Ciao, prof!

di ANNA LUISA CONTU

Poco prima di Natale è morto il professore Alberto Asor Rosa. Una brutta notizia, tra le tante, che stanno caratterizzando questo nostro tormentato periodo. Alberto Asor Rosa non era solo un accademico, professore per decenni alla facoltà di Lettere alla Sapienza di Roma. Era anche un militante politico, che univa l’impegno di studioso alla partecipazione al dibattito sulle  questioni politiche e sociali del nostro paese. Soprattutto della sinistra. Iscritto al PCI ne uscì per protesta dopo i fatti d’Ungheria. Vi rientrò durante gli anni di Berlinguer. Poi il suo impegno, purtroppo inascoltato e perdente, è stato vicino alle organizzazioni e ai movimenti che hanno tentato, in tutti questi anni,  di rifondare la sinistra .  

Un uomo, un intellettuale, un compagno che avevo seguito in qualche assemblea  e attraverso  “ il manifesto” per il quale scriveva, purtroppo, sempre più raramente.  

La prima cosa  che ho pensato alla notizia della sua morte è che stanno scomparendo tutti i nostri maestri e qui rimane il peggio del peggio, gli opportunisti, gli ambiziosi, i voltagabbana, gli amanti del lusso, i corrotti.  Gli spregiatori del merito paziente, i superbi, gli indegni, gli insolenti: il marcio che denunciava Amleto, una desolante realtà.  Nè buoni nè “ cattivi” maestri, solo opportunisti interessati all’arricchimento personale.

Non ho avuto Asor Rosa come docente, ma nel mio primo esame di Italiano, sostenuto col professore Giuliano Manacorda, il corso su Cassola e Pasolini, era obbligatorio il testo “

Scrittori e Popolo” scritto da Asor Rosa nel 1962. Ero una studentessa di Lingua e Letterature Straniere e il piano di studi consigliato dal dipartimento comprendeva anche letteratura italiana.  Era un testo edito da Samonà Savelli, la casa editrice della nuova sinistra e che fu al centro di una forte polemica ideologica e culturale.

Quei primi anni settanta, con tutto quel protestare, mettere in discussione, contestare, inventare forme di democrazia, desiderio di contare, noi studenti,  avevamo la fortuna di avere come professori i giganti della cultura italiana. 

Le altre facoltà non so, ma la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma e i suoi vari dipartimenti, tra i quali la Facoltà di Lingue Straniere, era un concentrato di sapere. 

Il professor Lombardo, il più grande anglista italiano, direttore del dipartimento d’Inglese e Americana, che noi ammiravano e rispettavamo . E poi i suoi molti e molte assistenti, compresi la giovane Nadia Fusini che sarebbe diventata la maggiore esperta di Virginia Woolf e Alessandro Portelli esperto di cultura orale e tanto altro.  A Inglese c’era anche Beniamino Placido con cui sostenni un esame su Mark Twain. Simpatico e ironico bilanciava la severità e il carisma raggelante del professor Lombardo. 

Ho sostenuto un esame di storia del teatro con Giovanni Macchia  senza sapere chi fosse o un esame di sociologia con Statera, severissimo assistente di Ferrarotti, che mi rimproverò perché la mia esposizione non era sufficientemente scientifica.  Ad una lezione di storia dell’Arte con Carlo Giulio Argan capii solo la parola “rosa” e desistetti. C’erano aneddoti tremendi e crudeli che si raccontavano su Paratore, professore di greco e latino.  Ma io non ero interessata.  

Quando si salivano i gradini di Lettere, quei gradini dove lo studente di sinistra Paolo Rossi  era stato ucciso dai fascisti, e si entrava nell’androne della Facoltà, con le sue pareti ricoperte dei graffiti degli studenti, io sentivo il privilegio di cui godevo e quanto dovevo essere grata  alla mia famiglia  per i sacrifici che tutti facevano per mantenermi agli studi. 

E io ricambiavo amando lo studio, innamorandomi della cultura, provando sommo rispetto per tutti i sapienti che, loro inconsapevoli di me, io incontravo di persona o sui loro testi.  

Allora eravamo pieni di voglia di cambiare e rivoltare il mondo, sanare ingiustizie e anche se avevamo una nostra colonna sonora che cantavamo a sguarciagola nei cortei, a me guidava quella canzone di Dylan, “the times they are a’changing “, i tempi stanno cambiando e il suo monito rivolto ai padri e alle madri, ai politici di farsi da parte perché il loro tempo era arrivato alla fine.

Oggi, conoscendo poco la musica contemporanea, mi sembra di dover dire sempre con Dylan “ Things have changed “: le cose sono cambiate. 

Riposa in pace, Asor.

ANNA LUISA CONTU

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