RUBRICA – “BENI COMUNI” – 19. DOV’ERA E COM’ERA. UNA SINTESI

a cura di FRANCESCO CORRENTI

Invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia. Pure in questa frase del titolo, ad anteporre il dove al come dell’altra volta, sembrerebbe che la sostanza resti immutata. Ma il porre l’accento sul dove, semplifica tutti gli altri aspetti su cui ci siamo soffermati. Perché il dove è quello che è, mentre i tanti problemi posti dal come restano, ma in sottofondo.

Ampliando l’orizzonte geografico e, per così dire, “tipologico” delle nostre riflessioni, anche in relazione ad alcune note polemiche lette di recente a proposito di Gibellina (su cui tornerò), le argomentazioni della mia tesi – e per equità quelle opposte dell’antitesi – trovano applicazione anche nelle drammatiche situazioni poste in essere dalle distruzioni belliche non di conflitti lontani nel tempo e nello spazio ma, invece, recenti, anzi addirittura in corso, e piuttosto vicini. Senza prospettive immediatamente immaginabili e con un’assurdità di violenza che posso definire solo barbarica, vandalica, priva di logica e disumana. Ma a questo, dicevo, si aggiungono nell’avvilente panorama altri scenari: gli attentati di qualunque matrice, gli atti di terrorismo, le stragi provocate da gesti di follia e tutte le catastrofi cosiddette naturali, cicloni, alluvioni, frane e smottamenti, eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti e tsunami, con il corredo delle loro conseguenze e delle altre “piaghe” minori. Il tema della ricostruzione da questa casistica infinita di disastri ha trovato altrettante risposte e varie realizzazioni sono state assolutamente positive e ammirevoli, mentre altre, purtroppo, hanno mostrato aspetti vergognosi, indegni, con esiti che hanno aggravato i danni, per assurdi ritardi, inammissibili incapacità, intollerabile corruzione. A volte, con l’aggiunta di bassezze, insensibilità e squallore morale. Se l’eco, come ho scritto nella puntata precedente, è il riflesso d’un suono, mi rimane difficile trovare il nome del fenomeno opposto, se c’è, ossia non quello che segue ma che precede il suono, come i segni premonitori d’un evento. Forse è un silenzio particolare. E non posso dimenticare, infatti, il reiterato silenzio e le gravi forme di ostracismo al doveroso adempimento dei compiti degli uffici – denunciate con grande fermezza da Roberto Tamagnini –  d’un personaggio che, qualche tempo dopo, rivelò pubblicamente, proprio nelle circostanze drammatiche di un terremoto, l’arida falsità della sua immagine formale. Specchio – consentitemi l’ennesimo richiamo – di una statura ben diversa nell’espletamento di funzioni dello Stato, dalla generosa abnegazione di Plinio il Vecchio, praefectus (!) classis Misenensis, morto per le esalazioni vulcaniche, nel tentativo di portare soccorso alla popolazione di Stabia in quel lontano 79 d.C.

Nello spirito della rubrica, volto a prendere spunto da episodi di attualità ma anche a riconsiderare pensieri già espressi in circostanze diverse, mi voglio rifare intanto al recente scambio di idee tra l’amico e compagno di studi (cui mi lega anche il rimpianto di tante carissime amicizie comuni scomparse) Roberto de Rubertis, già Ordinario di Disegno dell’Architettura alla Sapienza Università di Roma, tuttora presidente del Corso di laurea in “Grafica e progettazione multimediale” e Professore Emerito della Facoltà, ed il giornalista Francesco Merlo, sulla rubrica “Posta e risposta” che quest’ultimo tiene su «la Repubblica». Questi i precedenti. Il 12 giugno scorso, è stata pubblicata sulla rubrica la lettera firmata da Stefania Dantini di Roma: «Caro Merlo, ho visitato Gibellina (il Cretto di Gibellina e Gibellina Nuova). Casualmente, facendo ricerche su Google sul museo “Trame Mediterranee”, mi sono imbattuta in un suo vecchio articolo scritto dopo la morte di Ludovico Corrao. Oggi è ancora più condivisibile. La piazza del municipio deserta, scheletri di costruzioni mai terminate come il teatro di Pietro Consagra, le opere degli artisti sparse tra erbacce e case invecchiate male e apparentemente deserte, mi hanno fatto pensare che avesse ragione chi scrisse che qui il territorio è stato (è?) al servizio dell’arte e non viceversa. Senza nulla togliere allo splendido museo “Trame Mediterranee” dove si incrociano le culture del bacino del Mediterraneo che dominarono la Sicilia.»

Questa la risposta di Merlo: «Tutti dovrebbero andare a vedere com’è ridotta la città che ha eccitato gli intellettuali e i professori di architettura, la sola dove è stata realizzata la disgraziata utopia dell’immaginazione al potere. Il sottosviluppo, l’arretratezza e la marginalità non sono stati riscattati ma esaltati dalle opere commissionate da Ludovico Corrao a Consagra, Purini, Samonà, Venezia, Pomodoro, Mendini, Salvatore, Portoghesi, Franchina, Colla, Spagnuolo, Melotti, Cascella. A Gibellina si capisce l’Italia.»

Ed ecco, sul quotidiano del 15 giugno, la lettera di Roberto de Rubertis – «prof. emerito di Architettura a Valle Giulia»: «Caro Merlo, non so resistere alla tentazione di esprimere la mia sostanziale condivisione di quanto lei risponde alla lettrice Stefania Dantini su Ghibellina Nuova (12 giugno). Magari non dovrei farlo essendo anch’io uno di quegli “intellettuali e professori di architettura” appartenenti alla generazione che avrebbe dovuto realizzare la cosiddetta immaginazione al potere. Ammetto che quella fu una sfortunata utopia, anche se non tale, però, da assumersi a giudizio per capire l’Italia, come lei conclude: ben altre opere si ergono a difenderla. Quella forse fu solo un’occasione infausta e sono certo che molti miei colleghi, magari anche tra quelli che lei elenca, potrebbero mettere la loro firma qui accanto alla mia.»

Risposta di Merlo: «La sua testimonianza critica, così lontana dalla difesa corporativa, dimostra quanto conti la committenza. Risale al Rinascimento l’idea che di ogni edificio “l’architetto è la madre e il committente è il padre”. L’utopia terremotata di Ludovico Corrao fu così contagiosa da fare di Gibellina, diceva Federico Zeri, “una follia urbanistico-architettonica condita da salsa artistica” che ancora sanguina.»

Trovo il parere finale di Merlo, come il drastico giudizio di Zeri, eccessivamente negativo, anche se la realtà quotidiana – il più delle volte – è senza dubbio scoraggiante. Ma resto fedele a quella convinzione in cui ho sempre creduto, parlando di utopia, ripetendo le parole di Ludovico Quaroni: «Il senso delle cose e della vita delle cose dà (agli architetti) la certezza che questo ideale è, come ogni ideale che si rispetti, impossibile; ma è certo, anzi è sicuro, che ne vedremo, prima o poi, la realizzazione».

Condivido e sottoscrivo, naturalmente, le parole di Roberto de Rubertis, anche perché memore di molti altri momenti di sintonia e dei nostri ragionamenti concordanti su vari temi della professione, rafforzati dalle sue lusinghiere parole di presentazione dei miei studi sul “Metodo di anastilosi grafica dei centri storici scomparsi”. Le cordiali espressioni di stima sue e di Adriana Soletti, già nell’invitarmi a partecipare con una mia relazione, tra tanti illustri “rilevatori” accademici, al convegno di studi “Il Rilievo tra Storia e Scienza”, che stavano organizzando nella Sala dei Notari di Palazzo dei Priori a Perugia, dal 16 al 18 marzo 1989, poi durante lo svolgimento e il dibattito e, infine, con la pubblicazione, da loro stessi curata, in «XY, Dimensioni del disegno» (a. V, n° 11-12, 1991, pp. 72-93), hanno rappresentato l’autorevole riconoscimento della validità di quegli studi. Devo anzi dire che la diffusione al pubblico specializzato di quell’ampia relazione con il suo consistente apparato di note, avendo potuto fino a quel momento fare uscire solo il primo volume di Chome lo papa uole… (1985), in quanto assorbito dai prevalenti impegni comunali, mi aveva consentito di anticipare la comunicazione di molte delle innovazioni e precisazioni cui ero giunto con le ricerche e che avrei potuto pubblicare integralmente solo nel secondo volume (2005). Tra le favorevoli conseguenze della stampa di quella relazione, inoltre, vi fu quella di aver suscitato l’interesse dell’editore del periodico «XY», Aldo Quinti, fondatore e proprietario di Officina edizioni, la prestigiosa casa editrice impegnata dal 1964 in importanti collane di architettura, alle quali collaboravano autori come Paolo Portoghesi, Manfredo Tafuri, Carlo Aymonino, Maurizio Calvesi, Emilio Garroni, Franco Borsi, Filiberto Menna. Nacque da quell’interesse la positiva accoglienza – appoggiata con convinzione dalla signora Jolanda – della proposta di pubblicare il volume de I viaggi del padre Labat dalle Antille a Civitavecchia, 1693-1716, con la prima edizione italiana quasi integrale del diario del domenicano francese che, con Giovanni Insolera, avevamo iniziato da vari anni ad analizzare, assegnandoci poi la traduzione d’una quindicina di capitoli a testa e approfondendone lo studio con ricerche incrociate su tutti gli aspetti più significativi per la conoscenza dei luoghi e della vita quotidiana in quell’epoca.

Entrando adesso nella questione della ricostruzione dei centri colpiti da eventi distruttivi, cercherò di esprimere senza presunzione e preconcetti l’idea che mi sono formato frequentando e studiando buoni maestri, applicandomi in esperienze concrete, analizzando i risultati raggiunti, nel bene o nel male, in una serie considerevole di casi osservati da vicino ed avendo la possibilità di apprendere e valutare teorie e insegnamenti accademici e contemporaneamente di operare a stretto contatto o all’interno di istituzioni deputate. Cercherò di usare il minor numero di parole, insomma di essere molto sintetico. Quindi scusate le approssimazioni. In uno scambio di idee sull’argomento, anni addietro (ad agosto del 2016, penso, commentando i lutti e le distruzioni del terremoto del Centro Italia), l’amico Francesco Etna ha ricordato Il caso di Dresda, caso esemplare della ricostruzione puntuale di una città storica monumentale e simbolica, necessaria e senza alternative. Quando, poco tempo dopo la laurea ma avendo potuto già entrare nel vivo di alcuni problemi, mi sono trovato a ricoprire, a Civitavecchia, un ruolo tecnico di rilievo nella gestione di un centro storico devastato, al termine di una ricostruzione post-bellica particolarmente criticabile per non aver minimamente rispettato e applicato gli indirizzi programmatici del piano di ricostruzione. Avendo anche la possibilità di continui riscontri con gli autori di quegli indirizzi, già miei docenti. Ho pure teorizzato un metodo di “anastilosi grafica” dei centri storici attraverso la documentazione d’archivio originale. Ho sostenuto, anche studiandone la realizzazione concreta, la ricostruzione integrale – già progettata da Paola Moretti – dell’Arsenale (anche come correlatore di una tesi di laurea – dell’arch. Ester Fanali – di cui era relatore Paolo Marconi), del Faro, del Lazzaretto e di Porta Marina (come si è fatto per Porta Livorno, di cui pochi ormai ricordano lo stato deplorevole durato per decenni). Si trattava di “monumenti” architettonici ben definiti e perfettamente documentati. Ho condannato la criminale demolizione di Santa Maria e rimpianto il suo mancato ripristino, benché previsto e già progettato. Non ho ritenuto plausibile il rifacimento caricaturale dell’Arsenale proposto da alcuni progettisti anche molto celebri ed encomiabili per altre opere. Non ho ritenuto possibile la ricostruzione “com’era e dov’era” – benché tanto sostenuta pure in ambienti politici autorevoli – di quell’insieme di resti di basolati e magazzini romani, mura medioevali e torri, palazzi rinascimentali e superfetazioni di varie epoche che viene ancora chiamato “la Rocca”. Che comunque dovrebbe avere una sistemazione unitaria e intelligente da piazza Calamatta alla Bocca della Darsena, come previsto nel piano del 1999 premiato nel concorso internazionale del Premio Gubbio promosso dall’Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici. Piano approvato dal consiglio comunale e inserito nel piano regolatore portuale dal Genio Civile per le Opere Marittime.

Il procedimento dell’anastilosi, con la precisa ricostruzione “pezzo per pezzo”, ha avuto eccellente applicazione nel Friuli, nella ricostruzione dopo le scosse di maggio e di settembre del 1976, grazie all’opera del Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, che in dieci anni, insieme al governo regionale ed alla collaborazione delle amministrazioni locali, ha sanato le terribili ferite, con 45 Comuni rasi al suolo e oltre 90 danneggiati più o meno gravemente. La straordinaria esperienza di Gemona, con la sua ricostruzione “riuscita” e la sua rinascita “efficace, eccellente, rapida e completa” è certamente un fiore all’occhiello italiano, il cui lustro per tutti noi è però molto sminuito dall’essere un “modello unico”.

Ritornando alle considerazioni sul sisma di agosto del ’16 (con le ulteriori scosse fino al gennaio successivo), il problema maggiore era rappresentato dalla povertà dei materiali con cui erano stati costruiti quei paesi. E infatti scrivevo che, nel caso dei nostri poveri borghi martoriati e sbriciolati, io credo che si dovrebbe, si debba, affrontare la strada più difficile, qui da noi. A parte alcune memorie di emergenze storico-artistiche specifiche, considerato che l’edilizia abitativa era già il risultato di lenti processi di ampliamento e sostituzione stratificati nel tempo e spesso recenti, che abbiamo fortunatamente superato la concezione tutta ottocentesca dei cosiddetti “stili” alla Viollet-le-Duc, mi sembrava opportuno – anche in relazione alle intenzioni abitative della popolazione ed in funzione delle caratteristiche preesistenti di località di soggiorno e turismo – individuare un modello di nuovo centro abitato, completamente accessibile, tecnologicamente attrezzato e cablato, di agevole manutenzione e di semplice ma gradevole architettura. Pensavo, in proposito, alle tante recenti esperienze “esemplari” che hanno saputo, appunto, sommare queste caratteristiche. Dedicando un pensiero ai nostri “gemelli” di Ishinomaki: anche lì abbiamo pianto la perdita di amici carissimi, ma dalle case di bambù e di carta, evocate da qualcuno, ai 48 piani delle torri di Shinjuku a Tokyo, ideate da Kenzo Tange, la parola “antisismico” ha un significato concreto. Voglio ripetere esattamente le mie parole di allora, perché vi sento ancora il dramma di amici e famigliari colpiti da quegli eventi.

«Non vi è giorno senza lutti, intorno a noi, e questa è una ineludibile componente della nostra esistenza. Non sono in grado di esprimere con parole adeguate lo sgomento per questa ennesima tragedia: posso solo condividere il dolore immenso e il dramma straziante di quei nostri fratelli, come altre volte e come nel 2011 per i nostri carissimi amici giapponesi. Essendomi da sempre occupato di problemi connessi alla ricostruzione o al restauro di centri urbani storici, ho posto attenzione a quanto viene affermato frequentemente in questi giorni. Amatrice, Accumuli, Arquata del Tronto e gli altri borghi colpiti dal terremoto – si sente ripetere – saranno ricostruiti dove erano e come erano. Anche loro. Parole già udite spesso, si è visto, in vari contesti. Cosa vogliono dire, effettivamente, oltre al rimarcare un diverso criterio, una diversa volontà (si spera da ogni punto di vista), rispetto alla precedente esperienza dell’Aquila?
Si tratta di criteri, di indirizzi che sono stati affrontati dalle discipline specialistiche interessate al problema e che hanno avuto nel mondo soluzioni diverse. Alcune esperienze italiane del dopoguerra sono state molto negative, in altri casi la ricostruzione dopo gravi eventi sismici ha avuto risultati ottimi. In alcuni casi si è proceduto senza piani unitari, in altri, come ripetutamente a Berlino, sono stati adottati precisi programmi per la cui attuazione – per usare le parole del rimpianto Philippe Daverio – “grazie a dei concorsi pubblici di particolare intelligenza, sono state chiamate le teste architettoniche più fini del mondo oggi”. Che non sempre, però, sono una garanzia.

«La distruzione totale avvenuta in questi giorni richiederà metodi e soluzioni veramente nuove. In questo senso, ad un radicale mutamento delle politiche verso un reale e integrale adeguamento strutturale, sarà necessario affrontare un tema immane che solo in pochissimi casi ha trovato interpretazioni valide. Il tema degli interventi contemporanei in ambiti storici, che proprio di recente ho messo in evidenza, parlando del Trentino e della buona architettura, rispettosa del contesto e tuttavia modernissima, come nel borgo di Mezzano “romantica”. Purtroppo, i casi che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi vedono i nostri straordinari paesi deturpati da materiali, forme e colori – forse sono monotono – incongrui, da infissi, serrande e insegne volgari, da assurde “scortecciature” degli intonaci, da ridicoli inserimenti “vernacolari”. Un termine che sono costretto ad usare spesso, perché spesso, cioè di spessore, è il grasso con cui sono impastate le parole falsamente dialettali parlate su quelle facciate. A fingere scrostature da cui occhieggiano mattoncini spaesati, a simulare lacune (quelle vere sono altrove) con cantoni messi a nudo (cantonate vere e proprie) con le loro pietracce e spezzoni.»

E quindi concludo, tentando una sintesi di quanto ho detto finora. Manca, molto spesso e ai diversi livelli, una cultura architettonica autenticamente viva e diffusa, che metta insieme due cose di difficilissima definizione da comunicare: buon gusto e buon senso. Per questo, ci dobbiamo augurare che nelle ricostruzioni dei borghi “dove erano e come erano” avvenga qualcosa di nuovo e di buono. Lo dobbiamo a tutti quei nostri fratelli che hanno perduto la vita in quelle case “di polvere”.

La rubrica è aperta ai contributi dei lettori che vorranno esprimere il loro pensiero.

FRANCESCO CORRENTI

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