I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 12: L’incontro del mondo con il suo più grande narratore e poeta: Omero.
Tutto si compie quando questa straordinaria opera di elaborazione s’incrocia con il più grande poeta e narratore di tutti i tempi, l’uomo che ha inventato tutti i generi letterari, l’amore, la morte, la guerra, la fantascienza, la tragedia, la commedia, la sceneggiatura, gli scenari, l’unico, come ho già detto, capace di scolpire il metallo con i versi, Omero, anche lui cantastorie, cieco, ma capace di tramandare in una lingua ormai matura la civiltà.[1]
[1] Giacomo Leopardi “Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno maggiore di Omero ebbe mai, non dirò la Grecia, ma il mondo.”
Omero è un genio che anticipa i moderni anche nell’arte della comunicazione. Chi altri, per dirne una, avrebbe potuto, per tenere desta la curiosità dei suoi ammiratori, annunciare un terzo poema?
Sì, perché anche questo ha fatto. In un libro dell’Odissea, Ulisse evoca i morti, in particolare vuole interrogare l’anima di Tiresia, indovino che tanta parte ha avuto nell’Iliade. Gli vuole chiedere quale sarà il suo destino e Tiresia gli dirà che riuscirà a tornare a Itaca, riassumendo tutti i poteri, ma per lui non sarà ancora finita, riprenderà il mare per un secondo viaggio e tornerà in patria dopo altri dieci anni, per morire in pace nel mare che tanto gli ha dato e tanto gli ha tolto.
I suoi fans, diremmo oggi, quel terzo poema non l’ascoltarono mai, oramai Omero era vecchio.
Non sono soltanto i grandi poeti e scrittori a noi più vicini a considerare Omero l’uomo che più di ogni altro ha ricevuto il favore delle Muse, Dee che hanno deposto tra le sue braccia la poesia, l’immaginazione e probabilmente la musica. Già nell’antichità gli venivano dedicati inni come quello ad Apollo: «O fanciulle, chi è per voi il più dolce degli aedi[2], che qui sono soliti venire e chi è il più gradito? E voi tutte risponderete: è un uomo cieco e vive nella rocciosa Chio: tutti i suoi canti saranno per sempre i più belli».
Non si può parlare di Omero senza un cenno alla «questione omerica».
In molti hanno dubitato persino della sua esistenza, troppo remota la data della sua nascita, VIII secolo a.C., troppe le città che ne rivendicano i natali, anche se Chio sembra avere la meglio.
L’ipotesi non può essere presa nemmeno in considerazione.
Non solo Omero è vissuto nei canti dei rapsodi e nelle menti e nei cuori di uomini e donne del mediterraneo, per passare con immutata capacità di attrazione in quelli di uomini e donne di tutti i tempi e di tutto il mondo, ma, adorato dai contemporanei, sappiamo della sua vita dalla biografia, che più nobile non potrebbe essere, che ne fece Erodoto.
Più tardi Omero, in un’operetta di cui è restata soltanto la memoria, venne messo a confronto con un altro grandissimo poeta e aedo, Esiodo, vissuto poche decine di anni dopo.
Più complessa la questione delle origini dell’Iliade e dell’Odissea e dell’appartenenza dei due poemi a un unico autore.
In molti, con motivazioni plausibili, talvolta difficili da superare, sostengono che non è possibile che Iliade e Odissea provengano dalla stessa mano, troppo le contraddizioni, troppo diverso lo stile, disordinati gli inserimenti di dialetti eolici, ionici, dorici, l’epica sbiadisce nell’Odissea per riaffiorare solo quando Ulisse riprende le vesti dell’eroe e fa strage dei Proci.
Argomenti seri che, però, non considerano che i sommi poemi vengono resi in forma scritta nel VI secolo a.C., per ordine del Tiranno di Atene Pisistrato, due secoli dopo la nascita di Omero.
Ce n’è un’altra di obiezione, tra le altre forse la più insidiosa.
Iliade e Odissea descrivono mondi diversi.
L’epica, il tempo degli eroi, dei guerrieri, dei borghi fortificati, dei re, della promiscuità tra uomini e Dei, dell’onore, della vendetta dominano l’Iliade.
L’epica quando viene scritta l’Odissea, non è ancora tramontata, ma si va facendo strada un nuovo mondo. Ulisse è in armi solo al rientro a Itaca, il suo valore è intatto e stermina i Proci che avevano fatto bivacco della sua dimora, Nei precedenti dieci anni conosce il mondo, altri paesi, altre genti cui l’epica e le armi sono estranee, conosce l’amore e le sue mollezze, sette anni rimarrà tra le braccia di Calipso, uno tra quelle di Circe e, solo volesse, potrebbe rimanere fino alla morte tra quelle di Nausicaa, deliziosa fanciulla, figlia di Antinoo re dei Feaci.
Ogni volta, però, si trattiene: Atena, un’altra donna, anche se Dea, vuole che ritorni a Itaca.
Ulisse non combatte, non cerca bottini, se mai riceve doni. La sua astuzia lo mette al riparo da tutto, ciclopi, magia, ignoto. La sensazione è che si affranchi addirittura dagli Dèi, non esita a ridurre alla cecità i loro figli, non conosce la paura, ma affronta ogni sfida con prudenza, è orgoglioso e rivendica il suo ruolo nella caduta di Troia, ma il ricordo sbiadisce tra le braccia di tante bellissime donne.
Non c’è dubbio, gli eroi sono scomparsi, ne è rimasto uno, che non ha e non cerca rivali, l’uomo che rinuncia all’immortalità offertagli da Calipso, sicuro del suo ingegno, che sente l’umanissima nostalgia della sua terra, della moglie, di cui, per la verità, non ha sentito troppo la mancanza.
Sono obiezioni serie, ma proprio qui è il miracolo. Nulla scalfisce la fama di Omero, niente offusca il suo nome, né l’evidente diversità del retroterra sociale che ispira i due poemi, né le forti differenze tra i personaggi dell’uno e dell’altro.
Giustamente gli amanti, che non vedono le pieghe che il tempo lascia sul volto dell’essere amato, vi diranno, ma che dite, tra i due poemi ci sono cinquant’anni, logico che ci fossero stati cambiamenti e Omero prima giovane, poi vecchio li ha percepiti.
Ed il miracolo è proprio questo, tutto cambia, ma non cambia la fonte divina nella quale Omero si immerge e a cui si abbevera. Quando chiudiamo l’Iliade o l’Odisse non c’è personaggio, neppure di quelli minori, che non ci rimanga impresso nella mente, non c’è verso, all’apparenza trascurabile, che non sia perfetta e coerente con tutti gli altri.
La «questione omerica», insomma, è risolta dalla qualità artistica sublime e identica dei due poemi, semplicemente non è possibile che a distanza di pochi decenni nascessero in Grecia due poeti con caratteristiche analoghe, eguale talento, stessa capacità di rendere ordinata, strutturata e coerente una trama complessa. Ancor meno possibile che i XXIV libri dell’Odissea siano stati scritti da 24 poeti diversi, tutti con lo stesso talento, tutti baciati dalle muse.
Uno, soltanto uno poteva farlo: il divino cantastorie cieco di Chio.
EZIO CALDERAI (CONTINUA)
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