RUBRICA “BENI COMUNI”, 26. BELLES OCCASIONS MANQUEES (PAR LA FAUTE DES IMBECILES). DALLA REPUBBLICA MARINARA A CHI PIÙ NE HA PIÙ NE METTA

di FRANCESCO CORRENTI ♦

Il mio libro Chome lo papa uole… Note per una rilettura critica della storia urbanistica di Civitavecchia, sia nella prima edizione del 1985 (con ampie parti rese note fin dal 1975), sia nella seconda in due volumi del 2005, ha avuto ampia diffusione gratuita e, certamente, molte famiglie civitavecchiesi, come ho avuto modo di constatare, lo possiedono e appare, con il suo titolo a grandi caratteri arancioni e le altre scritte bianche sul fondo nero del dorso, nelle librerie più o meno nutrite in tantissime abitazioni della città. Mi sono però reso conto che le persone che lo hanno letto, non dico per intero comprese le note ma almeno nelle parti essenziali, sono al giorno d’oggi molto poche. Purtroppo, la maggior parte di quanti hanno avuto la curiosità e la pazienza di leggerne i capitoli più significativi non sono più tra noi.

Non è un libro di testo delle scuole cittadine, come avevano suggerito Vittoria Calzolari e Mario Ghio nel loro intervento alla presentazione, e non se ne dà periodicamente lettura nella Biblioteca comunale, come aveva proposto Corrado Placidi in una sua recensione sul periodico di Italia Nostra nel 2005. Diversi studenti di architettura e quasi tutti i laureandi in quella Facoltà che scelgono Civitavecchia come oggetto di studio lo consultano e ne prendono spunto, inserendone frasi o illustrazioni nei loro lavori (a volte senza citare la fonte), ma ormai è solo un titolo che appare nelle bibliografie specialistiche di cui pochi conoscono effettivamente le tesi e i contenuti. Per cui i risultati di quella “rilettura critica” sono dimenticati o del tutto ignorati e le narrazioni che si leggono o si ascoltano non solo continuano a ripetere i vecchi miti e le versioni leggendarie, nonostante le smentite di tanti autori anche recenti e ben noti, ma la stessa successione cronologica delle vicende urbane e la reale essenza di monumenti, luoghi e fatti territoriali è travisata e misconosciuta.

Peggiore sorte hanno avuto, negli ultimi decenni, le ricerche specialistiche, gli studi accademici e le pubblicazioni scientifiche apparsi nel corso degli anni, ed anche opere a carattere divulgativo o informazioni diffuse attraverso forme non elitarie di comunicazione, la cui trasmissibilità è comunque certamente ardua. Anche se alcuni esperimenti coraggiosi hanno avuto successo. Forse più sul piano emotivo che non su quello dell’apprendimento e della comprensione.

Certamente, le argomentazioni di natura tecnica o teoretica, esposte con termini propri delle discipline che vengono investite, in pagine e pagine di testo senza frequenti riferimenti a illustrazioni esplicative e invece con dotti rimandi a fonti, citazioni bibliografiche e cognizioni complesse, riportati in lunghissime note redatte in caratteri ridotti (corpo 10 o minore), a esclusivo uso degli addetti e dei cultori della materia, sono ottimi mezzi d’informazione esauriente per gli studiosi. Ma per gli altri?

Per l’opinione pubblica, per quanti hanno desiderio di conoscere la realtà delle cose in forma piana e con linguaggio comprensibile, sono oggi disponibili moltissime forme di trasmissione del sapere, ma sono tuttavia di non facile impiego nella pratica in cui ci troviamo ad operare, ai livelli delle interrelazioni culturali cittadine che sono la sfera di azione del nostro Blog. Questa puntata della rubrica suggerisce un nuovo approccio ai temi precedentemente esposti, riproponendo argomenti e ragionamenti già sviluppati in quelle pubblicazioni di molti anni addietro, tentandone quindi un’ulteriore “rilettura” alla luce della lunga esperienza maturata. Ho già fatto dei tentativi in tal senso. Il 19 maggio 2016, l’articolo Rilettura d’una rilettura. Senza parole. Per vedere l’effetto che fa era proprio la premessa, scritta nel ’75, a quel mio lavoro, una ricerca che definirei “di scoperta”, dato che affrontavo il tema “Civitavecchia” da un punto di vista per me nuovo, dopo le elaborazioni di pianificazione d’area vasta e di progettazione urbanistica condotte prima in ambito universitario e in seguito nei primi anni di servizio al Comune.

L’effetto era stato promettente: lo stesso giorno, Paola Angeloni aveva scritto: “Chome lo papa uole è nella mia biblioteca: leggo e rileggo per l’impianto storiografico e la ricchezza documentaria. Grazie.” Ed io avevo subito risposto (chiarisco qui che ho iniziato allora a conoscere, un poco alla volta, attraverso la lettura dei commenti e della chat, molte care persone che non avevo personalmente incontrato e frequentato nei decenni del mio lavoro e delle quali ignoravo “tutto”): “Grazie a lei, a Nicola e a tutti per le gentili espressioni. Dal 1985 e poi dal 2005 (seconda edizione), oltre alle molte “recensioni” degli amici e dopo alcune conversazioni di storia urbana tenute ai consiglieri comunali anni fa, credo che sarebbe utile proporre di questo libro e degli altri che esistono in materia delle “pubbliche letture” (detto così possono sembrare occasioni di noia mortale), in cui si individuino luoghi della città di oggi, se ne legga la storia, si discuta lo stato attuale e si propongano le possibili sistemazioni, modifiche e trasformazioni. Per una città viva, espressione dei cittadini.” Il rimando a Nicola Porro in questa risposta alla professoressa Angeloni si riferiva ad un precedente articolo su una “scoperta” fatta da me in Francia, che lui aveva commentato il 26 aprile dicendo: “Una storia sconosciuta, intrigante brillantemente narrata. Complimenti e…Santa Magnanza ora pro nobis!”

Sempre il 19 maggio, “Mediciv srl”, riferendosi a Chome lo papa uole… aveva gentilmente aggiunto: “Opera imponente della quale la città ormai non può fare più a meno.” Ma questo commento io l’ho visto in ritardo e solo il primo luglio avevo potuto replicare, con un certo pessimismo: “Ne fa, ne fa. Ed è un fatto negativo, perché è una testimonianza diretta dei fatti più recenti, che andrebbero discussi in sedi appropriate”. Questa convinzione dell’utilità di impostare l’interpretazione degli avvenimenti storici e quelli della quotidianità contemporanea sull’analisi del divenire urbanistico ha costantemente caratterizzato il mio modo di pensare ed anche di svolgere la mia attività professionale. Con tali criteri ho sviluppato le tesi di Chome lo papa uole… e delle altre ricerche, indirizzando anche l’operato degli uffici di cui sono stato responsabile alla continua verifica della coerenza dei risultati con le premesse teoriche definite – con il metodo illustrato – nella programmazione preliminare. Riprendo qui, per migliore chiarezza, le argomentazioni introduttive del libro, ripetendole com’erano, senza modificarle.

Sintetizzando l’esposizione delle vicende che hanno conformato la forma fisica e l’aspetto esteriore della “terra” di Civita Vecchia, sia prima sia dopo l’inizio dei grandi lavori pontifici del Rinascimento, ho analizzato lo sky-line della città, così come possiamo ricostruirlo in una specie di collazione tra avvenimenti storici controllati e sviluppi edilizi conosciuti. Il risultato dell’analisi è alquanto diverso dalle conclusioni cui porterebbe la versione tradizionale. Appaiono evidenti le caratteristiche urbanologiche di Civitavecchia. La sola componente verticale, tra gli andamenti dominanti del profilo urbano, è rappresentata dalla torre della Rocca, espressione del potere assoluto del sovrano o del dominus del momento, che – con i suoi 33 metri di altezza – e la compatta stereometria – ha sempre conservato la sua preminenza, anche quando la mole possente della fortezza di Giulio II si è inserita, come fattore di simmetria, nell’anfiteatro portuale e le chiese costruite tra il XVII ed il XVIII secolo hanno introdotto nuovi punti focali nel paesaggio cittadino. Seconda nella gerarchia volumetrica fin quasi a tutto il Seicento, la chiesa di Santa Maria si staglia – per chi entra nel porto – contro il fondale dei monti della Tolfa, con le sagome triangolari del tetto e del campanile, elevata rispetto alle basse case circostanti e tuttavia modesta nelle sue dimensioni spaziali. Questa modestia, cui cercheranno di ovviare gli interventi settecenteschi (ma senza sostanziali risultati), è chiaro indice della subordinazione di tutta la città alla Rocca feudale e papale. Diversa, indubbiamente, sarebbe la presenza dell’edificio sacro nella scena urbana, se quella continuità di vita, che gli storiografi municipali hanno attribuito al centro portuale, non fosse stata – in realtà – interrotta per lungo tempo. Il borgo indifeso formatosi tra le rovine della vecchia civita, sotto il controllo e la giurisdizione della Rocca (cioè dei turbolenti avventurieri che si avvicendano nel suo possesso), stenterà per secoli a riassumere una fisionomia urbana, ma – soprattutto – non riuscirà più a riacquistare (a dispetto del nome) proprio le prerogative di civitas, almeno nella loro accezione più completa e cronologicamente pertinente.

Erede del nome e degli attributi politico-religiosi della città traianea, in quei secoli, è, invece, la nuova Centumcellae (tradotta per distinguerla in “Centocelle”), la “Leopoli” fondata nell’854, in cui vengono trasferiti il vescovo, la sede del vescovato e, di conseguenza, il nome della città episcopale. Ad essa, come è ormai ben noto, e non a Civitavecchia, vanno riferite le cronache, le notizie storiche e i documenti, che attestano la sopravvivenza di Centocelle per quasi seicento anni. Il diminutivo di Cencelle con cui sarà denominata, si badi, non è assolutamente segno di minore importanza, come pure è stato detto, è solo il modo più conciso di appellarla nel linguaggio corrente, allo stesso modo che certamente era avvenuto per la città originaria nel linguaggio popolare in latino (come, del resto, avverrà nella forma scritta contratta “Ceñcellæ”, dove l’accento circonflesso sostituisce il “tum”, al pari di altre simili, tipiche, ad esempio, dei documenti notarili o dei registri parrocchiali), come era d’uso comune generale per tutti i nomi e le parole di eccessiva lunghezza, quindi le abbreviazioni dei nomi propri e gli accorciativi degli stessi toponimi, soprattutto nelle forme dialettali e negli scritti.

La chiave dell’altrimenti inspiegabile ruolo subalterno svolto da Civitavecchia, dal Medioevo ai tempi moderni, è appunto nella lunga eclissi del centro portuale, nel periodo più travagliato, ma anche più fecondo, della formazione e affermazione dei centri di predominio territoriale. Altre vicende e più generali circostanze storiche hanno, naturalmente, influito sullo sviluppo della città, determinandone e condizionandone le funzioni e le caratteristiche morfologiche, così come – del resto – hanno influito sull’intera zona, impedendone l’autonomia politica ed economica. Eppure, se Centumcellae non fosse stata distrutta dai Saraceni o se Civitavecchia ne avesse immediatamente ripreso la posizione – come vorrebbe la leggenda –, altra sorte avrebbero avuto la città e il territorio. Entrare nel campo delle congetture e delle ipotesi fantastiche sarebbe ozioso e senza senso, ma è innegabile che la città costiera, immaginandola sopravvissuta alla catastrofe, avrebbe avuto nell’età comunale molte probabilità di ascesa e di sviluppo economico. Pochi porti del Tirreno erano altrettanto attrezzati ed in buona efficienza, come – ancora nel IX secolo – quello traianeo; benché decaduta, la Roma della Curia e dei pellegrinaggi alle tombe degli Apostoli costituiva un polo di attrazione in grado di alimentare vasti traffici commerciali e molteplici attività di servizio lungo gli itinerari dei romei; la posizione geografica, già dimostratasi d’importanza strategica nei secoli precedenti, avrebbe dato a Centumcellae una preziosa centralità rispetto a quel lungo tratto di litorale, ai cui estremi stavano per fiorire le repubbliche marinare di Pisa e d’Amalfi, con  quelle di Genova e Venezia all’apice dei due mari. Senza dilungarmi ulteriormente nel trascrivere qui brani di quei ragionamenti di allora, che potranno essere ripresi in modo più sistematico e circoscritto in seguito, prendo spunto da questo accenno ad una mancata “Repubblica marinara di Centocelle” per invitare i lettori a ricordare le tante altre occasioni mancate – da cui il titolo di questa puntata con le precisazioni che dirò – che tutti noi sappiamo ripetutamente presenti nella storia cittadina. Ne parlavo appunto con Giovanni Insolera, giorni fa, e abbiamo convenuto che potrebbe essere un esercizio mnemonico divertente rimettere insieme le innumerevoli lamentazioni in proposito apparse su scritti d’ogni tempo e tenore, udite nelle conversazioni tra semplici cittadini o declamate da autorevoli personaggi in contesti formali o aulici. Ed a questo punto, io mi gioco la “mancata istituzione” del “Sovrano Militare Ordine di Civitavecchia”, appellandomi proprio al ricordo dei lettori per giustificarne la fondatezza ucronica.

Nella puntata di questa rubrica dedicata all’architetto urbanista Renato Amaturo (la n° 6, Il senso della misura, del 15 febbraio di quest’anno) ho voluto riferire le delusioni che hanno concluso i suoi impegni progettuali a Civitavecchia, anche perché seguite alle delusioni meno recenti, relative ad alcuni progetti architettonici di grande qualità non realizzati e al piano urbanistico di un intero quartiere – studiato fino al dettaglio esecutivo – di cui ha preferito abbandonare la fase attuativa per coerenza con le sue convinzioni. Delusioni che hanno tolto al suo rapporto con la città natale l’entusiasmo della fiducia. Malgrado ciò, Renato Amaturo ha proseguito i suoi studi ambientali “teorici” sull’immagine urbana, con intuizioni e soluzioni di grande suggestione, per il centro storico di Civitavecchia. Tra l’altro, la ricerca ha riguardato le possibilità di rimediare ai danni provocati dal mancato rispetto del Piano di ricostruzione di Luigi Piccinato del 1945, nelle zone centrali di corso Marconi e piazza Vittorio Emanuele II e nei profili della città sopra la cinta muraria di Urbano VIII lungo il porto storico. Per restare in tema di occasioni perdute per le città e di scorrettezze deontologiche, purtroppo non infrequenti, va detto che simili situazioni sono avvenute anche altrove. Nell’introduzione al volume sugli scavi a La Castellina del Marangone, ho citato il caso apparso sulla rivista “Parametro” (n° 191 / luglio-agosto 1992, p. 5) del progetto di Ludovico Quaroni per la riorganizzazione dell’area ex Manifattura Tabacchi nel centro storico di Bologna, accantonato per realizzare un intervento di routine curato dal proprio ufficio tecnico, calpestando il codice etico e privando la collettività dei contributi della professionalità più qualificata.

Forse, le occasioni perdute, in architettura, sono state in tutti i tempi più di quelle colte ed ho considerato sempre molto consolatoria la frase, ancor più divertente per le indubitabili virtù di carità cristiana dell’autore, con cui padre Couturier, provinciale dei domenicani di Lione e committente del progetto per il convento di Santa Maria de la Tourette a Eveux sur l’Arbresle (un’opera davvero emozionante, per noi architetti), in una lettera del 28 luglio 1953 (“Lettre du R. P. Couturier à Le Corbusier”, in Jean Petit (a cura di), Un couvent de Le Corbusier, Paris, Les Cahiers Forces Vives-Editec, 1961, pp. 22-23), commenta la mancata realizzazione di molte delle opere che ha ammirato in un libro inviatogli dal grande architetto svizzero: “Je vous remercie de m’avoir envoyé le 5e volume. Tout ce que j’y vois ne fait que me confirmer dans mon admiration, mais aussi dans ma colère de voir tant de belles occasions manquées par la faute des imbéciles”.

E così ho dato conto dello strano titolo in francese e dell’enigmatico sottotitolo di questa puntata.

FRANCESCO CORRENTI

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