LA COSCIENZA DI MECO
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
Avanti giorno il re della macchia sortì fuori dal forteto d’erica e dopo aver percorso uno smunto ginestraio si trovò in campo aperto alla sgualdrina di un vento triste in una mattina pallida di ottobre,
Veniva giù dai fianchi della Roccaccia di Montauto alla piana di Pian di Maggio che da tempo era stata guadagnata al colto strappando macchioni di marruche, abbattendo le resistenti sughere, atterrando le possenti elci, dicioccando a braccia con la forza degli aquilani.
Là, sulla sua destra, un nugolo di monelli a schiena curva dava di zappone alle zolle per far terra nera. Avevano cura, quei miseri, di non arrecare il danno agli esili file d’erba che da giorni s’erano aperti il varco alla vita. Le male erbe che attorniavano i timidi germogli erano fatte segno delle accorte zappate di quei giovincelli, femmine e maschi, di quegli uomini, adulti e stanchi, venuti di lontano dalle terre d’Abruzzo alle maremme a faticar nelle grigi maggesi da poco fecondate a grani e biade
Alla comparsa del brigante tutti s’erano destati drizzando la schiena per fissar quel torbido, col suo rozzo e lacero pastrano di fustagno e quel cappellaccio intignato e sudicio, che, uscito di forra come un cignale braccato, s’avanzava deciso verso il fattoretto del marchese Guglielmi. L’ansimare dopo la rapida discesa aveva ancor più fatto avvampare nel suo cuore una rabbia feroce.
“Sangue della Madonna arrivò il momento che hai da pagà la carognata, brutto aguzzino…. All’inferno! ”.
Rapido lo schioppo fece uscire il colpo di canna e l’uomo stramazzò in terra.
Il monelli atterriti trascolorarono. Mecuccio li fissò con l’occhio in fiamma come per dire il silenzio è la vostra vita. Con passo ancora veloce ma manifestando un’andatura un po’ malconcia, per via delle sue gambe già da tempo a roncolo, sparì in quel folto da dove lesto ne era sortito poco prima.
Il caporale pensò presto a rimetter la situazione in norma: s’aveva da proseguire la sterpatura ed era meglio dimenticare l’accaduto. Altri dovevano sobbarcarsi il compito d’avvertire la Forza.
Coll’animo inquieto di tutti, coll’affanno che riempiva il petto alle donne, colle sagge raccomandazioni alla quiete da parte dei più anziani la compagnia riprese con mestizia la zapponatura.
Dodici baiocchi valeva la fatica d’una giornata di zappa. Molto meno del compenso degli aquilani avvezzi, oltreché a divellere radici, a far razzette per condur via le acque piovane dai campi seminati. Ed ancora molto, molto meno dei cottimi che riuscivano a far propri i bifolchi dirigendo a verso, modo e tempo i loro buoi aratori. E cinque di quei dodici baiocchi servivano per le pagnotte. E se si voleva l’osso di pecora con qualche brandello di carne attaccato, ” pe’ fà l’acquacotta” un po’ più degna ,si doveva entrare in società con qualche compagno oppure era meglio arrangiarsi colle male erbe del campo capando le giuste e le meno amare.
La spesa si faceva ogni giorno a conto. A fine stagione la resa finale. Tanto si doveva al monello, tanto s’aveva da defalcare per gli acquisti fatti. Le tacche sul bastone di legno contavano da registro ed era spesso un colpo al cuore: si tornava a casa senza un baiocco. Ed allora era solo la “caparra” lasciata alla famiglia al momento dell’accaparramento ad essere il guadagno dell’ intera annata.
Il re della macchia non capiva, non si dava pace. Perché quei tristi continuavano ad esser abbrutiti dalla fatica. Perché star lì a testa bassa, da buio a buio, dolenti nelle reni ed infine a rischiar vita quando con l’ estate calava inesorabile l’aria maligna che, con la perniciosa di terzana o di quartana, ti divorava l’esistenza che rapida poneva il suo termine nel gran sudario di San Sisto, vera anticamera di una lugubre fossa comune.
Mecuccio era uomo libero.
Certo, un uomo sempre solo ed attanagliato ma vigile e scaltro come lo è l’animale nel bosco, acquattato quando scorge l’esca nella trappola, sospettoso verso l’inganno umano, simile alla canea quando fiuta la passata selvatica. Ma libero nel suo regno. Quel regno che dai poggi di Manciano sale su su per le rampe di Montauto per poi discendere dove la valle si slarga sino ai Corridori, antico confine con Montalto. Libero nel suo regno, quando è cautela dileguarsi andando da Ponte San Pietro verso l’orrido, il Lamone impenetrabile ed aspro. Libero quando la forra si denuda di ciò che è caduco . Libero quando la forra si riveste dei mille colori, della fiamma dell’acero, dell’oro dell’ornello, del giallo degli scopeti.
E l’uomo accoppato?
Quali rigurgiti nel fondo dell’animo dell’uomo che si sentiva il re della macchia?
“ Non l’ho fatto morto io ma è la giustizia che ha mosso il passo. E’ la giustizia che ha lasciato che il colpo partisse. E’ la giustizia, quella giusta, non quella dei birri e dei loro mandanti. Certo a lui glielo fatto il male ma.. quella fine la volle…eccome se la volle”..
Ed il marchese?
“Beh! Se ne farà un altro di fattoretto. Con lui s’è giunti sempre all’intesa.
“E poi , perché dolermi” – almanacchiava Meco di fronte al fuoco notturno nella caverna del Paternale- “ Io metto sempre là dove c’è il poco, levo sempre dove c’è il troppo. Il marchese lo sa che il servizio che gli rendo per tener tranquilli gli animi di tutti, alla fine conviene a me, ma di molto anche a lui”.
. . .
Un’altra storia di maremma.
A Domenico Tiburzi, di tuscia natio, tosco di morte. Il fattoretto (nel senso di sottofattore) si chiamava Angelo De Bono morto il 23 ottobre 1867, reo di aver multato il Tiburzi per aver “rubato” un fascio d’erba a Campo Scala, una delle terre del Marchese.
Ma soprattutto alla memoria degli oltre tremila monelli giacenti nella fossa comune di San Sisto e dei tanti di essi sepolti lungo i fossi dei paduli, a lato delle carrarecce, lasciati sovente insepolti nelle innumerevoli guinze dei Campi Camerali di Montalto tra il Settecento e l’Ottocento. La maggioranza di essi proveniva dalla Conca Peligna (e da L’Aquila). Il lavoro, dall’alba al tramonto, era organizzato in compagnie di una ventina di lavoratori diretta da un caporale.
Il progresso, il DDT americano, il chinino di Stato, la Riforma Agraria, le azioni sindacali hanno avvolto nell’oblio la maremma amara d’un tempo. Sembra impossibile che quello fosse luogo di infernale vita. Laddove un tempo c’era tristezza e morte ed angoscia ora regna sovrana ed indifferente la rendita fondiaria.
Monello non ha il significato usuale, deriva da mundare ovvero estirpare erbacce. Terra nera è l’operazione di diserbo con zappa autunnale.
Il marchese è Giacinto Guglielmi di Civitavecchia (1813-1911). Per questo omicidio, il primo, il Tribunale di Civitavecchia condannò Domenico Tiburzi a 18 anni da scontare nelle Saline di Tarquinia( da dove poi evase).
Continua…..
CARLO ALBERTO FALZETTI
Carlo, la tua narrazione farebbe andare in tilt gli attuali algoritmi, quante parole di piante antiche, di Persone, di terre d’Abruzzo, di terra nera, di grigi maggesi ,fecondate a grani e biade, quante bestemmie- Sangue della Madonna-che non sono bestemmie, ma la voce arcaica della maremma amara. Il tuo scritto non è verismo, ma assume un potere illusionistico, fatto di caverne, anfratti e forre, che ci riportano alle nostre più ancestrali radici.
Nella ricercata disposizione del tuo racconto noi siamo guidati per mano dalla esemplarità strategica delle figure, dei monelli, del fattoretto, del Marchese, del Tiburzi. Questo alto tasso di figuralità rende il tuo scritto una vera poesia e un trattato di etica per i poveri, affossati nei fossi lungo i cigli delle strade, nelle fosse dei cimiteri di campagna, che ancora oggi noi tentiamo di ritrovare.
La tue terra ti è grata, perché questo è anche un tuo racconto autobiografico,
un etnografo si impadronisce a tal punto della ” materia” che tratta, fino ad arrivare egli stesso ad essere un brigante o una resistente sughera.
E qui mi fermo, con il tuo iniziale indizio: la coscienza di Meco é la
” Coscienza di Mecum”.
Paola.
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bello, la nostra storia dimenticata
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Bellissimo ricordo che è un tributo storico alla tua terra di cui offre uno spaccato tanto verista quanto favolistico, come in fondo ogni narrazione verista. Monelli volteggiano tra quelle terre, folletti di una storia dura e incantata i cui bordi non sono confini perché si spingono oltre nel tuo e nel nostro immaginario, si intrecciano ad altri bordi, ad altre presenze simboliche che parlano fuori e dentro di noi. Bravo come sempre Carlo!! Grazie. Ti abbraccio
Cate
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