIE DEL PD E QUALCHE RIFLESSIONE

di NICOLA R. PORRO ♦

Doverosa premessa. Alle primarie Pd ho votato Cuperlo al primo turno e Bonaccini al ballottaggio. Mi arruolo fra i perdenti. Però mi è andata meglio come osservatore non del tutto digiuno di nozioni politologiche. Voglio dire che sono fra quelli che “li avevano visti arrivare” prevedendo che, con le singolari modalità di gioco delle primarie, al ballottaggio sarebbe prevalsa la candidatura più accattivante  mediaticamente e meglio capace di trasmettere un’impressione di novità. Mi si potrebbe allora domandare perché non mi sia riconosciuto nella Schlein preferendolo l’usato sicuro di un serio e affidabile amministratore non certo dotato di un trascinante carisma? Avanzo due ordini di ragioni. Quelle politiche: della Schlein non mi è piaciuta l’ambiguità sulla vicenda Ucraina: fu uno dei due soli parlamentari Pd usciti dall’aula per non votare lo spinoso decreto sulle armi, salvo “ravvedersi” in seconda battuta nell’imminenza della nomination. Nemmeno mi ha rassicurato l’opinione espressa sui cinquestelle in un’intervista televisiva, tanto edulcorata da apparire elusiva. Io invece continuo a considerare quel partito un avamposto populista e il suo leader un perfetto esempio di trasformismo. 

Altre ragioni. Non mi è piaciuto che abbia preso la tessera del partito, e solo per obbligo regolamentare, il giorno prima di candidarsi a dirigerlo, quel partito. Mi ha pure sconcertato l’entusiasmo suscitato da un’aspirante rottamatrice in uno stato maggiore di rottamandi. Mi riferisco a quei leader pd che certo non sono privi di responsabilità nella conduzione di una forza politica che ha impiegato sei mesi per svolgere un congresso straordinario (quando si dice l’urgenza…)  dopo aver perso, solo nell’ultimo anno, metà degli iscritti. Invece ecco magicamente coagularsi, a sostegno della rivoluzione annunciata, un autentico “campo largo”, l’unico del genere ad avere avuto successo sin qui. Da Franceschini a Bersani passando per Zingaretti, Orlando e l’immarcescibile Bettini. Tutti insieme: i vecchi guardiani del faro insieme ai pentiti delle antiche scissioni, i post-tutto e i neo-qualcosa. Una forma di masochismo? Una forma di lungimirante autocritica ? Oppure il solito trasformismo del gattopardo (cambiamo tutto purché nulla cambi)? Non azzardo giudizi, mi limito a supporre che, come in tutte le cose umane, abbia agito un mix di motivazioni nobili e meno nobili. Già cinque secoli fa, del resto, un notaio fiorentino ci aveva spiegato come l’agire politico risponda a logiche diverse da quelle che regolano altre condotte umane. I miei argomenti, lo riconosco, sono invece quelli di un inguaribile moralista in via di trasformarsi in un vecchio brontolone. Ho tuttavia condiviso sinceramente la soddisfazione di tutti i progressisti per la giornata di democrazia che abbiamo vissuto il 26 febbraio. A confermare, quanto meno, che Il Pd non è una balena spiaggiata: tanta gente ai seggi e una boccata d’aria fresca per tutti. Ma non basta.

 

Ricordiamoci, ad esempio, che ha votato il 30% in meno rispetto alle precedenti primarie, solo quattro anni fa. Ritengo allora che valga la pena di riflettere a mente fredda non più sull’esito del voto bensì sul modello di consultazione adottato. Le primarie a doppio turno, inventate da Veltroni nel 2005, rappresentano un sistema di selezione delle leadership unico al mondo ma mai sottoposto prima d’ora alla prova del fuoco. Ce lo ricordiamo tutti: il risultato del ballottaggio era sempre scontato e confermava immancabilmente quello del primo turno. Si trattava solo di incoronare il vincitore annunciato celebrandolo con una specie di rito comunitario di cui fare partecipe il docile popolo del gazebo. Questa volta invece il ballottaggio ha ribaltato il risultato delle primarie “interne”. Con il risultato che i militanti – quelli che tengono in piedi i circoli, versano le quote, “consumano le suole” nelle campagne elettorali – scelgono un segretario al primo turno e un elettorato di votanti anonimi gliene impone un altro con il ballottaggio. Sia chiaro: tutto perfettamente legittimo in base alle norme vigenti e nessun sospetto, da parte mia, di manipolazioni del voto o infiltrazioni manovrate. Il punto riguarda però la legittimità sostanziale, non la legalità  formale, delle procedure. Ancor prima del voto, del resto, forti riserve erano state avanzate in materia non solo da autorevoli dirigenti di partito – si legga l’intervista concessa a Repubblica da Luigi Zanda alla vigilia del voto – ma anche da molti fra i maggiori studiosi italiani, da Pasquino a Pombeni ai politologi del Mulino, tanto per citarne qualcuno.

Qualcuno si è addirittura domandato se, senza rinunciare al valore aggiunto del voto “esterno” e del “popolo dei gazebo”, non sia meglio concentrare il voto in un solo appuntamento. È il modello delle primarie Usa, dove però la selezione dei contendenti è preliminarmente affidata ai caucus, le assemblee pubbliche che assegnano in dote ai designati le quote elettorali attribuite statisticamente a ogni singolo Stato. I caucus si tengono adottando le più disparate e persino fantasiose procedure di consultazione del ceto politico locale. È interesse dei leader del territorio intercettare al meglio l’opinione degli elettori: ne va dei loro stessi destini elettorali. Mi pare evidente però che parliamo di un altro mondo, nel bene o nel male. Le primarie americane riflettono esemplarmente il modello federalistico del Paese e sono rigorosamente regolamentate: occorre iscriversi preventivamente a un albo pubblico degli elettori, altro che affacciarsi a un gazebo, versare due euro, segnare una croce e proseguire la passeggiata domenicale.  Quello però che è essenziale ricordare, prima di istituire confronti impropri, è che le primarie aperte dei democratici non eleggono un segretario di partito bensì designano il candidato che sfiderà i repubblicani alle successive elezioni presidenziali. Sono procedure proprie di un bipartitismo perfetto e di partiti “carsici”: nessuno si accorge della loro esistenza in vita sino a qualche settimana prima di una qualsiasi scadenza elettorale, quando si materializzano repentinamente. Poche ore dopo il voto torneranno in immersione nel disinteresse di tutti. Non esistono nemmeno sedi fisiche: si affittano locali per le campagne elettorali liberandoli in tutta fretta dopo il voto. Si tratta, infatti, di comitati elettorali che niente hanno a che vedere con i partiti politici all’europea. Si converrà che, al di là delle formulette di pronto impiego, è tutt’altra cosa che scegliere il leader di un partito come il nostro Pd. Al(la) quale toccherà garantire una linea politica ma insieme preoccuparsi di consegnare a mani affidabili la gestione organizzativa, promuovere i candidati alle cariche pubbliche, seguire l’attività istituzionale senza dimenticare le relazioni pubbliche, le feste di partito e tutto quanto attiene al funzionamento di macchine complesse e in precario stato di salute come i nostri partiti. 

Anche nel resto d’Europa il sistema delle primarie per eleggere un leader di partito non è mai esteso ai non iscritti. Ogni partito inoltre, a eccezione del solo Pd, si è dotato di procedure che evitino possibili effetti perversi, come quello cui abbiamo assistito da noi con tre candidati espressione di una stessa realtà territoriale e di una comune storia organizzativa. La generosa candidatura last minute di Cuperlo è servita solo a evitare che gli elettori si sentissero chiamati ad arbitrare una specie di derby giocato fra due candidati bolognesi e una piacentina. A confermarlo sta il fatto che il nostro abbia praticamente rinunciato a farsi propaganda (da qui forse la motivazione inconscia del mio voto al primo turno).  Ancora una volta: niente di illecito o di scandaloso, però si converrà che la cosa è un po’ imbarazzante per un partito che vuole rappresentare un Paese complesso e variegato come il nostro.

Infine dedico un pensiero irriverente ai sondaggisti: ce ne fosse uno che abbia azzeccato la previsione! Un mio amico, che fa quel mestiere da decenni e gode di una certa notorietà, era sbottato a ridere quando mi ero detto certo della sconfitta finale di Bonaccini, dato per vincente da tutti i sondaggi. Invece avevo ragione io!. Signori della corte: invoco per i sondaggisti una condanna esemplare. Non hanno scuse: dispongono di strumenti e metodi di rilevazione sempre più efficaci e sicuramente più sofisticati del mio naso, che sarà pure pronunciato ma è da anni in quiescenza professionale. Perché un simile fiasco? Gli antichi greci li avrebbero accusati di hybris: la presunzione di predire ciò che non è possibile predire. Per l’evidente ragione che si comparavano due universi statistici totalmente difformi. Uno, quelli degli iscritti che hanno votato al primo turno, poteva essere facilmente campionato: bastava usare i dati del tesseramento. E infatti, dove si è sperimentato qualche sondaggio sul primo turno, i risultati sono stati sostanzialmente confermati. Il più vasto e composito “popolo del ballottaggio”, invece, non poteva essere in alcun modo sondato preventivamente. Per l’ovvia ragione che si sarebbe materializzato solo ai gazebo il giorno del voto. La deontologia professionale avrebbe consigliato di astenersi da un gioco impossibile. Ma forse i maestri della percentuale hanno preferito incorrere in una figuraccia anziché rinunciare a qualche ben remunerata committenza…

Più credibili e più interessanti sono invece le informazioni raccolte fra i votanti all’uscita dai seggi. Quelle fornite dall’Istituto Noto, che ha presidiato un numero consistente di seggi campione, hanno rivelato, ad esempio, che il 22% dei votanti si dichiarava elettore cinquestelle. Considerando che lo scarto fra i due contendenti è risultato attorno ai sette punti (53.7% a 46.3%), quei votanti potrebbero aver deciso il risultato finale.  È ovviamente inutile rinfocolare sterili polemiche, tanto più che lo stesso Bonaccini ha riconosciuto tempestivamente, e con grande fair play, il risultato. È però lecito porsi qualche domanda. Si trattava di ex votanti cinquestelle delusi del loro partito e disgustati da chi aizzava alll’odio per il Partito di Bibbiano o  il Pd menoesse?  Erano elettori che si vergognavano tardivamente di aver avuto per alleato nel governo Conte I un Salvini deciso di risolvere a cannonate le politiche migratorie? Oppure erano curiosi in gita domenicale ai seggi del Pd? Esprimevano fiducia in un progetto politico o partecipavano a una specie di gioco di società? Escludo dal novero delle possibilità quella di un’intenzionale manipolazione del voto. Non ci credo perché, in tal caso, non avrebbero dichiarato il proprio voto agli intervistatori.  Però non penso nemmeno che si possa sbrigativamente archiviare la questione. La più interessata a saperlo dovrebbe essere la vincitrice, che ha pescato assai più dell’avversario nel mare magnum del voto di opinione. La questione può suggerire una riflessione non superficiale e non precipitosa sui problemi che ho cercato di evidenziare e su altri che magari non sono stato capace di catturare. Riflettiamo serenamente ma seriamente su un modello che non ha altri esempi da cui trarre insegnamenti. E intanto godiamoci una partecipazione alle urne che ha quanto meno smentito il diffuso pessimismo della vigilia.

NICOLA R. PORRO

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