Stanze  tutte per noi

di LUCIA SCAGGIANTE ♦

 

a Giuliana, Maria Elena, Sara,

sui gradini di piazza Trilussa

 

   Come un padrone di casa ospitale e signorilmente discreto, Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano, lo dice affacciandosi all’ultima pagina del bellissimo catalogo: “Quale posto migliore di Palazzo Altemps, a Roma, poteva accogliere Virginia Woolf”: dove, oltre a Caterina Sforza che vi giunse sposa, ebbero dimora altre donne di personalità forte, lasciando il segno di libere scelte di vita; un luogo antico abitato da opere ancora più antiche, in cui è possibile vedere il frutto della creatività contemporanea esercitata da altri secoli. Una casa e allo stesso tempo uno spazio di ricerca, perfetto davvero.

   La mostra, in corso fino al 12 febbraio, si intitola Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing life. È curata da Nadia Fusini, la più profonda conoscitrice e interprete italiana della grande scrittrice, e da Luca Scarlini, un intellettuale che nella poliedricità dei suoi interessi sembra incarnare lo spirito irrequieto del circolo di amici che le facevano corona. Sono narratori affascinanti. Nelle cinque sezioni in cui la mostra si sviluppa, raccontano con i quadri, le fotografie, gli oggetti, gli accostamenti; molto anche con le parole, quelle delle loro ricostruzioni e quelle dei suoi libri. Sono dunque le pagine di La stanza di Jacob, La signora Dalloway, Al faro, Le Onde, Tra un atto e l’altro a proiettarci immediatamente nella dimensione della stanza, percepita sempre come una dimensione esistenziale: stanze che diventano il cuore del mondo, o sono vuote come conchiglie, ascetiche come celle monacali, oppure – alla luce delle candele – ricompongono i legami e danno forma alla stabilità mentre intorno tutto vacilla; o ancora, stanze “rannuvolate da passioni, furie e dolori” propri, come fossero creature umane. La stanza è una cellula pulsante di autocoscienza, un grembo che accoglie e protegge, anzi, che genera. Da questa personalissima visione archetipica, unita a un pragmatismo tutto inglese e a una sintonia con la concretezza del pensiero di Marx, Virginia Woolf maturò l’intuizione che “una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé, se vuole scrivere”, se vuole sfuggire all’identità che le imporrebbero le convenzioni sociali. La libertà, insomma, passa anche attraverso l’autonomia offerta dal lavoro.

   Quanto sia forte il potenziale creativo femminile ce lo testimonia la seconda sezione, che Nadia Fusini ha voluto intitolare Society is the happiness of life, “stare insieme è la felicità”.  È un verso della commedia shakespeariana Pene d’amor perdute, dove alcuni giovani uomini stabiliscono di votarsi alla conoscenza vivendo in monastica austerità. E invece un gruppetto di giovani donne manderà a monte il loro proposito e li aprirà a una conoscenza del mondo più piena e armoniosa, resa possibile solo dal riconoscimento reciproco. (Sarà un caso che anche nel Decameron venga dalle ragazze la proposta di allontanarsi dalla città in preda alla peste e alla morte e di dettare le regole di una vita diversa?) Così successe a Bloomsbury.

   Intorno, il mondo ancora vittoriano con le sue leggi soffocanti, i santuari maschili dell’intelletto, il matrimonio concepito secondo rigidi schemi come unica destinazione contemplata per una signorina di buona famiglia – e lì, in quel quartiere poco raccomandabile ma vicino alla British Library e al British Museum, una casa di orfani, dove furono le sorelle Stephen, Vanessa che cominciava a dipingere e Virginia che esordiva nella scrittura, a inventarsi la vita. Se è vero che Picasso a dodici anni sapeva disegnare come Raffaello, ma in breve scardinò tutti i canoni della rappresentazione, queste due ragazze, addestrate a condurre impeccabilmente una casa, per fame di libertà e di bellezza crearono un piccolo e intrepido universo senza gerarchie, aperto a tutte le esplorazioni del pensiero, a tutte le declinazioni dell’amore, all’ironia e al gioco, all’autenticità. E pronto a sfidare lo scandalo.

    È nota e cara a molti (a molte, soprattutto, viene spontaneo dire) la vicenda delle riunioni del giovedì sera alle quali, scesi alla vicina stazione di King’s Cross dove fermavano i treni da Cambridge, prendevano parte insieme a loro gli amici dei loro fratelli Thoby e Adrian: Lytton Strachey, Saxon Sydney-Turner, Leonard Woolf, Maynard Keynes, Clive Bell, Roger Fry e altri ancora, quelli che con un gioco di parole arguto e leggiadro sarebbero diventati i Bloomsberries, le bacche in fiore di Bloomsbury. Qui nella mostra prendono corpo attraverso le immagini fotografiche o dipinte in cui reciprocamente si ritrassero, modelli e autori dallo sguardo affettuoso e scanzonato, in pose disinvolte o pensose che così bene riflettono la diversità dei loro caratteri. Questo essere di volta in volta soggetto e oggetto della rappresentazione è solo uno dei tanti modi in cui la creatività ebbe a propagarsi come una corrente di energia vitale, che si trasmise perfino alle loro case, ariose e colorate, spartane, ma splendenti di fantasia.

 

   Attraverso la reciprocità dell’ispirazione e il confronto, il gruppo diede alla storia della cultura e dell’arte contributi altissimi, di forti implicazioni politiche e diramati in molteplici campi del sapere: l’approccio psicologico e dissacrante di Lytton Strachey agli studi biografici, le analisi eretiche di Keynes sull’arroganza dei vincitori e sul liberismo, l’impegno inesausto di Roger Fry per insegnare al pubblico a vedere veramente un quadro, “il modo migliore per frenare il nazismo”, come scrisse Virginia Woolf.

   E poi, la voglia di “fare”, concretamente. Rubano gli occhi i volumetti deliziosi della Hogarth Press, copertine disegnate con levità dalla pittrice Carrington e da Vanessa, testi di Virginia, di Leonard Woolf, Vita Sackville- West, Isherwood e Forster, finanche di un pioniere della narrativa anglo-indiana quale fu Mulk Raj Anand. La casa editrice, inizialmente minuscola,  nacque dall’incrocio di due intenzioni, il sogno dei coniugi Woolf di pubblicare libri speciali,  difficilmente collocabili sul mercato, e la sollecitudine di Leonard, preoccupato dallo sfinimento psicologico che l’ossessione della scrittura e del giudizio altrui causava a Virginia, riducendola ogni volta sull’orlo della follia: con l’acquisto di una pressa a caratteri mobili, che loro stessi impareranno a utilizzare, volle offrirle l’alternativa di un mestiere più pratico e sereno, perché il suo rapporto con la letteratura conoscesse un respiro diverso. La Hogarth ebbe una politica editoriale molto chiara, libri importanti a prezzi accessibili, anche attraverso la collaborazione di amici artisti e scrittori; superò comunque la scommessa del mercato, ed ebbe il merito di aprirsi a tematiche come la psicanalisi pubblicando fra l’altro l’opera completa di Freud in inglese.

    “Rule, Britannia! rule the waves”: eppure Londra non conosceva Parigi, e fu un putiferio quando nell’inverno fra il 1910 e l’11 Roger Fry, pittore e critico, uomo dai modi miti, ma nell’anima “il capo dei ribelli”, per come lo conosceva Virginia,  in una mostra alle Grafton Galleries intitolata ai Post-Impressionisti  presentò Cezanne, Gauguin, Rouault, Derain, Matisse e addirittura Picasso, quadri “vigorosi, luminosi, quasi sfrontati” (è sempre Virginia), che dimostravano come il Rinascimento e l’Europa non erano più al centro del mondo. Allora “la natura umana cambiò”, in pittura come in letteratura: sembrava la prova che neri, donne e moderni avevano pieno diritto di cittadinanza nell’arte e nella storia. In forme altrettanto nuove e libere, di nervosa intensità, Fry, Vanessa Bell, Duncan Grant e altri compagni di strada ci consegnano i ritratti di personaggi straordinari ma non sempre noti al vasto pubblico, i cui sguardi magnetici sono un invito a indagarne l’esistenza: allora si scopre Edward Carpenter, che ispirò a Forster la figura di Maurice, o George Mallory, disperso in una tragica spedizione sull’Everest, dove il suo corpo fu ritrovato solo nel 1999.

   Che l’arte potesse fondersi con la vita si era già detto da tempo. A Bloomsbury accadde in un modo inedito, che non ebbe nulla di decadente, ma partiva dalla ricerca liberatoria di forme nuove. Forme di rapporti fra parole e cose, emozioni e colori, esperienze e suoni – forme di rapporti fra esseri viventi. Per Fry, l’arte si congiunse alla vita anche nella creazione degli Omega Workshops, la bottega dove si disegnavano e producevano oggetti d’uso quotidiano che fossero allegri, estrosi, imprevedibili, che si avesse voglia di toccare (si avrebbe davvero la tentazione di portarseli via), che fossero al servizio del talento del vivere. Fra gli altri lavoravano con lui artisti del grado di Vanessa Bell e Duncan Grant, tuttavia il suo desiderio, non per nostalgie medievaleggianti, ma per una coscienza generosa e profetica del valore collettivo dell’opera che a tutt’oggi si stenta a capire, era che i pezzi restassero anonimi.

 

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   Sì, a Virginia Palazzo Altemps sarebbe piaciuto molto. Accanto ai ritratti novecenteschi delle eroine di questa avventura, spicca un’antica Artemide acefala, forse loro compagna, forse nume tutelare: le pieghe della sua veste, ritmo di grazia squisita, sembrano lì a ricordarci come per Virginia scrivere fosse innanzitutto questione di ritmo. E si sarebbe incantata di fronte a una testa di Ares, che ha qualcosa dell’Atena Parthenos di Fidia ma non i suoi lunghi capelli, e una bocca sensuale: un Orlando che ha varcato i secoli col suo mistero. Lei, giardiniera provetta, ci avrebbe trovato anche il giardino, rappreso nelle volte dipinte della loggia – e avrebbe sorriso alla piattaia affrescata sulla parete di un grande salone, richiamo, pur nello sfarzo rinascimentale, a una domestica quotidianità.

LUCIA SCAGGIANTE

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