Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini – Musica e Patria: le donne civitavecchiesi nel Risorgimento italiano

di ENRICO CIANCARINI

Nei suoi primi anni di pontificato, Pio IX illuse molti italiani pronunciando ambigui proclami patriottici ed approvando timide riforme politiche. In molti videro in lui il possibile artefice di un’Italia federale e unita, che non doveva più sottostare alle odiose restrizioni alla propria libertà imposte da dinastie ed occupazioni straniere che tenevano in ostaggio la penisola italiana da secoli.

Il 1847 vide attuare nelle province pontificie alcune significative riforme, il Papa concesse “moderata libertà di stampa (15 marzo), un Consiglio dei ministri (giugno), guardia civica (inizio luglio), inaugurazione della Consulta di Stato (novembre), Consiglio comunale di Roma (novembre), come pure si avviarono le trattative per una lega doganale con gli Stati italiani, che apparve come la premessa per un’unificazione federale sul modello giobertiano” (Giacomo Martina, Pio IX, in Dizionario Biografico degli Italiani 2015).

Ogni annuncio di riforma o di ricorrenza legata al pontefice, scatenava eccitazione in ogni città, grande o piccola che fosse dello Stato della Chiesa, a cui seguivano entusiasti festeggiamenti ai quali partecipava tutta la popolazione abbagliata dalla figura di questo papa re che sembrava risoluto a scardinare le inique ed arcaiche regole imposte dai suoi predecessori sul trono di Pietro. Fu un’illusione che non durò per molto, alimentata e favorita anche dagli esponenti radicali che nelle province pontificie cospiravano e manovravano per conseguire maggiori libertà politiche ed economiche e che sognavano addirittura l’indipendenza e l’unità d’Italia.

La piccola Civitavecchia non fece eccezione, ne troviamo chiara e dettagliata testimonianza nella Descrizione della festa popolare seguita in Civitavecchia il dì 13 maggio 1847 per la fausta ricorrenza del giorno natalizio dell’immortale Pio IX e raccolta di alcuni componimenti recitati nell’accademia tenuta la sera, stampato presso Arcangelo Strambi. Ad organizzare la festa popolare a cui partecipano la stragrande maggioranza dei civitavecchiesi furono il gonfaloniere Felice Guglielmi e il presidente della Filarmonica civitavecchiese Domenico Bartolini.

Nel Dettaglio della Festa, curato da Antonio Stefanucci Ala, è narrato che “il cielo offuscato da vapori minaccianti la pioggia, di mano in mano rasserenavasi, ed incoraggiava i Cittadini tutti ad adobbare con arazzi e vessilli le loro fenestre, e le loro logge”. Il presidente Domenico Bartolini, console degli Stati Uniti d’America, “avea in bel modo annodate le estremità dei due Vessilli, che formavano un ampio padiglione sul sottoposto stemma americano: in quella dritta leggevasi VIVA PIO IX, nella sinistra VIVA WASHINGTON”.

Alle 10 la gran parte della popolazione civitavecchiese si radunò nella Cattedrale per assistere alla messa solenne di giubilo a cui presenziava l’intero Corpo filarmonico della città, diretto dal maestro Temistocle Marzano.

Tutto il giorno, in tutte le vie della città, si festeggiò l’augusto compleanno. La sera la popolazione si riunì nel Teatro Traiano, inaugurato nel 1844, per celebrare le lodi del pontefice. Il programma prevedeva un’accademia poetica a cui parteciparono fra gli altri Benedetto Blasi e Pietro Guglielmotti e un concerto della Filarmonica. Sul palcoscenico del teatro svettava una colonna monumentale su cui era posto il busto del papa. All’aprirsi del sipario, tutto il pubblico

lo salutava con clamorosi evviva, e da tutte le logge sventolavano bianchissimi lini. Un coro di molte donzelle, e giovani filarmonici incominciava dopo la sinfonia a magnificare le gesta di PIO, e terminato appendevano al monumento corone di fiori, e di alloro nel momento che dal soffitto cadeva lentamente sul busto del Gerarca una pioggia di oro.

Donzelle e giovani filarmonici cantavano insieme nel coro filarmonico. In quegli anni, l’Accademia filarmonica di Civitavecchia era l’unica realtà associativa cittadina in cui le donne erano ammesse come membri, anche se con minori diritti rispetto alla componente maschile. Fondata nel 1832 da Benedetto Blasi, primo presidente del sodalizio, l’Accademia nel secondo articolo dello statuto ammetteva fra i suoi soci anche le donne a cui era attribuito il titolo di accademiche onorarie. In un elenco del 1840 troviamo sedici nomi femminili: Luisa Arata, Teresa ed Angela Albert, Artemisia e Maria Buti, Carlotta e Clotilde Cicconetti, Zeffira De Paolis, Adelaide e Giacinta Lesen, Luisa e Caterina Mollica, Clementina Orsini, Costanza ed Anna Freddi, Luisa Bartoli. (riportato in F. Barbaranelli – E. Ciancarini, Civitavecchia e il teatro. Rappresentazioni e teatri dal XVIII secolo ad oggi, 2015).

Per le esponenti delle famiglie civitavecchiesi più benestanti la Filarmonica era un’occasione irrinunciabile per partecipare attivamente alla vita culturale della città. Fra l’altro, l’Accademia metteva a disposizione di dodici dei suoi membri più talentuosi, uomini o donne che fossero, il maestro del coro che impartiva loro lezioni di canto a domicilio.

Dopo l’apertura delle scuole femminili nel 1816 da parte delle Maestre Pie Venerini, molte ragazze civitavecchiesi aspirarono a migliorare la loro istruzione ed arricchire il proprio bagaglio culturale. Nella sua formazione che le doveva permettere di muoversi a suo agio negli ambiti sociali più abbienti e colti, la giovane donna doveva dimostrare di avere una buona conoscenza della musica che in quegli anni viveva il suo periodo d’oro grazie ai successi operistici dei grandi compositori: Rossini, Donizetti, Bellini e soprattutto Verdi. Essi furono gli interpreti, più o meno consapevoli di un movimento culturale e patriottico che coinvolse tutti gli strati della popolazione, ricchi o poveri, istruiti o analfabeti, uomini e donne.

Gli storici concordano che la Musica e in particolar modo l’Opera, furono nell’epopea risorgimentale efficaci strumenti di diffusione ad ogni livello culturale, sociale ed economico dei valori alla base del movimento indipendentista ed unitario italiano: libertà, patria, oppressore:

Se non si poteva ancora parlare di una vera e propria coscienza patriottica dell’Opera italiana, tutto ciò fu sufficiente a Giuseppe Mazzini per arrivare all’intuizione del melodramma come veicolo dei valori del Risorgimento, come documentato dal pamphlet La filosofia della musica, pubblicato nel 1836. Oltre a numerosi brani d’Opera facilmente rileggibili in chiave indipendentista e unitaria, Mazzini aveva colto nella capillare diffusione dei teatri in Italia, che si stava sviluppando in quei decenni, la rete ideale per diffondere gli ideali risorgimentali, anche per la loro trasversalità sociale, essendo pensati per ospitare, opportunamente separati, tutti i ceti. In quegli anni era in atto in Italia una vera e propria corsa al teatro cittadino, alimentata dal tradizionale campanilismo italico, cosicché anche in piccole città venivano costruiti teatri di tutto rispetto, con un rapporto tra i posti e gli abitanti anche inferiore all’uno a dieci. Altro elemento fondamentale, la capacità del melodramma, grazie all’ausilio espressivo della musica, di andare oltre agli innumerevoli problemi dovuti all’alto grado di analfabetismo e ai particolarismi linguistici che ostacolavano la circolazione della lingua e della cultura unitaria. (Alberto Massazza, da internet)

Anche in questo, Civitavecchia non fa eccezione: nel 1844 fu inaugurato il Teatro Traiano progettato dall’architetto De Rossi grazie al finanziamento dei cittadini più facoltosi della città, convinti a partecipare all’ambizioso progetto dall’immancabile Benedetto Blasi e dalla sua amica la marchesa Calabrini. La città aveva già un teatro, il Minozzi, aperto nel 1787, ma questo non era più sufficiente a soddisfare le accresciute esigenze teatrali e musicali dei civitavecchiesi e dei tanti forestieri che vi soggiornavano.    

Nel 1847, sul periodico romano L’Album. Giornale letterario e di Belle arti fu pubblicata l’ode di Nicola Coletti, un esule napoletano che si era stabilito a Civitavecchia, che dedicava i suoi versi a Luisa Mollica Albert, Artemisia Buti Albert e Luisa Arata che nella società filarmonica di Civitavecchia danno testimonio soave dell’Italica armonia.

Luisa Mollica in Albert era “una deliziosa cantante, ricca di passione, con una voce cristallina che arriva attraverso una piazza e due strade … è una vera prima donna che Civitavecchia non ha mai avuto, domina con la sua voce perfino l’orchestra e riesce a sostenerla anche quando il tenore non ce la fa. È chiaro che le altre fanciulle la detestino, perché è allegra, amabile, spigliata e sa un po’ di francese”. È l’appassionato giudizio del console francese Henry Beyle, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Stendhal, riportato da Silvio Serangeli nel suo monumentale Stendhal Civita-Vecchia (2010). Il marito era Antonio Albert, dipendente del consolato francese, a favore di cui Stendhal si macchiò di falsa testimonianza.

Luisa Arata era la figlia di Giovanni (console di Russia e di Olanda) e di Antonia Alibrandi.

I versi ispirati svelano che il patriota e poeta Nicola Coletti aveva un debole per la “Dolce Artemisia” Buti anche lei coniugata Albert. Le scarse notizie biografiche sono incise sulla sua lapide tombale che era posta nella chiesa dei Frati Cappuccini a Civitavecchia:

Sotto questo marmo riposano gli avanzi mortali di Artemisia Albert. Sposa e madre dolcissima. Precetto ed esempio delle più belle virtù per fede coniugale ed amore. Modello incomparabile di pianoforte e canto. modulatrice agile passionata soave.  

Artemisia Buti Albert morì nel 1859, Luisa Mollica Albert era morta tre anni prima e anche lei fu sepolta nella chiesa di San Felice da Cantalice.

Il nome di Artemisia Coletti lo inserì in un’altra sua pubblicazione, redatta a Venezia il 25 ottobre 1848 quando il patriota casertano con altri volontari, accorse a difendere la serenissima Repubblica dall’assalto delle truppe austro-ungariche, a cui il popolo veneziano si era ribellato:

Annunzio

Di un atto di soccorso a Venezia, praticato dalla generosa Civitavecchia, nel quale ebbe gran parte la patriottica attività di alcune Signore che instituite in deputazione superarono ogni desiderio.

 

E fra le molte Italiane Città debbo nominare con tutta l’affezione e compiacenza, la sensibilissima Civitavecchia, quale non stanca per le continue sovvenzioni usate sin da ché l’amnistia del 1846 rendeva alla società migliaia d’infelici che chiedevano del pane, anche a Venezia ha voluto mostrare quale interessamento prende nella nostra Santa Causa inviando pingue soccorso, rispetto alla sua piccola popolazione.

 

Ma quali termini adoprerò per mostrare come in questa santa azione abbiano avuto parte attivissima delle italiane Civitavecchiesi, signore. Per quanto scarso lodatore io debba essere delle donne, pure mi trovo privo di termini vivissimi onde encomiare abbastanza le suddette. Ed in qual cantone d’Italia non si saprà che voi assumeste la cura, instituite in deputazione, girare di porta in porta, insistere di persona in persona, prendere anche l’obolo dell’indigente, affaticarvi pure nelle ore della canicola, scegliere da voi stesse le tele opportune, tagliare animatissime ed instancabili centinaia di camicie, distribuirne parte ad altre signore perché ci cucissero, e tutto ciò lo faceste in pochissimi giorni?

Chi dunque saprà compilare le vostri lodi condegne? Non è questo amore di Patria, o svergognati detrattori delle italiane glorie? Non è questo desiderio di libertà, non è questa compassione sentita per i miseri fratelli che in Venezia hanno sofferto ogni sorta di disagio? Benedette quelle donne che sentono come esse per la liberazione della Patria, anche esse sono indispensabili; ed esempio memorando ne dettero le fervide Siciliane e le animate Lombarde, e speriamo che le altre italiane generose, e voi specialmente, o libere Civitavecchiesi, compirete l’opera incominciata preparando dei fili, delle pezze, delle fasci e pei feriti, perché la libertà si ottiene con la guerra e col sangue, e se necessità il volesse, impugnerete anche le armi contro gl’insediatori della sospirata redenzione. Né a tali espressioni riderà malignamente l’atrabiliare ciurma che tutto critica nelle beate ore dell’ozio perché io la sprezzo! Ed acciò della operosità di si lodevoli donne nulla rimanga ignoto, e perché altro più provetto scrittore possa parlarne con maggiore entusiasmo, io dirò solo, che il di loro nobile procedere in tale imperiosa circostanza, l’ardire con cui trascurarono le proprie occupazioni ed affrontarono ogni fatica, l’instancabile attività nel disbrigo di tutto, sono azioni che sempre più cari renderanno a Civitavecchia, allo Stato, ed all’Italia, i nomi delle commendevoli patriotte

 

LUISA CARDINI, CHIARA RINALDI, ROSINA BARTOLINI, ARTEMISIA ALBERT

Pochi giorni prima, il 12 ottobre, il Comitato di Guerra in Civitavecchia pubblicava ed affiggeva un manifesto in cui presentava il bilancio di quanto si era raccolto ed inviato in aiuto a Venezia e si ringraziavano le cortesi donne che avevano cooperato al raggiungimento dei patriottici obiettivi: fra Civitavecchia, Corneto e Tolfa erano stati raccolti 371,83 scudi con cui si erano acquistate 60 pezze Callicò Grezzi, 250 paia di scarpe, 20 camicie avute in dono, spesi 17,83 scudi per il trasporto fino ad Ancona ed infine inviati 93 scudi al presidente del governo veneto. Con le 60 pezze le ottime Cittadine civitavecchiesi realizzarono 528 camicie per i combattenti veneti.

Un anno dopo, le stesse donne civitavecchiesi si adoperavano nella capillare diffusione di foglietti stampati a Roma in cui si criticava l’occupazione francese della città. Lo ricorda Michele Mannucci nel volume Il mio governo in Civitavecchia e l’intervento francese (Torino 1850):

S’incaricavano di spargere i foglietti, recati dalle deputazioni romane, le donne stesse di Civitavecchia, facendoli cadere d’ora in ora dalle finestre, diffondendoli nelle case degli amici e dei parenti. Parecchi cittadini li collocavano con prudenza molta e non veduti sopra i banchi del caffè e d’altri luoghi pubblici.

Le donne civitavecchiesi avevano così contribuito con entusiasmo ed impegno ai moti rivoluzionari del biennio 1848/49 che non ebbero successo ma dimostrarono quanto fosse diffusa nella Penisola l’aspirazione all’indipendenza. Molti italiani erano ormai coscienti che la loro vita era soggetta a diverse privazioni politiche e sociali dettate dalla secolare oppressione straniera.

Furono anni burrascosi, che videro il moto indipendentista italiano fallire a causa della debolezza dell’esercito sardo di fronte alla potenza di quello di Vienna, sconfitta che causò l’abdicazione di Carlo Alberto a favore di suo figlio, il futuro re d’Italia Vittorio Emanuele II. Inoltre, il movimento indipendentista mancò l’obiettivo per le divisioni ideologiche e regionali al suo interno. I suoi seguaci non avevano ancora raggiunto la necessaria maturità politica e culturale che li avrebbe visti protagonisti nel decennio successivo. Il biennio 1859/60 li vide condividere la politica e la diplomazia di Cavour e della Corte sabauda e sostenerla durante la Seconda guerra d’Indipendenza. L’appoggio delle truppe francesi di Napoleone III e il trionfo di Giuseppe Garibaldi sul Regno borbonico portò alla fondazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861.

Per Civitavecchia l’unione al nuovo Stato italiano si sarebbe concretizzata un decennio dopo, il 16 settembre 1870 con l’entrata in porto della flotta e in città dell’esercito italiani al comando del generale Bixio.

Concludo questo breve saggio dedicato alle donne civitavecchiesi, appassionate patriote nel Risorgimento italiano, con l’esortazione finale che Nicola Coletti indirizza loro nel suo Annunzio veneziano:

E voi o donne, che sotto i governi del dispotismo, non poteste mai esercitare atti di sublime virtù perché anche la virtù era delitto, ora che mutarono i tempi, fate ogni sforzo acciò il vostro sesso, possa anche a dì nostri, vantarsi delle Cornelie, delle Porzie, delle Clelie, delle Plotine, e di quante seppero rendere più ridente l’avventurosa epoca della Romana grandezza.

ENRICO CIANCARINI

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