“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – DAGLI APPENNINI ALLE ANDE È UN ATTIMO

di MICHELE CAPITANI

Carcere, sezione scuola per adulti.

«Io non ho sentimenti, perché la mia famiglia non la voglio vedere né sentire» dice l’alunno-detenuto Mirko, dopo che abbiamo letto un racconto che parla di padri e di figli.

Gli dico che la sua è una difesa, altro che non avere sentimenti!

«Chi non ne ha, Mirko?»

Anche perché, penso fra me e me, se non ne avesse gli sarebbe venuto da dire che non ha sentimenti e “quindi” la famiglia non la vuole vedere…

Vabbe’, cerco di pensare a come rimodulare la lezione, per non soffermarci troppo su quel racconto (e mi dico che è prematuro buttarla sulle differenze fra connettivi coordinativi e subordinativi…), però non posso schermirmi anch’io, e negarmi che a questo punto ciò che mi interessa, infinitamente di più, è tentare delicatamente di stimolare in quest’uomo un tentativo di andare oltre la sua pertinace e sterile amarezza:

«Mirko, guarda che qui nessuno ti critica, a volte difendersi è necessario. Però, farlo ostinatamente e per lungo tempo non aiuta, credo».

Un compagno interviene:

«Prof, in mio paese si dice che la fuga è vergogna, pero ti fa sopravivere. Solo che mica si può fugire sembre!»

«Esatto. Compresa la fuga dentro sé stessi» aggiungo io.

Mirko volge lo sguardo verso il muro, con un sorriso amaro. Incrocia le braccia, anzi vi si rinchiude dentro, come la mente e il cuore e tutto ciò che, di Mirko, è stato qui dentro imprigionato. Continuerà per tutta l’ora a fissare lo sguardo verso un punto vuoto della classe, e non parlerà più.

Mi sembra anche strano che non se ne torni in cella; in quella in muratura, intendo.

Erige muraglie, pover’uomo, si fa schermo d’un cinismo al quale non capisco se lui stesso creda veramente, oppure no.

I proteiformi volti della depressione.

***

Non si ritorna a scuola impunemente…

Se ne accorgerà anche Dimitri, il giovane russo, quel giorno che, quando li faccio esercitare a dialogare fra loro in italiano, si vedrà porre da Andrea la domanda su cosa gli piaccia fare.

Che grandezza spaventosa può assumere in carcere una domanda tanto comune! Già, poiché dietro al quesito ce n’è sottinteso un altro, lacerante: cosa mi piace fare… ma dove?! Qui fra loschi figuri e lontano da tutto, e alle prese con paure, sensi di colpa, e altri fantasmi di dentro? Oppure cosa mi piaceva quand’ero a casa mia, fra volti amici, e il calore della fidanzata, e la protezione delle mie abitudini?

Andrea infatti ha appena raccontato, come se ancora vivesse a casa sua a Roma, che gli piace giocare a pallone e stare col figlioletto, ma quando appunto gira la domanda a Dimitri, questi sprofonda la testa fra le braccia sul banco e non la rialza, né risponde più.

Dunque dimmi, Dimitri: che farai quando parleremo di come redigere un curriculum? O compilare un modulo in italiano? Come ti difenderai, ragazzo? Questo gli chiedo fra me e me.

E questo dovrò chiedergli realmente, ma magari domani, poiché è un mio alunno, e non lo obbliga nessuno a venire a scuola, dove non ci devono essere solo esercizi e spiegazioni, ma anche dialogo e stimoli.

Domande, dunque.

Dovrai pur considerare la tua vita precedente, Dimitri, ancorché giovane. Dovrai pur volgere lo sguardo non nel comodo buio dell’oblio bensì nei ricordi di ciò che sei, che pur sempre sei tu, e di quel che sai fare, e che vuoi imparare, e che vorrai tornare a essere quando, fra qualche anno, uscirai da qui.

È l’intelligente e colto Dimitri, che quando spiego la nostra storia e si accorge che si interseca con quella che ha studiato al suo Paese, ricorda tutto e interagisce e pone domande. Perciò si potrebbe restare nella zona di conforto, nella terra di confine tra me e lui, fra l’Italia e la Russia come fra tutte le persone e le regioni e i paesi da cui proveniamo, nel tepore interstiziale di argomenti che non coinvolgono troppo e lasciano le ore di scuola pacifiche e sedate, per esempio studiando solo il passato eludendo il doloroso presente. Ma solo chi viene a insegnare in carcere sa l’esperienza di aspettarsi di incontrare carcerati, salvo poi… trovarsi invece ad aver di fronte principalmente il povero, il solo, il tossico, lo psichiatrico, il tormentato.

Insomma, l’uomo.

Che dunque non torna a scuola solo per il pezzo di carta.

Certo, sono studenti costoro ai quali dovrò pur parlare anche dei verbi pronominali: accorgersi, lamentarsi, vergognarsi… e di quelle paroline italiane stronzette, consapevoli di non poter essere evitate, e che si infilano dappertutto per far incespicare ogni straniero: mi, ti, ci, si, vi, ce, ne, li…

«Perciò, ragazzi, si dice “mi vergogno”, non “vergogno”» e così, quando faccio dir loro delle frasi, il boliviano Julio mi fa:

«Be’, io… io mi vergogno di stare qui»

«Bravo Julio»

«Scusi profesore: ho detto “qui” nel senso del carcere, non nel senso della scuola, eh!»

Tutti ridiamo. Anche Dimitri ride, meno male, pur se della sua tipica esultanza col freno a mano tirato.

Poi lo stesso Julio, quando si parla di differenti abitudini fra il proprio paese e l’Italia, dice dell’uso di sorseggiare il mate, che qui non esiste, mentre viceversa in Italia si va al mare, cosa che in Bolivia non si fa.

«Ah no?» gli domanda Andrea.

«E no: in Bolivia il mare non c’è!»

Anche qui tutti ridiamo, e io considero che, come sempre, ha ragione Primo Levi quando dice che non esiste la felicità perfetta ma nemmeno l’infelicità perfetta, dunque non può succedere che si ride e basta, ma neppure che si soffre e basta, in una classe imprigionata.

Eppure… subito dopo è proprio Julio a diventare assorto: si gira e io mi accorgo che il suo sguardo va disperdendosi, remotissimo… pare che stia guardando fuori, come rimarrà a fare per quasi tutto il resto dell’ora, eppure io so che lì fuori non c’è proprio nulla da guardare se non una grigiastra muraglia oltre le sbarre della finestra; è Julio che va scorgendo laggiù un luogo che gli si materializza nella mente, oltre i monti e gli oceani.

A viaggiar sulle ali della nostalgia, dagli Appennini alle Ande è un attimo…

***

Enzo invece dovrà fare i conti con un racconto di Tolstoj (che do come esercizio di inserimento della punteggiatura): un contadino tese delle reti per catturare le gru che gli rovinavano il raccolto, e catturò anche una cicogna, che gli chiese di liberarla: «Io non ho colpe, vivo da sempre sul tetto di tuo padre, inoltre guardami: è evidente che non sono una gru!» Ma il contadino impietosamente le nega la libertà, e a Enzo brucia quell’ingiustizia, Enzo che dichiara sempre di essere estraneo a ciò per cui l’hanno condannato, perché la droga ce l’avevano quei poco-di-buono con cui viveva, lui non ne sapeva niente. Gli suona pertanto atroce l’icastica, gnomica e inappellabile sentenza del contadino: «In compagnia di gru ti ho catturato, in compagnia di gru ti mangerò».

A questo giovane seduto al primo banco si fan lucidi gli occhi, le mani si tormentano. Sa che qui dentro anche lui viene mangiato: gli viene divorato il tempo, cioè la vita.

Mi dispiace davvero, Enzo, ma questo era un banale esercizio sulle fotocopie, e non ti ho suggerito io la morale né te l’ho chiesta: ci sei arrivato da solo.

Non è colpa mia se sei intelligente.

***

Però anche a me, ripensando a tutti questi alunni, appare evidente la morale generale: non si ritorna a scuola impunemente, non si può venire a lezione e farla franca: in carcere l’apprendimento non può essere solo passivo e tranquillizzante, al contrario: contempla sempre il rischio di trovarsi di fronte a una messa in crisi, a difficoltà impreviste, a spunti spinosi, a stimoli scomodi, poiché una volta in classe non si può rimanere nella propria cella interiore, in cui ci si illude di sopravvivere indisturbati.

E a pensarci bene, forse anche la scuola di fuori dovrebbe essere così.

MICHELE CAPITANI

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