“OLTRE LA LINEA” A CURA DI SIMONETTA BISI E NICOLA R. PORRO. UNA PIZZA FRA AMICI E UNO SGUARDO DI INIZIO D’ANNO SUL MONDO CHE VERRA’

di SIMONETTA BISI e NICOLA R. PORRO

A sorpresa, in questi giorni di festa, viene a trovarci Anna, una vecchia amica. Insegnava economia politica, adesso è anche lei un’arzilla pensionata. La accompagna il marito Pierfelice, che lavora per una rivista di geopolitica. Si fa tardi, combiniamo di ordinare una pizza da mangiare in compagnia. Esauriti convenevoli e aggiornamenti delle rispettive biografie, mentre addentiamo la nostra margherita l’attenzione di tutti è calamitata dai titoli del tg della sera. La drammaticità di quanto avviene nel mondo smorza presto l’atmosfera vagamente goliardica della rimpatriata. La conversazione vira rapidamente sul serioso. E d’altronde che puoi aspettarti se metti attorno a un tavolo, in una serata d’inverno, un’economista, un geopolitico e due sociologi non rassegnati al ruolo di vivandieri? Consumata la pizza e spenta la tv, proviamo a scambiarci le idee su cosa aspettarci dal neonato 2023. Ne avremo fin quasi a mezzanotte. Quella che segue è la sintesi della nostra conversazione: lo sguardo (preoccupato) di un piccolo gruppo di amici sul mondo che verrà.

Bucharest, Romania – October 1, 2022: Details of people protesting against the death of the Iranian Masha Amini and for women’s fundamental rights in Iran, outside the Iranian embassy in Bucharest.

Un primo pensiero va all’Iran, a quella autentica rivoluzione di cui sono protagoniste le donne, i ceti più dinamici, i giovani e le avanguardie intellettuali. Quella che si combatte è una rivoluzione per la modernità, condotta da forze sociali decise a tutto pur di liberarsi di un regime teocratico, incapace di riformarsi e di emanciparsi da un’ideologia primitiva. Un’isola di medioevo sopravvissuta alla globalizzazione ma in grado di inquinare valori universali come i fondamentali diritti di cittadinanza.  Per questo – concordiamo – il caso iraniano ci riguarda: deve mobilitare le coscienze e l’azione delle democrazie. Soprattutto non va derubricato a una vicenda circoscritta, una delle tante che affliggono il pianeta.

E poi la guerra. O meglio le guerre, comprese quelle dimenticate e cancellate persino dall’informazione (chi si ricorda più dello Yemen, per fare un esempio?). L’attenzione si concentra sulla guerra che si combatte in Ucraina, alle frontiere orientali dell’Unione: la prima di questo tipo combattuta da decenni in Europa. Al di là delle cause scatenanti e degli aspetti strettamente militari, concordiamo nel definirla una guerra di nuovo tipo, che sta già producendo effetti spaventosamente concreti anche per noi. I venti di guerra, ad esempio, hanno già spazzato via l’illusione della ripresa economica nei Paesi forti della Ue. Quella che si combatte in Ucraina, osserva il geopolitico, è forse la prima vera guerra di globalizzazione. Per rimanere all’economia: alla fine del 2021 – interviene Anna – mentre si andava affievolendo l’impatto dell’epidemia, ci si era un po’ cullati nell’illusione di una ripresa. In Italia si respirava un cauto ottimismo: il covid aveva abbassato la testa, la produzione industriale e l’occupazione erano in ripresa. È durata poco, però, annota la collega economista. I dati più aggiornati segnalano anche da noi un’ondata di ore lavorate perdute e la crescita del cosiddetto “part time di necessità”. Fenomeni che colpiscono le aree più fragili: l’apprendistato, l’occupazione femminile, i troppi giovani inoccupati o sotto-occupati.

I governi – soprattutto quelli di orientamento neoliberista – corrono ai ripari sacrificando la spesa sociale e in specie quella sanitaria, sottoposta ovunque in Europa a tagli draconiani. Cresce solo la spesa per gli armamenti, prevedibile corollario della guerra in Europa orientale. Intanto si affacciano nuove povertà, si producono forme inedite di esclusione sociale, aumentano le disuguaglianze.  L’Italia, pur capace di inattese performance economiche – a dispetto di tutte le previsioni, ricorda Anna, siamo quelli cresciuti di più in termini di pil nel corso del 2022 -, rimane un Paese strutturalmente fragile, afflitto da mali endemici che rendono il tessuto sociale permeabile a quanto di peggio prolifera nelle situazioni d’incertezza: le mafie, la corruzione, la criminalità organizzata.

Campagne decisive, come quelle a tutela degli ecosistemi, per la “giustizia ambientale”, per l’estensione dell’offerta culturale e la qualificazione delle politiche educative, rischiano di retrocedere, nell’immaginario pubblico e nell’agenda politica. Quella che economisti e geopolitici hanno battezzato “ecologia di guerra” soffoca in fasce la transizione verde. L’”ecologia digitale”, dal canto suo, sembra non trovare applicazioni diverse dalla militarizzazione dell’intelligenza artificiale anche qui imposta dalla guerra.

 

A noi gli amici chiedono di azzardare una lettura sociologica. Formula impropria: se la sociologia è davvero la crociana “inferma scienza”, che scientificità possono mai avere le nostre opinioni?  Però ci cimentiamo. Descriviamo la sensazione di essere coinvolti in una partita confusa, di cui ignoriamo le regole, stentando persino a identificarne i protagonisti reali. Conosciamo, invece, la posta in palio, quella che ha causato la guerra: il controllo dell’energia. Un bene primario ma multiforme, sempre più governato dalle logiche ferree di una geopolitica che ha perso quel paradossale fattore di regolazione costituito sino a qualche decennio or sono dalla Guerra Fredda. Il conflitto in corso risponde a una logica sotterranea ma inesorabile: dal suo esito dipenderanno le nuove gerarchie del potere globale. La guerra rivela insomma, brutalmente, la faccia nascosta della globalizzazione, ci costringe a interrogarci sulle contraddizioni e sui rischi degli scenari prossimi. Che sviluppi avrà, per dire, la rivoluzione digitale, icona del futuro che avanza? Disponiamo di microchip incredibilmente minuscoli, di batterie capaci di garantire, se lo volessimo, una mobilità ambientalmente sostenibile e di accumulare quasi all’infinito e a costi contenuti energia pulita, rinnovabile. Sono comparsi nuovi materiali, la robotica e l’intelligenza artificiale promettono inediti miracoli. Insomma: conviviamo con una versione benevola della fantascienza. Però il cuore pulsante dell’innovazione ha solo il battito dei mercati globali. Il tempo che si annuncia sarà quello che gli economisti hanno battezzato della “globalizzazione selettiva”: concentrata nelle aree forti dell’economia planetaria, sempre più segmentata e specializzata, sempre meno applicabile alle ragioni sociali e ai bisogni di chi non ne controlla qualche filiera strategica. Siamo in presenza di una versione “cattiva”, ma aggredibile e modificabile, della globalizzazione? Oppure la globalizzazione può essere solo questo: una versione cinicamente rovesciata del “migliore dei mondi possibili” immaginato da Leibniz più di trecento anni fa, agli albori della modernità?

Le sfide che Putin e gli ayatollah iraniani hanno lanciato alla civiltà di tutti – aggiungiamo – rappresentano in queste chiavi di lettura un banco di prova. Da una parte un tentativo disperato di fermare la Storia per riappropriarsi di un rango politico perduto (la Grande Madre Russia). Dall’altra quello di imporre una teocrazia del terrore a un Paese desideroso solo di secolarizzarsi e di accedere alla modernità appropriandosi delle libertà elementari. Il nostro amico geopolitico aggiunge che tuttavia anche le potenze maggiori, Usa e Cina, esorcizzano goffamente l’incapacità di esercitare una leadership condivisa. Chi ricorda più le speranze alimentate decenni fa dalla filosofia della Great Society americana o, specularmente, dal “Grande balzo in avanti” cinese? Anche i big player – gli attori globali superstiti – sono paralizzati dal timore di imbarcarsi in una competizione dagli esiti incerti e con alleati ondivaghi. Per la prima volta dalla Seconda Guerra mondiale mancano Paesi leader capaci di esercitare un’effettiva egemonia sulla loro sfera di influenza. C’è una potenza decaduta (la Russia), una emergente (la Cina) e un’altra tentata dall’isolazionismo (gli Usa): equilibri instabili, tentazioni di rivincita, nessuna governance efficace. E poi c’è la Ue: gigante economico ma nano politico, si scopre non impermeabile – lo stiamo vedendo – a infiltrazioni corruttive. L’area mediterranea e la stessa Italia – governata da forze eredi di una cultura anti-europeistica – hanno perso influenza. La Francia attraversa anch’essa una crisi non da poco: ha smantellato segmenti strategici della propria industria, conosce il declassamento di un’offerta educativa prestigiosa, sperimenta una brusca contrazione della forza lavoro, vede ridursi di giorno in giorno la propria influenza in sede comunitaria (lo stesso scontro con l’Italia sulla questione migranti ha messo in mostra la debolezza e la declinante autorevolezza di entrambi i governi).

La Germania, che ha fondato la propria egemonia industriale sulle produzioni energivore – quelle alimentate dal carbone e quelle altamente inquinanti (chimica e automotive) –, subisce la storica dipendenza dal gas russo e stenta a rinnovare le filiere produttive. Insidiata proprio dalla concorrenza italiana, non è più in grado di controllare e governare quelle “catene di subforniture” che interessano l’Est e la Cina: l’oggetto del desiderio della vecchia Ostpolitik. Il sistema Ue, insomma, è complessivamente più debole e potenzialmente minato dall’interno dai nuovi populismi e dall’avanzata elettorale delle destre nazionaliste. 
Eppure – concordiamo – di Europa avremmo davvero bisogno. C’è da governare la sfida lungimirante, ma quanto mai impegnativa, del Next Generation EU. C’è l’esigenza di apprestare una governance che traduca in risultati concreti il “Patto di stabilità e di crescita”. C’è l’urgenza di varare un regime fiscale comunitario capace di finanziare i beni pubblici europei e i settori di punta dell’economia della conoscenza: la ricerca biomedica, i Big Data, le tecnologie per la transizione ecologica e l’uso del nucleare a fini di pace.


L’Europa, con i suoi limiti e le sue miserie, rappresenta insomma, non retoricamente, la sola possibile risposta vincente al declino degli Stati Nazione. I risorgenti nazionalismi non possono che favorire gli interessi “predatori” e i poteri privati. Non servono perciò predicazioni moralistiche. Occorre piuttosto ribellarsi alle logiche dettate soltanto dagli interessi dei mercati e dalle imprese: gli “spiriti animali del capitalismo” evocati da Schumpeter nei primi decenni del Novecento.  E nemmeno possiamo rassegnarci al “realismo della forza” predicato da Carl Schmitt o attendere la kantiana pace perpetua illudendoci che l’Europa sia già una vera potenza normativa. In gioco, dunque, non è soltanto l’uso, potenzialmente devastante o comunque non rivolto a ragioni sociali, di tecnologie concepite per la guerra. Bisogna generare una forma di innovazione di prodotto e di processo tecnologico che privilegi il soddisfacimento di bisogni collettivi anziché piegarsi alle ragioni, pur legittime, del profitto. Grande confusione, spinte contrapposte: c’è bisogno di dare ordine e governabilità ai processi in corso.

L’Europa unita, con il suo patrimonio di cultura e di valori, rappresenta però ancora la sola potenza transnazionale virtualmente capace di una visione ad ampio raggio. Lo stesso pensiero dell’universalismo non è forse figlio dell’idea di Europa?  L’Europa immaginata dal Manifesto di Ventotene: capace di concepire sé stessa e la propria storia come l’esito, sempre provvisorio, di una “rivoluzione permanente”. Inevitabile epilogo a tinte filosofiche. Ricordiamo che un conservatore come Kant fu “adottato” dalla Rivoluzione francese senza che ad essa avesse offerto alcun esplicito contributo di idee. Ne aveva però presagito l’avvicinarsi, ne aveva intuito la necessità storica e la potenza simbolica che avrebbe potuto incarnare. Le aveva consegnato idealmente un vessillo di universalità, eguaglianza, inclusione ed emancipazione. Un pensatore contemporaneo come Jürgen Habermas ci ricorda, non per caso, che le tracce di quel cammino non spariscono mai del tutto, nemmeno nei tempi bui delle guerre, delle repressioni e delle rinascenti disuguaglianze. Riappaiono inattese, si riappropriano delle nostre storie individuali e collettive, nutrono nuove fantasie. Ci consegnano un futuro da costruire.

Dopo aver soprattutto ascoltato i nostri amici, con Habermas ci siamo presi l’ultima parola… adesso si è fatto tardi, è ora di sparecchiare e di augurarci buon anno (malgrado tutto). Però ci abbiamo preso gusto: ci lasciamo con la promessa di replicare presto.

SIMONETTA BISI – NICOLA R. PORRO

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