Archeologia industriale 

di ANNA LUISA CONTU

Nei primi anni sessanta ci stabilimmo, pastori a mezzadria,  nella tenuta Filò a Santa Lucia. Il casale, che non era un casale ma un camerone- magazzino, era situato su una collina dove si infrangeva, in quei settembre, un vento di maestrale che faceva tremare e scuoteva la precaria copertura in lamiera del camerone. Si ergeva , nudo, senza alberi frangivento  intorno e la pioggia, quando cadeva avara,  scavava nel tetto le stelle del firmamento che sognavo di vedere prima di addormentarmi;  in parole povere, ci pioveva dentro. Intorno non c’era niente; i casali dei contadini dell’ente maremma erano oltre la strada braccianese  che portava verso i paesi di Allumiere e Tolfa. 

Ai piedi della collina c’era  un fosso dove scorreva la Fiumaretta, che si attraversava con un ponticello che, adesso, mi ricorda certe strutture nelle campagne inglesi.  Questo portava, attraverso la strada sterrata, all’unico casale di vicini , contadini poverissimi , una famiglia di abruzzesi di tanti  bambini e bambine che si arrangiavano come potevano a crescere con la loro mamma fuori di testa per il bisogno e la vita ingrata.

Io osservavo ed esploravo intorno; era una campagna desolata, non coltivata, solo pascolo, e appezzamenti messi a maggese. 

Quanto ritornava dalla transumanza a Gualdo Tadino , durante l’estate, il nostro gregge stentava a trovare erba fresca. Quel vento aveva spazzato via ogni velleità di pioggia. E così le pecore, alcune già figliate, percorrevano in lungo e in largo i tanti ettari di quella terra.

 E seguendo con gli occhi il tragitto del loro peregrinare, mi accorsi che qualcosa scorreva per aria; partiva dai Sassicari , sopra Tramontana, una collina spaccata come una pezza di formaggio, giù verso la caserma della Polveriera e poi scompariva.  Per giorni a studiare quel movimento, con quei cassoncini che andavano e venivano. 

Eravamo grandi abbastanza, io e i ragazzi e le ragazze della nostra famiglia allargata che abitavamo il camerone, da andare a soddisfare quella curiosità da vicino. 

E così, come in una scampagnata, verso la Ficoncella dove un burbero autoctono uscito da una casa sommersa da alberi e cespugli  e rovi, ci chiese che cercavamo. Sempre la paura che qualcuno gli rubasse la frutta, l’uva, le melacotogne, i fichi tardivi, quelli che mia madre chiamava aiucu de duas vias, fichi di seconda raccolta , i più dolci e che lei metteva a seccare per mangiarli a Natale.  

Ma noi non cercavamo frutta, volevamo sapere. Che cos’erano quei contenitori che si muovevano, adesso l’avevamo visti da vicino, portati da fili metallici da un traliccio ad un altro? “È la pietra per fare il cemento, viene da quella collina sventrata”. Ecco cos’era quella forma di formaggio che vedevo da lontano, la collina che forniva la materia prima che arrivava a quel grande stabilimento che vedevo dal pullman che scendeva da Tolfa e mi portava a scuola in città. Uno stabilimento tutto bianco e polveroso, che riempiva di polvere il quartiere che gli era cresciuto intorno e nel quale poi andammo ad abitare, in una casetta bassa , quando lasciammo la campagna.  

La sua mole era impressionante ed aveva due ciminiere altissime che mi provocavano un senso di vertigine e piccoli brividi di paura quando ci passavo sotto, in via Amba Aradam per andare in centro. Quando non fu più economico produrre cemento, la fabbrica venne chiusa, nonostante le proteste dei pochi operai rimasti . Eppure quella fabbrica era un simbolo  dell’economia della città e altre volte c’erano stati scioperi e occupazioni per difenderla. 

La mia amica Francesca, prima del lavoro, era ai cancelli a vendere il giornale “Lotta Continua” e parlare con gli operai . La nostra scuola di femminismo è derivata anche da quel misurarsi con esperienze che non ci costringevano dentro stereotipi. E durante uno di quegli scioperi un nostro giovane amico studente a dar man forte al picchetto operaio venne arrestato con l’accusa di resistenza e oltraggio  a pubblico ufficiale. Una storia antica che oggi mi rimanda alle giovani e ai giovani arditi dell’Iran che lottano contro il regime teocratico. Il nostro compagno si fece qualche settimana di carcere, certo con tutte le garanzie dell’habeas corpus, ma il suo spirito non fu piegato. 

Oggi lo stabilimento  dell’Italcementi si erge degradandosi e spargendo ancora i suoi veleni in città. Qualche candidato sindaco, senza aver il senso delle proporzioni, propose di farne  una sede museale sull’esempio della centrale di Battersea di Londra che, ristrutturata e riconvertita con milioni di sterline, è diventata sede della Tate Modern. 

Invece più realistica mi pare l’idea di rimettere in funzione la linea di trasporto dei vagoncini , sostituendoli con cabine per attraversare la valle sottostante che ha qualche pregio paesaggistico e raggiungere l’antica città di Aquae Tauri sul colle della Ficoncella.

ANNA LUISA CONTU

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