I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.

di EZIO CALDERAI ♦

Capitolo 10: Il declino di Micene e la memoria ritrovata.

L’inverno quell’anno fu lungo. Agenore e Zenone erano sempre piegati sulle carte geografiche ed era Agenore a indicare le isole, la terraferma, le città dove era stato tante volte, ne conosceva usi, costumi; era tra i pochi a possedere carte nautiche usate dai fenici da secoli.

Kalliope aveva intuito i piani dei due amici, ma non fece in tempo a scoprirli. Venne preceduta da Zenone. Un giorno, a tavola, pregò le persone a cui era più affezionato di ascoltarlo. « ».

«Negli ultimi tempi non vi è sfuggito il mio cambiamento d’umore. L’ho letto nei vostri occhi ed in effetti vi sarò sembrato assente, quasi incurante del vostro affetto.

   E’ vero. Solo in parte, tuttavia, e non per le ragioni che pensate o temete. Io non ho e non amo che voi. Un tarlo mi rode, però. Non ho ritrovato la memoria della mia giovinezza. Non ricordo il volto di mia madre. Che ne è stato di lei? Chi era mio padre? Ad Agenore ho raccontato che a Troia mi ha portato un cavaliere, ricordavo le vesti della casata e i colori e i disegni delle insegne, Agenore li ha subito riconosciuti, erano quelle di Agamennone, Re di Micene e della Argolide. Quindi e da lì che provengo, ma nella mia mente non riesco a vedere quei luoghi, tanto meno la dimora dei miei genitori.

   La mia paideia[1] dimostra che ho avuto dei maestri. Ma dove? Chi erano?

   Debbo tornare da dove vengo. Se non lo faccio il rimorso mi accompagnerà tutta la vita.

   Agenore si è offerto di accompagnarmi».

Dafne l’aveva ascoltato senza riuscire a trattenere le lacrime: «non sopporterei se mi lasciassi, ho paura, il mare mi ha già punito. Che farei senza di te? Almeno aspetta che la memoria ti torni».

Kalliope si alzò in piedi: «Zenone ha ragione». Kyros la seguì: «Si può perdere memoria dei propri genitori, ma non si può smettere di cercarli». Dafne corse in camera sua.

Mai Dafne e Zenone si erano amati come nei mesi che precedettero la partenza.

***

Partirono quattro mesi dopo.

Zenone lasciava Dafne e Kalliope in mani sicure, ma con la morte nel cuore.

***

La rotta seguiva le isole dell’Egeo verso il Dodecaneso, Chios, Icaria. Quando sbarcavano la fama aveva preceduto Zenone, che raramente riusciva a sottrarsi ai pressanti inviti a cantare le sue storie.

Con sé aveva portato la cetra.

La sorpresa, anche per Agenore, fu di incontrare numerosi cantastorie. Alcuni li riconobbe, erano venuti al villaggio per incontrarlo. Tutti erano animati dal desiderio di imparare e anche lì gli facevano domande a non finire, quasi a voler rubare i suoi segreti.

A Zenone non dispiaceva, anzi ne era felice, si sentiva come il contadino che getta il seme in autunno e aspetta l’estate per raccogliere le messi dorate.

Anche Agenore aveva le stesse sensazioni: quei contastorie anticipavano il progresso degli uomini che parlavano la lingua greca o meglio che la stavano creando.

***

La loro meta, tuttavia, era Micene. Dovevano affrettarsi. Si fermarono solo ad Atene per rifornirsi e rimasero qualche giorno, incuriositi da questa città giovane e in grande fermento. Atene era piena di cantastorie. Lì Zenone non lo conoscevano, ma erano tutti molto bravi e non furono poche le cose che imparò da loro.

***

Zenone e Agenore sbarcarono nei pressi di Micene e s’incamminarono verso la città delle grandi mura, culla della civiltà greca. Il paesaggio che gli appariva era desolante, polvere dappertutto, né alberi, né piante, rade e malsane le coltivazioni, edifici in rovina. Cosa poteva essere successo?

Anche la città era in rovina, le possenti mura si stavano sgretolando, i pochi abitanti che circolavano erano dimessi, camminavano lungo i muri, sembrava volessero evitare gli sguardi degli stranieri.

All’angolo di una piazza, gettato per terra, c’era un ragazzo, l’aria sfinita, sembrava dormisse.

Zenone e Agenore si avvicinarono. Avevano notato una cetra che teneva stretta al fianco. Agenore porse al giovane dell’acqua, lui si ritrasse, ma un attimo dopo prese il boccale con avidità.

Agenore gli chiese se avesse fame: «Abbiamo del cibo, saremmo felici di dividerlo con te».

La paura al ragazzo era passata, aveva visto che gli stranieri erano ben vestiti, avevano numerosi servitori; si avventò sul cibo senza neppure ringraziare.

Lo aiutarono a mettersi seduto e lo lasciarono mangiare, chissà da quanto non lo faceva.

Stava meglio e Agenore, che sembrava parlasse tutti i dialetti del mondo, gli chiese cosa fosse mai successo a Micene per essere ridotta così e cosa ci facesse con una cetra.

Il ragazzo travolse di parole gli stranieri, come un fiume inonda le campagne dopo aver rotto gli argini: «Mi chiamo Cilone e sono un cantastorie, ecco perché porto la cetra; lo era mio padre, lo sono io; non pensavo che il mio destino fosse cantare la fine della grande Micene. Già quando Agamennone era partito per Troia Micene era l’ombra di quella di un tempo, ma il prestigio del Re aveva impedito la rovina, che sopraggiunse quando tornò vittorioso con un bottino sfarzoso, con schiavi e concubine, tra le quali Cassandra, figlia di Priamo, Re di Troia, e inascoltata profetessa. Forse fu quella la causa di tutte le disgrazie, forse fu l’ostilità degli Dèi. Clitennestra, moglie del Re, non accettò un’altra donna a Palazzo e con l’aiuto dell’amante, Egisto, trucidò Agamennone[2]. Fu un bagno di sangue, anche Cassandra e gli schiavi troiani vennero passati per le armi.

   Gli amanti pagarono a caro prezzo l’infame tradimento e trascinarono nella loro sorte quel che era rimasto di Micene. Oggi sono rimasti anarchia, carestia, desolazione. Vi prego, portatemi con voi e lasciatemi nella prima città viva, dove io possa narrare la fine terribile di Micene».

Zenone e Agenore decisero di portarlo con loro.

***

Ritornando verso la nave, da lontano, videro i ruderi squarciati di una grande casa in mezzo a un terreno arido e spoglio. Non potevi non notarla. Zenone sbiancò. Era casa sua. In un attimo riaffiorò il ricordo degli anni della fanciullezza, i volti dei genitori, i primi studi, fino alla decisione del cavaliere di portarlo con sé nella spedizione per Troia.

Pregò la piccola carovana di fermarsi e s’incamminò verso la casa. Da solo, in silenzio. Agenore capì che voleva che nessuno lo seguisse e con un cenno trattenne gli altri.

Ci girò intorno, poi entrò. Sebbene sembrasse l’anticamera dell’Ade sentì la voce di sua madre, gli odori della cucina, il padre era nella sua stanza sommerso dai libri: Filippo oggi la lezione non l’hai fatta, ricordati che se non studi finirai per fare il pastore e noi il bestiame non l’abbiamo.

Una famiglia serena, un ragazzo felice.

L’immaginazione stava giocandogli un tiro crudele. Le voci che credeva di sentire non c’erano, la felicità di quei giorni lontani non era proseguita. Mai più avrebbe sentito il calore delle braccia di sua madre, mai più la voce burbera del padre cui doveva tutta la sua conoscenza.

In un attimo decise. Non li avrebbe cercati. E dove, poi? Chi avrebbe potuto dargli notizie? Meglio non sapere, meglio conservarli nella memoria, come in quei giorni che con la fantasia aveva rivissuto.

Lì nessuno avrebbe potuto far loro del male.

***

«Agenore, è tempo di tornare a casa», disse Zenone, tornando dai suoi compagni.

Avendo visto il suo turbamento, l’amico non gli chiese nulla.

***

Il viaggio di ritorno non fu facile. Prima tornarono ad Atene dove lasciarono Cilone.  Erano diventati amici e durante la navigazione li aveva allietati con i suoi canti. Agenore, abbracciandolo, gli diede delle monete: «Prendile, sei bravo e farai strada, ma i primi tempi saranno duri, poi, quando vorrai, vieni a Lesbo, lì troverai chi ti è amico».

Di nuovo incontrarono numerosi cantastorie. Ogni giorno che passava diventavano più bravi.

Lasciata Atene, i venti li portarono fuori rotta, verso sud. Agenore era un grande marinaio perché rispettava il mare. Portò la nave verso Creta, al sicuro.

Sull’isola erano rimasti i segni di un regno fiorente, scomparso da centinaia di anni, il nome del mitico Re Minosse era ancora sulla bocca dei cretesi, come la rottura provocata dall’ateniese Teseo, che uccise il Minotauro e tradì Arianna.

Al contrario di Micene, che pure Creta l’aveva conquistata nella notte dei tempi, l’isola era attiva, vivace, c’erano numerosi villaggi alcuni più simili a piccole città. La gente comminava numerosa per strada, con il sorriso sulle labbra. Forse per questo c’erano molti cantastorie che cantavano delle glorie passate dell’isola. Qualcuno narrava la guerra di Troia. Non sapevano molto e Zenone gli disse che aveva partecipato alla guerra per la conquista di Troia, sarebbe stato felice di dividere con loro le sue conoscenze, sentiva come fossero suoi allievi.

***

Quando il mare si placò ripresero il viaggio.

Un mese dopo furono in vista di Lesbo.

Nel porto trovarono Dafne e Kalliope, che avevano riconosciuto le vele della nave di Agenore.

Zenone scese e le abbraccio. Solo allora si accorse che Kalliope teneva per mano un bambino piccolo che camminava appena. «Non vi lascerò più nemmeno per un momento»”, disse, tenendoli abbracciati.

[1] Paideia significa educazione ed è il titolo di un’opera straordinaria d Werner Jaeger, tra i più grandi grecisti di sempre.  Il suo affresco della civiltà greca, dove s’intrecciano storia, poesia, arte, personaggi immortali, è tutto volto a dimostrare che la grandezza dell’uomo greco dipende da un’educazione che inizia dalla nascita e finisce solo con la morte.

[2] Il dramma venne più volte messo in scena dai gradi autori tragici del V secolo a.C. che riportavano la verità occulta della strage. Non fu una storia d’amore o di gelosia, ma una terribile vendetta. Clitennestra doveva far pagare al marito la morte dell’amatissima figlia Ifigenia, sacrificata da Agamennone per propiziare il levarsi di venti propizi per consentire la partenza per Troia della flotta bloccata nel porto di Aulide.

EZIO CALDERAI                                                                     (CONTINUA)

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