RUBRICA “BENI COMUNI”, 28. LE MURA DEL PIANTO. LE “INSIGNI” CINTE URBANE DI CENTUMCELLAE E DI CIVITAVECCHIA “DEMOLITE PER MUTATE NECESSITÀ DI DIFESA”
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Nella puntata precedente, ho ripreso alcuni argomenti che avevano costituito il tema delle mie vecchie ricerche sulla storia urbanistica di Civitavecchia, esposte in Chome lo papa uole… e in altre pubblicazioni tra gli ultimi decenni del secolo scorso ed il primo decennio di questo. Tra le tesi sviluppate in quella sede, avevo posto in evidenza il ruolo “di servizio” rivestito dalla città fin dalle sue origini. Riprendo ora qui quelle argomentazioni.
La stessa costruzione del porto di Centumcellae – scrivevo – si colloca, con le altre strutture di carattere militare e commerciale, nel quadro d’un sistema, certamente sapiente per le finalità di Roma, ma che relega a ruoli di servizio le aree e le popolazioni locali: il centro maggiore del nostro comprensorio nasce, così, come atto d’imperio del potere centrale, appunto “cattedrale nel deserto”, voluta nel quadro della politica traianea, che tenta di recuperare, con interventi infrastrutturali, la gravissima crisi economica dell’Italia ed in particolare della terra d’Etruria. Le successive vicende non mutano, nell’ottica storica attuale, il quadro sin qui delineato. Ancora deserto ostile nel periodo lunghissimo delle invasioni, plaga malarica e incolta nell’età feudale, territorio da cui trarre risorse nello Stato Pontificio, il comprensorio non trae vantaggi neppure dall’annessione allo Stato unitario e le sue condizioni di sottosviluppo perdurano fino ad oggi (1975), aggravate da nuove minacce, anche se, in tempi recenti, prospettive più concrete sembrano sostituire i discorsi, le promesse e gli auspici per uno sviluppo che l’Alto Lazio attende da secoli.
E forse, in questo senso, pur nel rammarico per le sofferenze, la povertà, i disagi della lotta quotidiana per l’esistenza delle generazioni che ci hanno preceduto su questo territorio (“Non ci è accaduto di ritrovare che memorie di miseria e di lagrime” scrive Pietro Manzi nelle conclusioni della sua breve ma precisa storia della città natale edita nel 1837), può trarsi dalla situazione qualche motivo di ottimismo. La possibilità, cioè, di iniziare proprio dal deserto, in particolare dal deserto di gravi interventi compromissori. È pur vero che il territorio è già stato aggredito in più parti e lì lo scempio operato è tra i più gravi. Accanto alla speculazione privata dei lager di fine settimana, si sono affiancati gli enti pubblici e lo stesso Stato a deturpare e distruggere ciò che avrebbero dovuto tutelare (sono episodi ben noti, di cui va sempre più diffondendosi la consapevolezza e ciò significa che è possibile porvi rimedio, anche se l’opera di bonifica, di risanamento e restauro ambientale e paesistico sarà lunga e difficile).
Gli esempi sono innumerevoli e, per Civitavecchia, hanno inizio all’indomani dell’annessione al Regno d’Italia. Già nel 1871 comincia, da Porta Campanella, la demolizione della storica cinta muraria, proseguita negli anni successivi fino al quasi totale abbattimento, come in altre città italiane. La lapide posta sotto lo stemma sabaudo, sull’ingresso dell’Infermeria Presidiaria a memoria dell’assurda operazione, giustifica con palese ipocrisia le taciute esigenze di arginare la disoccupazione e di offrire aree a basso costo alla speculazione edilizia: “Qui / Antonio da Sangallo nel MDXV / eresse il primo bastione a doppi fianchi. / Fu demolita l’opera insigne nel MDCCCLXXXIV / per mutate necessità di difesa». Del periodo fascista è sufficiente ricordare la «resezione» delle navate laterali dell’Arsenale berniniano (1928) – per consentire il passaggio del binario ferroviario, in totale dispregio della geniale facciata originaria –, poi definitivamente snaturato dalla sua copertura (1935-38) con una “grande terrazza sul mare”. Che, comunque, rappresentava il soddisfacimento di un bisogno ancestrale per gli abitanti d’una città che – come scrissi nella lettera ad Eugenio Scalfari (v. la puntata precedente di questa rubrica e l’articolo La città senza piazze del 24 maggio scorso) – “non aveva neppure luoghi che ne consentissero una visione complessiva”.
Di quanto avvenuto nell’immediato dopoguerra dà un quadro efficace la Relazione al Piano Regolatore Generale del Comune di Civitavecchia, redatta dai progettisti Luigi Piccinato, Renato Amaturo e Nico Di Cagno nel luglio 1961 (pag. 37): “(Alle limitazioni imposte dal Ministero dei LL.PP. al Piano di Ricostruzione ed alle loro conseguenze) va aggiunta la mancata osservanza anche di quel poco che era stato programmato, proprio da parte di molti Enti pubblici e statali: le varie amministrazioni succedutesi alla direzione del Comune hanno applicato per lo più il Piano con eccessiva ‘elasticità’, apportandovi tra l’altro numerose varianti che hanno in gran parte travisato il Piano stesso; così il Genio Civile realizzò molte delle sue case fuori dei limiti del Piano; la polizia ferroviaria costruì un edificio sul tracciato di una strada di fondamentale importanza di raccordo tra la stazione ferroviaria e il centro, piantonando con propri agenti la costruzione e interdicendo l’ingresso ai rappresentanti dell’amministrazione comunale che ingiungevano la sospensione dei lavori; gli edifici della scuola di guerra e le abitazioni degli ufficiali e del personale a questa addetti sono state in parte realizzati proprio sull’arteria di scorrimento, mentre un ignobile edificio, adibito agli uffici della Capitaneria di Porto, veniva costruito al posto dei cantieri del Bernini in zona vincolata; infine, è di quest’anno la costruzione, con il beneplacito della Sovrintendenza ai Monumenti, di un vasto edificio a negozi e magazzini che arriva ad utilizzare come muri d’ambito parte dei residui bastioni facenti parte del Forte Michelangelo, occludendo la vista del Forte stesso e bloccando parte del lungomare». In tempi più recenti la situazione non appare migliorata: la localizzazione di immensi impianti termoelettrici a Torre Valdaliga (in zona dichiarata di notevole interesse pubblico ai sensi della legge sulla protezione delle bellezze naturali e panoramiche, interessata inoltre da cospicue vestigia archeologiche e storiche), l’attraversamento caotico e indiscriminato del territorio con elettrodotti ad alta tensione e altissimo impatto (“propilei d’epoca tecnocratica”, li definisce Carlo Amadio nel suo articolo Tecnologie infrastrutturali e paesaggio, in “Moebius”, a. IV, 1971-72, n. 6, pagg. 136-143), il continuo verificarsi di episodi d’insipienza, d’incuria o di disinteresse per il patrimonio storico e naturale, come quelli documentati a pag. 38, ne sono, purtroppo la prova.
Richiamate queste premesse, credo utile fornire alcuni ragguagli sulle varie “insigni” cinte urbane che nel volgere dei secoli hanno difeso la città, a volte senza esito, sopraffatte dalla violenza e dal numero dei nemici, e sempre senza che poi la città riconoscente, a sua volta, difendesse loro, ogni volta, invece, impaziente di abolire quel limite alla crescita disordinata, quella barriera all’espansione intensiva, senza che si interponessero spazi a verde o almeno zone di distacco e di migliore viabilità tra le aree edificate, quanto meno un “Ring” – un anello stradale – come quello di Vienna.
Per rendere in modo evidente al lettore quali erano e dove passavano i vari circuiti murari costruiti nel corso del tempo intorno all’abitato, via via più ampio, con le caratteristiche proprie delle diverse epoche, farò riferimento alla mappa della mia carta archeologica del 1975, su cui ho riportato quei circuiti in colori diversi, riprendendoli dalle cartografie dettagliate degli studi di riferimento (le ricostruzioni di Paola Moretti del 1965 e anni seguenti, le mie ricerche e le “cento tavole” relative dal 1975 in poi). Diversamente da Gerusalemme, Civitavecchia non ha conservato un “Muro del Pianto”, anche se di mura antiche superstiti, testimonianza delle città sovrappostesi l’una all’altra e delle distruzioni subite ripetutamente, ne restano molte. “Mura del pianto”, le dico nel titolo, forse anche “Mura del rimpianto” potrebbero o dovrebbero essere, nel ricordo non delle distruzioni subite ma di quelle volute, volontariamente o per indifferenza. Forse, il simbolo, l’interpretazione “metaforica” della rievocazione di quelle mura, come ha scritto Enrico Novello in Obiettivo Civitavecchia 1943-1993, descrivendo il progetto, era proprio il “mucchio di pietre” inaugurato in piazza Vittorio Emanuele in quel 14 maggio del ’93 in cui furono commemorati i tragici eventi bellici di cinquanta anni prima. Ma quel segno emblematico, nella sua voluta essenzialità priva di retorica, non emoziona nessuno, è ritenuto solo uno spartitraffico. Ma questa è sorte comune con altre reliquie ben più eloquenti.
Qui di seguito, ecco la sintetica descrizione delle mura nelle diverse fasi urbanistiche, con l’auspicio di riuscire a chiarire finalmente le incertezze e le cognizioni imprecise che vedo abbastanza diffuse in proposito a vari livelli. Ancora di recente, su Facebook e in altri modi, l’argomento è stato ripreso da più parti (il Comitato 14 Maggio, la Macchina del Tempo, Francesco Etna con le sue ottime “foto retrospettive”, Gigi “Veleno” e i suoi diversi post, il sindaco dell’inizio del XXI secolo Alessio De Sio, vari appassionati) dimostrando che l’interesse sull’argomento è molto forte.
1) Mura romane: non esistono perché non è esistita una città romana: quella che si è formata dietro il porto di Traiano (e le attrezzature del primo impianto) era la trasformazione della villa imperiale (Centumcellae, denominazione divenuta poi usuale per le dimore imperiali extraurbane) e delle sue varie parti, con i servizi portuali aggiunti in seguito (come i bagni pubblici di età severiana) e le abitazioni sorte via via; divenendo quel centro – la città “romano-bizantina” – con la sede vescovile e la basilica di San Pietro – che era ancora florida al tempo di Gregorio Magno cioè la città con le mura “bizantine” che fu poi conquistata e distrutta dai Saraceni;
2) Mura della Porta Antica (colore giallo chiaro): sono quelle a protezione della suddetta città “romano-bizantina”, la cui costruzione è ipotizzabile nel III-IV secolo, restaurate sotto Gregorio III (731-741) ed il cui andamento, da vari indizi, si può immaginare avendo la posizione della “porta anticha” dalle misurazioni fatte da Antonio da Sangallo il Giovane ai primi del ‘500, riportate nei suoi disegni oggi agli Uffizi; nel 1975 ne ho ricostruito il tracciato sul terreno, attraverso misurazioni abbastanza precise sulla mappa della città attuale;
3) Mura castellane (marrone chiaro): sono quelle, più ristrette delle precedenti, costruite forse già nel tardo medioevo intorno alla “Vecchia Civita” rimasta abbandonata e poi lentamente ripopolata (senza nessun “ritorno”) per via del porto, danneggiato ma pur sempre utilizzabile finché poi restaurato e potenziato da fine ’400 e primi ‘500; queste mura “castellane” sono state rinforzate se non costruite ex novo – con le varie torri e le tre porte fortificate con fossato e ponti levatoi – da Pio II Piccolomini quasi contemporaneamente alla sistemazione del borgo natale di Corsignano, la nuova Pienza (1459-64) ad opera di Bernardo Rossellino;
4) Cinta bastionata (rosso scuro): progettata da Antonio da Sangallo jr, dopo l’inizio del Forte del Bramante (1508) da lui proseguito, e iniziata nel 1515 con le fortificazioni intorno alla Darsena, è stata portata avanti con l’intervento d’altri architetti militari (De Marchi, Laparelli) e completata con Porta Romana nel 1569;
5) Opera a corno (rosso fuoco): estensione della precedente (in forma di grande “rivellino”) verso sud, forse già iniziata sotto Paolo V Borghese nel 1615, è stata completata intorno al 1640 sotto Urbano VIII Barberini, secondo il progetto di Pier Paolo Floriani da Macerata, poi ideatore dei grandi interventi voluti a Malta dal Gran Maestro Antonio Manoel de Vilhena, con la citta di Floriana che ne ha preso il nome;
6) Progetto di addizione urbana di Carlo Fontana (turchese): prevedeva un ampliamento con ingrandimento delle mura a nord-est ed è visibile nell’incisione degli acquedotti del 1699;
7) Cinta dell’ingrandimento del Genio francese (arancione): progettata e subito realizzata dal Genio di occupazione francese sotto Pio IX nel 1856, comprendeva le “Quattro Porte” ferroviarie, Porta Pia presso l’attuale piazza Verdi ed il bastione verso l’odierna via Mascagni;
8) Cinta daziaria (verde): era quella costruita nel 1884, dopo l’annessione di Civitavecchia al Regno d’Italia con la presa del 16 settembre 1870, a seguito dell’istituzione del nuovo dazio sulle merci in entrata o uscita dalla città, che pagavano appunto una tassa (cfr. precedenti del porto franco e del “punto franco” verso la Darsena); del tratto “residuale” lungo via Isonzo ne è franato un tratto da anni;
9) Penitenziario o bagno penale (giallo oro): costruito da Pio IX con progetto dell’arch. Lana e con l’assistenza del comando del Genio francese, terminato nel 1870, era appunto il nuovo e moderno penitenziario, destinato a sostituire i vari luoghi di detenzione e prigioni presenti in città.
La mappa a colori della copertina è la Forma Civitatis georeferenziata di Civitavecchia alla metà del XIX secolo, copyright © 2005, 2012 by U.C.I.T., Roma. La pianta è stata elaborata nel quadro del Progetto innovativo in ambito urbano “Porti e Stazioni” finanziato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a cura dell’Ufficio Consortile Interregionale della Tuscia, istituito per l’attuazione del Prusst “Patrimonio di San Pietro in Tuscia ovvero il Territorio degli Etruschi”, del Patto Territoriale degli Etruschi, dei Programmi innovativi e dell’Area integrata “Litorale Nord” (Progetto, direzione e coordinamento scientifico: architetto Francesco Correnti. Documentazione di base e elaborazioni: ricerche d’archivio, rilievi e ricostruzioni dello sviluppo urbano di Paola Moretti, 1965-68 [vedi la mappa in gradazioni di grigio della copertina], 1995-2007; anastilosi del tessuto urbano, planimetrie dei resti archeologici, inventari dei beni e piani urbanistici di Francesco Correnti, 1969-2012; rilievi, ricerche d’archivio ed elaborazioni grafiche di Arnaldo Massarelli, 1992-2012; Elaborazione informatica: architetto Elisa Fochetti, 2005-2012). La pianta rappresenta la sintesi e la rielaborazione informatica dei risultati delle ricerche, degli studi e delle ricostruzioni raggiunti da parte dei suddetti autori, attraverso un lavoro sistematico protrattosi per quaranta anni sui documenti riguardanti la città e il porto di Civitavecchia. Questi risultati sono stati proposti ai giovani professionisti selezionati per collaborare con il Comune di Civitavecchia ed hanno fornito il supporto storico-scientifico delle proposte sul tema “Progettare in Comune” (da “Civitavecchia veduta”, 2012, p. 5). Ripreso sempre da “Civitavecchia veduta”, il post su questo sito e il ricordo su SpazioLiberoBlog dedicati ad Arnaldo Massarelli, avevano anche lo scopo di riproporre il problema della conservazione “attiva” degli studi storici. In proposito, ho ricordato più volte e di frequente che il nostro scopo era, principalmente, quello di “scoprire” com’era la Civitavecchia del passato, nei suoi vicoli, nelle sue case, nelle sue modificazioni temporali, in tutti quegli aspetti fisici di cui i secoli, le demolizioni e infine gli sventramenti della guerra e del dopoguerra avevano lasciato poche tracce e di difficile lettura. Poiché di quella che si riteneva esser stata la “città romana” (in realtà, mi ero andato convincendo, mai esistita in quanto tale, se non per una fase di trasformazioni e adattamenti estemporanei) e di quella creata dagli interventi dei pontefici, i “grands travaux” del ’500 e del ’600, avevamo, per l’una, diverse ipotesi e, per l’altra, dati molto dettagliati, restava da indagare e immaginare la città intermedia. Avevamo pochi resti e labili indizi per ricostruire la fase tra la “villa imperiale” in trasformazione e il borgo in formazione, a cominciare da quella città di Gregorio Magno che, non a caso, era stata il tema del convegno organizzato insieme a Giovanni Insolera, nel 1989, con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e sotto l’alto patronato del Vescovo Mons. Girolamo Grillo. Fu proprio in quell’occasione, tuttavia, che – con l’apporto di vari altri studiosi di cui qui ricordo con speciale affetto e rimpianto Antonio Maffei – tentammo, procedendo cautamente ma con molto entusiasmo, di ricomporre i tasselli per dare forma a quell’insediamento ancora misterioso (cercando, ad esempio di capire, il significato di immagini forse solo simboliche e tuttavia eloquenti, come la “Centũcellis” della Tabula Peutingeriana). Tra tesi di laurea, ricerche di studiosi, estratti dalle tante pubblicazioni, le centinaia di vedute e mappe delle incisioni dei secoli scorsi, le mie 100 tavole dell’ “Atlante”, con le 70 planimetrie della città ed i lavori e l’evoluzione dell’assetto urbano nel corso degli anni dalle origini alla città attuale, oltre agli innumerevoli schizzi e disegni di dettaglio, con la trasposizione per alcune tappe temporali nelle vedute di Arnaldo, pochi centri hanno altrettanta documentazione iconografica sulla loro storia. Il materiale disponibile (e in parte già riprodotto su supporti espositivi) può consentire di allestire più di un punto di richiamo culturale e turistico, pubblicizzato da una delle istallazioni del progetto “La Storia scende in piazza”, arricchendo le risorse in materia ed i luoghi di interesse. Se questi non sono vetrine mute e immobili, ma fanno capo ad un Centro studi di alta autorevolezza scientifica in cui siano rappresentati gli enti pubblici di riferimento; che coordina singoli e associazioni che vogliano collaborare; in cui studenti, laureandi o dottorandi possano incanalare le lori ricerche e in cui giovani studiosi, con il doveroso e decoroso sostegno di borse di studio, approfondiscano ed amplino il campo delle indagini storiche; si avrebbe facilmente, nuovamente, quello che il CDU è stato per tanti anni e quel supporto alla cultura cittadina in campo storico-urbanistico di cui si avverte la mancanza.
FRANCESCO CORRENTI