IL GIARDINO DEGLI ARANCI – Un romanzo, a suo modo, singolare e inatteso.
di ADELE ZIRULIA ♦
“Il giardino degli aranci”, opera prima di Massimo Cozzi, edito, nella collana Edificare Universi, per i tipi di Europa Edizioni, Milano, 2022, è un testo che in me ha confermato il piacere autentico, assoluto per la lettura.
Si tratta di un romanzo, a suo modo, singolare e inatteso.
Fondamentalmente per due motivi.
Primo motivo: grazie ad una presa fluida e convincente ci comunica con estrema chiarezza, in una sequenza temporale lineare, il messaggio da trasmettere.
Gli eventi sono costantemente punteggiati da riflessioni, alleggerite da poetiche descrizioni paesaggistiche, che si alternano alla narrazione oggettiva, e da suggestive descrizioni della natura con immagini, suoni e colori che variano con l’alternarsi delle stagioni e degli stati d’animo del protagonista.
Non a caso lo stesso titolo del romanzo fa pensare ad un “locus amoenus”, è un’allusione all’albero della vita e ai suoi frutti, inserita in un episodio particolare del rapporto padre-figlio, cardine affettivo della narrazione.
È il figlio a far conoscere ad Armando un angolo verde, nascosto nel cuore di Roma. Come dire che ciò che è bello e prezioso spesso è segreto, va cercato e svelato.
Ma questo momento di comunicazione e d’intesa non basterà a soddisfare l’amore paterno e a colmare il vuoto d’amore sofferto dal protagonista.
Secondo motivo (last but not least): è il più importante. Non siamo di fronte ad una pura invenzione letteraria. Lo stesso autore, in una sua nota, dichiara che i fatti sono realmente accaduti. E non esitiamo a crederlo.
C’è un leitmotiv che pervade la scrittura. Qualcosa che di solito si tace: il disagio di vivere. In questo caso tanto più vero, in quanto si tratta di rapporti familiari, che ognuno di noi può condividere. Lo stile limpido e incisivo non si avvale di artifici retorici ma è un richiamo costante al quotidiano e a problematiche familiari comunemente vissute.
Agitazione, sconforto, ansia, dolore sono stati d’animo che esitiamo a riconoscere. Preferiamo eluderli, soffermarci sugli aspetti gratificanti della nostra vita. Siamo portati a cancellare la sofferenza, ad esaltare i successi e ad ignorare le sconfitte: una strategia che ci sembra la migliore per “esistere ed esserci”. Per questo motivo è una piacevole sorpresa la confessione diretta, semplice del sentire comune.
Quali “Le parole per dirlo”?, se vogliamo parafrasare il titolo di un romanzo francese di Marie Cardinal. Quale la scelta degli elementi linguistici e del complessivo, generale, canone estetico che concorre a creare la tipologia dei personaggi e l’atmosfera in cui si muovono, specchio del mondo interiore di chi scrive? Secondo l’autore ̶ io credo ̶ per scrivere non è inevitabile ignorare i cuori semplici, non è necessario dar vita a caratteri complessi, ambivalenti, indefinibili né costruire trame cariche di “ suspense”, colpi di scena, sfumature “noir”, attesa e paura.
Oggi si dice ancora “romanzo” ma il termine copre un notevole ventaglio di generi narrativi diversi. In questo testo, però, in cui non si indulge alle contaminazioni e all’ibrido, l’apparizione di una “misteriosa” signora, sentita da Armando come visione presaga della morte, suscita un dubbio sulla cosiddetta “normalità” del quotidiano.
La vita di ogni giorno non risparmia al protagonista grandi interrogativi esistenziali: il significato del vivere e del morire.
“La cognizione del dolore” induce Armando a chiedersi il vero senso della vita e ad accettare l’ineludibilità della morte, fino a superarla con un proposito estremo e coraggioso che segna il riscatto dalla sua sofferta e, apparentemente, definitiva condizione di vinto. Il varco verso la salvezza è nella capacità di fugare la solitudine con una soluzione drastica: dedicarsi ad aiutare chi soffre, con vera compassione.
La lettura di alcuni passi del testo può aiutare a comprendere la qualità narrativa e il messaggio del romanzo:
pag. 21 “ Armando trascorse insonne la notte seguente alla sera in cui il figlio se n’era tornato a Roma. […] Improvvisamente, vacillò in lui la convinzione che fosse stata importante la qualità del rapporto, non la quantità del tempo trascorso con il figlio, si sgretolò l’alibi che si era costruito pe giustificare la propria assenza.”;
pag. 37 “La giornata era soleggiata. […] Si poteva vedere, in lontananza, un mare increspato, di colore azzurro cobalto, inargentato, a tratti, dalla luce dei raggi del sole.”;
pag. 38 “Si rendeva conto della propria impotenza, ma era pure consapevole che poteva essere vicino all’amico, essergli d’aiuto, dargli conforto. […] Comprese che non era accettabile lasciarsi vivere, standosene rinchiusi nella propria solitudine, che la vita ha valore se è vissuta, pienamente, in comunione con gli altri. […] Capì che non doveva […] vivere in attesa della morte, ma perseguire la pienezza della propria vita, attraverso le proprie scelte e le proprie azioni.”;
pagg. 41-42 “Al crepuscolo, i colori si dissolvevano, stemperandosi nel mare e insieme scemavano, lentamente, il dolore e l’angoscia […]. Il tramonto cedeva il passo alle ombre della sera. […] Prima di allora, […] non aveva avuto dubbi […], per lui la nascita rappresentava l’inizio della vita, la morte la fine. […] Ora, invece, si domandava in quale dimensione ci si trova prima di nascere e in quale altra si va dopo la morte, cominciava a chiedersi che senso avesse la vita se, dopo, c’era il nulla. Avvertiva che non c’era limite al trascorrere ciclico e illimitato del tempo che scandisce, regola e determina l’esistenza di tutti gli esseri mortali, sottraendoli all’azione lineare del tempo, coinvolgendoli, invece, in quella ciclica dell’eterno ritorno.”;
pagg. 49-50 “La pioggia era cessata, un cielo plumbeo e ovattato si lasciava trafiggere da qualche isolato raggio di sole.
Armando decise di uscire. […] Le onde, sotto riva, si frangevano sugli scogli posti a protezione dell’arenile. A ridosso della risacca, la corrente risucchiava, nei gorghi del mare mosso, la spuma bianca che si formava in superficie. […] Armando, di tanto in tanto, fissava l’orizzonte, come se volesse trovare, in quel limite apparente, la risposta alla sua sconfinata inquietudine. […] Decise di rincasare […] e si sedette sul divano per fare un bilancio della giornata: aveva trascorso quelle ore serenamente, […] era riuscito a scendere nel profondo della propria anima, a vedere dentro se stesso. […], se ne stette, invece, seduto ad ascoltare la voce del silenzio che aveva eletto proprio compagno nella personale ricerca del significato della vita.”;
pagg. 123-124 “Era stanco e deluso dei suoi fallimenti. Doveva approfittarne per sparire come aveva fatto suo figlio: non avrebbe più dovuto spiegazioni che non sapeva né avrebbe mai voluto dare, ma soprattutto desiderava evitare l’invadenza e le pressioni familiari, divenute un’ossessione insopportabile, e, per un po’, starsene da solo.
Il mattino seguente, […]. Salì sul treno, […]. Arrivò in convento, sistemò le poche cose che aveva portato con sé in un piccolo stipo della cella messa a sua disposizione, si sdraiò sul letto, e, provando una sensazione di leggerezza infinita, si addormentò.
Riprese a lavorare nella mensa tutti i giorni, […]. La sua vita scorreva, tranquillamente, tra il lavoro, il silenzio del convento, l’incanto del giardino degli aranci. Non diede più alcuna notizia di sé. Trascorsero più di tre anni, durante i quali non si allontanò mai da quel luogo, facendo perdere ogni traccia di sé.”
Si tratta di un romanzo, a suo modo, singolare e inatteso.
Fondamentalmente per due motivi.
Primo motivo: grazie ad una presa fluida e convincente ci comunica con estrema chiarezza, in una sequenza temporale lineare, il messaggio da trasmettere.
Gli eventi sono costantemente punteggiati da riflessioni, alleggerite da poetiche descrizioni paesaggistiche, che si alternano alla narrazione oggettiva, e da suggestive descrizioni della natura con immagini, suoni e colori che variano con l’alternarsi delle stagioni e degli stati d’animo del protagonista.
Non a caso lo stesso titolo del romanzo fa pensare ad un “locus amoenus”, è un’allusione all’albero della vita e ai suoi frutti, inserita in un episodio particolare del rapporto padre-figlio, cardine affettivo della narrazione.
È il figlio a far conoscere ad Armando un angolo verde, nascosto nel cuore di Roma. Come dire che ciò che è bello e prezioso spesso è segreto, va cercato e svelato.
Ma questo momento di comunicazione e d’intesa non basterà a soddisfare l’amore paterno e a colmare il vuoto d’amore sofferto dal protagonista.
Secondo motivo (last but not least): è il più importante. Non siamo di fronte ad una pura invenzione letteraria. Lo stesso autore, in una sua nota, dichiara che i fatti sono realmente accaduti. E non esitiamo a crederlo.
C’è un leitmotiv che pervade la scrittura. Qualcosa che di solito si tace: il disagio di vivere. In questo caso tanto più vero, in quanto si tratta di rapporti familiari, che ognuno di noi può condividere. Lo stile limpido e incisivo non si avvale di artifici retorici ma è un richiamo costante al quotidiano e a problematiche familiari comunemente vissute.
Agitazione, sconforto, ansia, dolore sono stati d’animo che esitiamo a riconoscere. Preferiamo eluderli, soffermarci sugli aspetti gratificanti della nostra vita. Siamo portati a cancellare la sofferenza, ad esaltare i successi e ad ignorare le sconfitte: una strategia che ci sembra la migliore per “esistere ed esserci”. Per questo motivo è una piacevole sorpresa la confessione diretta, semplice del sentire comune.
Quali “Le parole per dirlo”?, se vogliamo parafrasare il titolo di un romanzo francese di Marie Cardinal. Quale la scelta degli elementi linguistici e del complessivo, generale, canone estetico che concorre a creare la tipologia dei personaggi e l’atmosfera in cui si muovono, specchio del mondo interiore di chi scrive? Secondo l’autore ̶ io credo ̶ per scrivere non è inevitabile ignorare i cuori semplici, non è necessario dar vita a caratteri complessi, ambivalenti, indefinibili né costruire trame cariche di “ suspense”, colpi di scena, sfumature “noir”, attesa e paura.
Oggi si dice ancora “romanzo” ma il termine copre un notevole ventaglio di generi narrativi diversi. In questo testo, però, in cui non si indulge alle contaminazioni e all’ibrido, l’apparizione di una “misteriosa” signora, sentita da Armando come visione presaga della morte, suscita un dubbio sulla cosiddetta “normalità” del quotidiano.
La vita di ogni giorno non risparmia al protagonista grandi interrogativi esistenziali: il significato del vivere e del morire.
“La cognizione del dolore” induce Armando a chiedersi il vero senso della vita e ad accettare l’ineludibilità della morte, fino a superarla con un proposito estremo e coraggioso che segna il riscatto dalla sua sofferta e, apparentemente, definitiva condizione di vinto. Il varco verso la salvezza è nella capacità di fugare la solitudine con una soluzione drastica: dedicarsi ad aiutare chi soffre, con vera compassione.
La lettura di alcuni passi del testo può aiutare a comprendere la qualità narrativa e il messaggio del romanzo:
pag. 21 “ Armando trascorse insonne la notte seguente alla sera in cui il figlio se n’era tornato a Roma. […] Improvvisamente, vacillò in lui la convinzione che fosse stata importante la qualità del rapporto, non la quantità del tempo trascorso con il figlio, si sgretolò l’alibi che si era costruito pe giustificare la propria assenza.”;
pag. 37 “La giornata era soleggiata. […] Si poteva vedere, in lontananza, un mare increspato, di colore azzurro cobalto, inargentato, a tratti, dalla luce dei raggi del sole.”;
pag. 38 “Si rendeva conto della propria impotenza, ma era pure consapevole che poteva essere vicino all’amico, essergli d’aiuto, dargli conforto. […] Comprese che non era accettabile lasciarsi vivere, standosene rinchiusi nella propria solitudine, che la vita ha valore se è vissuta, pienamente, in comunione con gli altri. […] Capì che non doveva […] vivere in attesa della morte, ma perseguire la pienezza della propria vita, attraverso le proprie scelte e le proprie azioni.”;
pagg. 41-42 “Al crepuscolo, i colori si dissolvevano, stemperandosi nel mare e insieme scemavano, lentamente, il dolore e l’angoscia […]. Il tramonto cedeva il passo alle ombre della sera. […] Prima di allora, […] non aveva avuto dubbi […], per lui la nascita rappresentava l’inizio della vita, la morte la fine. […] Ora, invece, si domandava in quale dimensione ci si trova prima di nascere e in quale altra si va dopo la morte, cominciava a chiedersi che senso avesse la vita se, dopo, c’era il nulla. Avvertiva che non c’era limite al trascorrere ciclico e illimitato del tempo che scandisce, regola e determina l’esistenza di tutti gli esseri mortali, sottraendoli all’azione lineare del tempo, coinvolgendoli, invece, in quella ciclica dell’eterno ritorno.”;
pagg. 49-50 “La pioggia era cessata, un cielo plumbeo e ovattato si lasciava trafiggere da qualche isolato raggio di sole.
Armando decise di uscire. […] Le onde, sotto riva, si frangevano sugli scogli posti a protezione dell’arenile. A ridosso della risacca, la corrente risucchiava, nei gorghi del mare mosso, la spuma bianca che si formava in superficie. […] Armando, di tanto in tanto, fissava l’orizzonte, come se volesse trovare, in quel limite apparente, la risposta alla sua sconfinata inquietudine. […] Decise di rincasare […] e si sedette sul divano per fare un bilancio della giornata: aveva trascorso quelle ore serenamente, […] era riuscito a scendere nel profondo della propria anima, a vedere dentro se stesso. […], se ne stette, invece, seduto ad ascoltare la voce del silenzio che aveva eletto proprio compagno nella personale ricerca del significato della vita.”;
pagg. 123-124 “Era stanco e deluso dei suoi fallimenti. Doveva approfittarne per sparire come aveva fatto suo figlio: non avrebbe più dovuto spiegazioni che non sapeva né avrebbe mai voluto dare, ma soprattutto desiderava evitare l’invadenza e le pressioni familiari, divenute un’ossessione insopportabile, e, per un po’, starsene da solo.
Il mattino seguente, […]. Salì sul treno, […]. Arrivò in convento, sistemò le poche cose che aveva portato con sé in un piccolo stipo della cella messa a sua disposizione, si sdraiò sul letto, e, provando una sensazione di leggerezza infinita, si addormentò.
Riprese a lavorare nella mensa tutti i giorni, […]. La sua vita scorreva, tranquillamente, tra il lavoro, il silenzio del convento, l’incanto del giardino degli aranci. Non diede più alcuna notizia di sé. Trascorsero più di tre anni, durante i quali non si allontanò mai da quel luogo, facendo perdere ogni traccia di sé.”
ADELE ZIRULIA
Una presentazione del Giardino degli aranci particolare e suggestiva.
Un caro saluto a Adele e Massimo🍀💚
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