LA DESTRA, IL SOVRANISMO E UNA PATRIA CONTESA
di NICOLA R. PORRO ♦
In anni lontani frequentavo spesso, per ragioni di lavoro, la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Perugia. Erano gli anni del berlusconismo rampante che certo non incontrava i favori della nostra piccola comunità di ricercatori, tutti collocati a sinistra. Fra i colleghi perugini c’era Alessandro Campi, giovane ma già affermato politologo (pochi giorni fa è stato chiamato a far parte del prestigioso Comitato Scientifico della Treccani). I suoi contributi alle nostre discussioni erano sempre pertinenti e non di rado originali. Rappresentava però una figura un po’ speciale nel nostro ambiente. Si diceva avesse trascorsi di destra e che fosse stato fra gli ispiratori (senza però condividerne in seguito gli sviluppi politico-organizzativi) della svolta di Fiuggi del 1995 con cui Gianfranco Fini provò a sdoganare la destra neo (post) fascista traghettandola nel nuovo contenitore di Alleanza Nazionale. In seguito non ho avuto più contatti di lavoro con Campi e ho seguito solo a distanza la sua produzione in quella labile terra di confine che divide la politologia dalla sociologia politica.
In questi giorni esce a sua firma, per i tipi della Marsilio, un saggio dedicato alla destra italiana (o meglio: alle destre italiane) dal titolo Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo. Vi ho trovato una riflessione che colma una grave carenza di analisi sul tema, con la meritoria eccezione delle ricerche di Piero Ignazi. Questa “rimozione dell’avversario” costituisce un atteggiamento professionalmente e anche politicamente ingiustificabile: dovremmo semmai conoscere meglio gli avversari per combatterli meglio… A nostra discolpa c’era tuttavia (e c’è in parte ancora) l’obiettiva difficoltà a penetrare un universo politico-culturale percepito come distante e spesso autoreferenziale. Intanto, in attesa che qualcuno si degnasse di aggiornare il profilo della nuova/vecchia destra, siamo diventati cittadini del più importante Paese della UE governato da una forza politica che non ha mai formalmente reciso le radici di un passato inquietante. La fiamma tricolore che evoca la memoria di Salò è ancora lì, ben visibile, nello stemma del primo partito del Paese (pardon: della Nazione).
Come è potuto accadere? Ci aiuta a capire la riflessione che Campi dedica a una destra non più minoritaria nelle urne, ma ancora minoritaria nella cultura politica. Esemplare è la strategia di inseguire il consenso enfatizzando minacce di ogni genere, o inventandole di sana pianta, talvolta con sprezzo del ridicolo: si pensi al micidiale attacco che, secondo la Meloni, un pugno di anarchici redivivi starebbe in questi giorni sferrando al cuore dello Stato. Diversivi propagandistici di cui non è il caso di scandalizzarsi: appartengono ai repertori tradizionali della propaganda. Preoccupante è piuttosto il fatto che non siano accompagnati da qualche serio tentativo di aggiornare la cultura politica di forze chiamate a governare una delle dieci potenze economiche mondiali.
Campi non ne è sorpreso. Il nuovo nazionalismo italiano – o sovranismo che dir si voglia – non rappresenta altro, a suo parere, che una retorica opportunista. Lega e FdI, eredi di una storia che affonda radici nell’Italia postunitaria, un secolo e mezzo or sono, esibiscono visioni puramente declamatorie, capaci di eccitare emozioni ma non di produrre disegni e strategie di ampio respiro. È questo il tratto distintivo che associa l’estetismo dannunziano alla retorica populista di Mussolini, la subcultura della nostalgia di impronta missina al vittimismo aggressivo sopravvissuto alla svolta di Fini, il leghismo secessionista delle origini al tentativo berlusconiano di fare della politica una questione di marketing aziendale.
Campi si concentra sulla versione più recente delle mille reincarnazioni della destra italiana: quel sovranismo di cui Meloni e Salvini rappresentano le figure eponime. Ad accomunarli c’è «una dottrina della decadenza, il nazionalismo dei popoli stanchi… (che)… alimenta la sensazione di accerchiamento e l’allarmismo delle fasce più disagiate, ma non spinge il proprio Paese alla competizione, alla crescita o all’innovazione». La vera costante della propaganda delle nostre destre è rappresentata da «un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere». A costo di ricorrere a quella manipolazione della verità e a quella grottesca demonizzazione dell’avversario di cui abbiamo avuto testimonianza in un recente dibattito parlamentare a opere di figure che pure appartengono all’élite dirigente del partito di governo e al cerchio stretto della Presidente del Consiglio.
Il “nazionalismo dei popoli stanchi” rappresenta una cesura con la Destra storica, di ispirazione liberale e cavouriana: l’unica destra paragonabile ai grandi partiti conservatori di Francia e Gran Bretagna che l’Italia abbia mai conosciuto. Priva di un consenso di massa – erano tempi di democrazia ristretta e di voto censitario -, essa fu comunque capace di portare a compimento quel progetto risorgimentale le cui icone simboliche, Mazzini e Garibaldi, appartenevano senza equivoci alla sinistra. Di quel progetto la destra storica compresse l’ispirazione progressista e repubblicana a beneficio della Realpolitik. Tuttavia, a parere di Campi, la cosiddetta Destra storica non si limitò a costruire la Nazione: perseguì, non senza contraddizioni, un’idea di Paese e le diede la forma di uno Stato. Quell’idea di Nazione, a differenza di quella che svilupperanno le destre del Novecento, non confondeva indipendenza e sovranità con la sfida arrogante ai potenti vicini. Essa, del resto, in Italia affondava in Italia radici in un irrisolto complesso di inferiorità verso la Germania in formazione, l’Impero austro-ungarico, le potenze coloniali di Francia e Gran Bretagna.
Il nostro sentimento nazionale, insomma, non è nato «aggressivo, guerrafondaio, roboante». Lo diventerà solo agli albori del XX secolo, anche quando vestirà i panni di un iper-modernismo à la page. Intriso di paranoia, sarà ostile all’industrializzazione e inclinerà a una rappresentazione dell’Italia che Campi definisce «faustiana, autoritaria, colonialista». Prese così forma una mitologia nazionalista che portava l’imprinting eroico della Grande Guerra. Se ne approprieranno quelle avanguardie del fascismo che non di rado (come nel caso di Mussolini) provenivano dalle fila della sinistra massimalista e persino dell’anarchismo. I nazionalisti tracceranno il perimetro simbolico della Nazione producendo anche qualche effetto perverso. Infatti…«Pur esaltando il patriottismo e l’italianità in modo quasi parossistico, (i nazionalisti) hanno finito per sacrificare la nazione alle loro ambizioni imperialistiche, sino a considerarla un residuo ideologico borghese». In questa chiave si comprende anche come mai, dopo un’iniziale diffidenza, Mussolini si fosse fatto catturare dal sogno perverso dell'”ordine nuovo” hitleriano: una forma di globalismo totalitario incompatibile con la filosofia degli Stati Nazione e la loro narrazione identitaria.
Alla fin fine, argomenta Campi, chi è causa del suo mal pianga sé stesso: è stata la destra neo(post)fascista ad adottare, nell’Italia postbellica, un linguaggio e una strategia comunicativa che mescolavano e confondevano l’ideologia nazionalistica – cavalcata dai peggiori regimi totalitari – con quel sano e legittimo sentimento patriottico che è patrimonio condiviso di ogni democrazia. Persino uno storico di granitica fede marxista, come Eric Hobsbawm, in uno di suoi ultimi lavori aveva infatti invitato la sinistra britannica e quella internazionale, a “riprendersi il patriottismo”. La patria, argomentava, è la terra dei padri: lo scrigno che custodisce la memoria di ciò che siamo e che siamo stati come “comunità di destino” nel dolore e nella felicità, nella paura e nel coraggio. Riconoscersi in un’appartenenza plurale, aperta al mondo, è l’esatto contrario del nazionalismo angusto e provinciale che ha gemmato i fascismi fra le due guerre. Per questo, diceva il grande storico, la sinistra deve riprendersi la patria e sottrarla all’appropriazione indebita da parte delle destre. Ai suoi occhi, un caso esemplare era rappresentato proprio dal nostro Risorgimento, quando fu la sinistra a mobilitare il sentimento e l’immaginario patriottico. La “patria” che infiammava i cuori di Garibaldi (che nel 1864 aveva partecipato alla fondazione dell’Internazionale Socialista) e di Mazzini (seguace della filosofia radicale di Saint-Simon) era intesa prima di tutto come una comunità bisognosa di riscatto sociale. Oppressa da potenze militari straniere, governata da despoti capaci a malapena di esprimersi nella nostra lingua, sottoposta alle pretese temporali di una Chiesa negatrice dei princìpi evangelici, era segnata in alcune regioni da un regime del lavoro poco meno che schiavistico. Niente a che vedere con l’idea di nazione che avrebbe più avanti eccitato gli spiriti animali delle culture reazionarie e ispirato la ripugnante idea di una gerarchia di rango fra popoli servi e popoli eletti, fra reietti e predestinati. Vi si affacciava anzi, già nell’Ottocento, il sogno progressista di quell’”Europa delle patrie” di cui purtroppo si approprierà un secolo dopo, pervertendone il significato, il nazionalismo gollista.
Nell’Italia postbellica il ceto politico di governo, soprattutto di parte democristiana, rimuoverà l’idea stessa di patria-nazione. Si rifugerà nella dizione anodina di «Paese»: un regalo semantico ai neofascisti che erano confluiti nel neonato Msi. Il quale, già nel nome (ricercando l’assonanza con Rsi, Repubblica Sociale Italiana) e nel corredo simbolico evocava innegabilmente il lascito mussoliniano.
Campi ritiene tuttavia che proprio nell’emarginazione politico-culturale della destra, seguita alla sconfitta militare del fascismo e alla guerra di Liberazione (declassata a “guerra civile” dalla vulgata missina), vada rintracciata la causa principale di un persistente ritardo culturale e la sua propensione al vittimismo. Ne ritroviamo un esempio recente nel discorso di insediamento di Giorgia Meloni, con il ricorso alla metafora dell’underdog. Neofascisti e/o postfascisti continuano, insomma, a rappresentarsi come naufraghi in balia delle onde tempestose della democrazia repubblicana crogiolandosi in una specie di rancoroso isolamento. Il quale impedirebbe loro, secondo Campi, di «… sviluppare un sentimento di appartenenza nazionale libero da qualunque richiamo nostalgico al vecchio regime e di accettare dunque la tavola dei valori fissata nella Costituzione del 1948».
Di certo non è stata rimossa l’ambiguità che impediva di fare i conti con l’efferatezza di Salò e il suo torbido repertorio nostalgico. L’ambiguità sarà peraltro un tratto proprio anche delle altre destre postbelliche “non di ascendenza fascista”, a cominciare da quella berlusconiana e da quella leghista fra gli Ottanta e i Novanta. Priva di ogni parvenza di visione sociale (è esistita una destra sociale, ma non certo una visione berlusconiana dei diritti sociali), la propaganda forzitaliota si è accompagnata e talvolta sovrapposta a quella bossiana. Due forme diverse e complementari di populismo che oscilleranno «tra sentimentalismo e propaganda, tra l’uso strumentale-retorico del tricolore fatto dal mondo berlusconiano, che lo ha adottato come simbolo, e l’uso polemico-denigratorio che ne hanno fatto i leghisti, in quanto simbolo di un’unità nazionale penalizzante per il Nord».
Dopo i recenti successi elettorali della destra, in un sistema politico transitato in pochi anni da una quasi completa immobilità a una vorticosa mobilità elettorale, prende invece forma un’idea di nazione definibile come “patriottismo della venticinquesima ora” o “amor di patria da catastrofe”. Rappresentazioni cui fa da corollario l’idea che gli italiani “si riconoscano” solo nei momenti di difficoltà collettiva: è l’italianità ridotta a placebo emozionale, un surrogato di identità magistralmente evocato dall’“eroe per caso” dei film di Alberto Sordi. Un’appartenenza comprensibilmente eccitata dall’eccezionalità che ritroviamo nei grandi eventi collettivi, dalle vittorie calcistiche degli azzurri (Umberto Eco scrisse pagine memorabili sul Mundial 1982) alla solidarietà di fronte alle calamità naturali. Si tratta, peraltro, di dinamiche sociologiche ricorrenti, e non solo in Italia: Campi ammonisce piuttosto a non sottovalutare luoghi comuni e banali generalizzazioni di questioni che affondano radici nella storia.
Se non indagati e adeguatamente elaborati, possono incubare quel fenomeno culturalmente primitivo che chiamiamo sovranismo. Lo stesso che si riaffaccia nei revival nazionalistici che, nel tempo della globalizzazione, infiammano la civilissima Europa, dalla Catalogna alla Scozia, mentre l’invasione russa dell’Ucraina ci fa ripiombare nell’incubo della guerra. No: il sovranismo non merita di venir promosso a dottrina politica. Costituisce piuttosto «un espediente politico-psicologico, grazie al quale si offre un antidoto momentaneo e provvisorio alla paura e all’incertezza ma senza una concreta traduzione sul piano sociale e istituzionale, senza presentare una qualche visione condivisa del futuro». L’idea stessa di nazione finisce così per evocare soltanto la tana dove custodire quelli che Pareto avrebbe chiamato “residui e derivazioni” della Storia. Rinunciando a farne il carburante per trasformare la società e le sue istituzioni. Un compito che spetta ai progressisti, sperando che siano all’altezza della sfida.
NICOLA R.PORRO
Ottimo, Nicola.
Da leggere e rileggere.
Tante risposte all’uso politico della storia e all’abuso del nazionalismo.
Grazie.
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Che interessante!
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Grazie, Nicola: un contributo davvero prezioso per la lettura della storia attuale e recente.
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