“PESCI, PESCATORI, PESCIVENDOLI E CONSUMATORI” DI GIORGIO CORATI – Quale idea di consumo?
di GIORGIO CORATI ♦
Al tempo dello Stato pontificio, a Civitavecchia, il consumo del pescato poteva essere difficoltoso; in genere il pescato rappresentato da individui di grossa taglia era acquistato dai benestanti, mentre, in generale, la popolazione meno abbiente, per lo più doveva accontentarsi del pescato rimasto invenduto ovvero di specie che evidentemente non riscuotevano interesse, magari perché poco gustose, nonché specie di piccola taglia. Al giorno d’oggi, le differenze sociali si sono assottigliate rispetto a un tempo e la società è cambiata orientandosi verso un aumento quantitativo dei consumi in genere. Rispetto ai prodotti della pesca, generalmente il consumo si incentra sul pescato che un tempo era per lo più appannaggio esclusivo dei ceti abbienti e tralascia, come un tempo, specie che in genere sono costituite da individui di piccola taglia.
Come mai? Si tratta forse di una questione di preferenze oppure esistono delle specie che non soddisfano i gusti o magari soltanto l’aspettativa che ogni consumatore porta in sé.
Chissà se si può parlare di una ipotetica forma di rivalsa verso ciò che un tempo non si poteva avere. Il comportamento di consumo è anche un pretesto per dimostrare qualcosa agli altri? Parafrasando quanto scriveva alla fine del ‘800 l’economista e sociologo americano Thorstein Veblen,1 il comportamento di consumo è alla base della reputazione e della stima. Il consumo, che definì “vistoso”, consente all’uomo di comunicare agli altri la propria superiorità; l’ostentazione [ma anche lo spreco] costituisce un criterio di scelta e l’utilità del consumo è la massimizzazione del prestigio ovvero un segnale di ricchezza. In tal senso, è da ritenersi che il consumo, come atto in sé, tenda a svilire la sua connotazione principale che è quella di procurare la massima soddisfazione (come sostenuto dagli economisti neoclassici del XIX secolo) dalla preferenza di un bene economico rispetto a un altro ovvero quella di “estrarre” la maggiore utilità possibile dal valore d’uso riferito alla proprietà intrinseca del bene oggetto del consumo (si potrebbe dire anche del bisogno, del desiderio, del capriccio). Si tratta di un pensiero economico in una visione soggettivistica che va oltre il concetto di valore d’uso sostenuto dagli economisti classici che incentravano le loro teorie sul valore quale valutazione oggettiva derivante dalla scarsità e dal costo di produzione di una merce.2 Se si prendono, dunque, in considerazione anche lo sforzo produttivo in termini monetari per realizzare quel bene e il lavoro delle persone che lo rendono fruibile, allora è ipotizzabile che il comportamento di consumo atteso rimanga supposto e sia surrogato piuttosto da un atteggiamento che “subentrandogli” conduca a sostituire il valore d’uso del bene (che coincide con il prezzo di mercato del bene) con un valore edonistico. E in effetti, Vilfredo Pareto,3 dimostrerà che scelta, decisione e consumo sono legati al gusto piuttosto che alla preferenza. Il concetto di utilità secondo l’economista neoclassico italiano è slegato dal mero concetto di ciò che è “utile” o “ciò che conviene”. Utilizzando il termine ofelimità (derivato da un termine greco) definirà l’utilità con un concetto nuovo il cui significato è “ciò che piace”, “ciò che è desiderabile”; quindi ofelimità nel senso della capacità di un bene di soddisfare un bisogno soggettivo, un desiderio. Ciò che conta, che è rilevante è l’acquisto in sé, perché è legato al benessere individuale.
Già l’illuminista napoletano Antonio Genovesi nella metà del ‘700 riteneva che il lusso appartenesse all’istinto naturale dell’uomo e che venisse utilizzato per distinguersi dagli altri e per farsi reputare meglio degli altri.4 Molto più tardi, Veblen,1 contemporaneo di Pareto, si esprimerà in merito al “consumo vistoso”, come già accennato.
È, dunque, possibile assimilare il lusso a una pratica pervasa da spirito emulativo che tende all’ostentazione? Può essere una domanda interessante.
In analogia all’analisi di Veblen, all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento l’economista e studioso di economia comportamentale James Stemble Duesenberry5 evidenziò, parafrasando quanto ha scritto in tempi recenti Paola Sorci,6 l’esistenza di un effetto dimostrativo nel comportamento di consumo, perché, essendo il consumo un fenomeno sociale, le scelte dei consumatori sono influenzate da quelle degli altri e l’utilità che si può ottenere dal proprio consumo è in buona parte condizionata dal livello di vita delle persone con le quali instaurano i rapporti sociali.
Data, dunque, l‘esistenza di ceti sociali diversi tra loro o comunque di una stratificazione di ceti sociali, sembra scontato che l’effetto dimostrativo possa essere manifestato, da un lato incrementando quantitativamente il consumo e dall’altro orientando le scelte verso beni definiti superiori ovvero beni di lusso.
L’effetto dimostrativo nella società moderna, quella che il filosofo e sociologo polacco Zigmunt Bauman7 ha definito “società dei consumatori” in tempi recenti, si può anche spiegare come gesto compiuto “sotto impulso”. Il consumo “sotto impulso” se da un lato induce a migliorare continuamente lo stile di vita dall’altro tende a far perdere di vista i costi esterni. Si tratta delle esternalità negative di consumo o degli effetti negativi sull’ambiente e anche sull’uomo provocati da comportamenti ritenuti poco o affatto virtuosi, per altri versi a volte non consapevoli e poco “responsabili”. Nel caso del cibo in generale o dei prodotti della pesca, scelta, decisione e comportamento di consumo non dipendono necessariamente dall’appartenenza di un consumatore a una classe sociale superiore, anche se ciò può essere sicuramente valido per alcuni consumatori, però dipendono per lo più sia dal reddito a disposizione per quel tipo di consumo alimentare sia da motivazioni spesse volte indotte, piuttosto che dipendere dalla consapevolezza del consumatore che tuttavia sta assumendo sempre più un ruolo di guida nel comportamento di consumo responsabile e sostenibile.
In questo senso il concetto di razionalità del consumatore, definito homo oeconomicus e sostenuto dal pensiero degli economisti neoclassici ottocenteschi a partire dalla metà del XIX secolo, è insidiato, “messo a dura prova”, come pure il “fondamento” della cosiddetta “sovranità del consumatore” enunciata alla fine degli anni Quaranta del Novecento dall’economista William Harold Hutt.8 Il principio di razionalità tratta dell’homo oeconomicus come di un individuo razionale, un soggetto in senso astratto ovvero un uomo “senza volto”, che compie delle scelte o agisce secondo un sistema completo e ordinato di preferenze (dunque, secondo una logica e con consapevolezza) e tende a rendere massima la propria soddisfazione, cioè ricerca il massimo benessere o il massimo vantaggio per sé secondo il concetto di utilità già espresso dai filosofi dell’Utilitarismo (Jeremy Bentham, 1780; John Stuart Mill, 1861; il tema dell’Utilitarismo è stato ripreso da John C. Harsanyi, 1994). Nel pensiero settecentesco di Bentham,9 il movente dell’azione dell’individuo è l’utilità, che è associata alla felicità, definibile come la proprietà di qualsiasi “oggetto” adatta a produrre un beneficio ovvero “ciò che è utile” o “ciò che conviene”.
In sintesi, il consumatore razionalmente e consapevolmente soddisfa i suoi bisogni sulla base di definite priorità.
L’assunto della “sovranità del consumatore” di Hutt8 assegna al consumatore un ruolo importante che egli può esprimere influenzando il mercato attraverso le proprie preferenze. Si tratta del““potere supremo” [che potrebbe essere esercitato nel processo di scelta e che] “può essere acquisito dal consumatore”. In questo modo il consumatore riuscirebbe a determinare variazioni nei prezzi di mercato dei beni domandati e dunque, tendendo a orientare l’offerta o il sistema produttivo.
In analogia all’”uomo amministrativo”, descritto nella metà degli anni Cinquanta del Novecento dallo psicologo ed economista Herbert A. Simon,10 il consumatore è razionale nei limiti delle sue capacità cognitive di apprendimento e delle informazioni di cui dispone perché
[…] “è impossibile, per il comportamento di un individuo solo ed isolato, raggiungere un grado apprezzabile di razionalità. Infatti il numero delle alternative che egli deve affrontare è così grande, e le informazioni occorrentigli per valutarle sono tante, che è arduo pretendere anche solo un’approssimazione alla razionalità obiettiva” (p.141).
Il consumatore, dunque, pur tendendo principalmente a massimizzare l’utilità (la soddisfazione o l’interesse personale) da un bene economico, non risulta essere sempre nelle “condizioni” di poter definire un grado di razionalità apprezzabile nella sua dimensione psicologica o di poter essere capace a svincolare la propria decisione dai fenomeni sociali. Si rileva inoltre, come sosteneva già verso la metà degli anni Ottanta del Novecento l’economista Amartya Sen,11 che l’economia moderna è soggetta a critiche quando identifica il “comportamento effettivo” con il comportamento razionale, perché […] “non risulta necessariamente sensato assumere che le persone si comportino effettivamente nel modo razionale dell’ipotesi” (p.18).
Si è detto della razionalità, concettualizzata dagli economisti neoclassici del XIX secolo; nel contesto moderno l’homo oeconomicus perde la sua caratteristica di essere razionale, le sue preferenze non rientrano più in un sistema completo e ordinato e la massimizzazione dell’utilità è opinabile.
Genericamente parlando, ciò è l’effetto dello sviluppo economico e dell’evoluzione nelle relazioni “contrattuali” tra agenti economici. Scelta, decisione e consumo sono legati come già detto ai gusti piuttosto che alle preferenze, sono legati a mode o a contesti, sono più o meno espliciti o più o meno meditati a seconda del rischio percepito, possono essere posti anche in modo casuale a volte incerto o sotto un impulso a causa di molteplici fattori che sono determinanti dei bisogni stessi e dei comportamenti di risposta ai bisogni e che originano nella dimensione soggettiva e dall’ambiente sociale. Nell’analisi si possono individuare anche fattori come eventuali squilibri tra domanda e offerta (Keynes, 1936)12 e le cosiddette “asimmetrie informative” (Arrow, 1963; 13 Akerlof, 197014) ovvero, generalizzando, la possibilità che tra due attori economici in relazione tra loro uno abbia maggior informazioni dell’altro e possa quindi sfruttarle a proprio vantaggio.
Rispetto alle sue preferenze, che possiamo assumere come esigenze, l’homo oeconomicus finisce per non essere più al passo con i tempi a causa, ad esempio, dell’offerta di un bene limitata in termini di possibilità di scelta oppure di una supposta complessità del sistema di scelte come effetto di cause di varia natura. Limitazioni in termini di scelta, difficoltà soggettive nella valutazione o decisione d’impulso presa nell’indecisione a causa di possibili vincoli “invalicabili” o da “valicare” a tutti i costi, vincoli anche di natura non monetaria o altro ancora trasformano l’homo oeconomicus nella sua versione attuale di consumatore. Bauman7 ha offerto un’immagine interessante del consumatore, scrivendo che
[…] “da un lato, i consumatori sono rappresentati come soggetti agenti tutt’altro che sovrani, illusi da promesse fraudolente, adescati, sedotti, sospinti e manovrati da pressioni palesi o surrettizie, ma comunque estranee. Dall’altro, al consumatore si attribuiscono tutte le virtù per cui la modernità ama essere elogiata – razionalità, forte senso di autonomia, capacità di autodefinirsi e di autoaffermarsi in modo anche rude” (p.16).
Vi sono diversità tra consumatori, come è ovvio che sia, come vi sono tra persone. La natura dei molti fattori consci, inconsci, esogeni ed endogeni si riflette anche nei comportamenti di consumo. Si tratta di motivazioni (anche di carattere morale) che si autoalimentano nella visione di una logica sociale che governa i fenomeni di costume, di una logica orientata alla soddisfazione di bisogni (e non necessariamente di utilità né in senso economico) e di una logica puramente commerciale.
Ciò a maggior ragione, nel caso di un’ipotesi che ovviamente è tutta da dimostrare:
utilizzando il concetto della suddivisione dei beni proposto da Ernst Engel15 intorno alla metà del XIX secolo e il concetto del cosiddetto “effetto di reddito”,16 prendiamo in considerazione alcune specie ittiche “commerciali” come beni di lusso, che sono definibili anche beni normali, e altre specie ittiche poco utilizzate, qui intese come beni inferiori piuttosto che beni normali.
Occorre rimarcare che il prodotto della pesca così come il prodotto alimentare in genere, sebbene sia definibile come bene normale, tuttavia può anche essere definito bene di prima necessità. In quanto tale, il consumatore può farne a meno, esprimendo priorità verso un altro genere alimentare, non essendo il prodotto della pesca necessariamente o strettamente associato alla sussistenza alimentare. Nell’ipotesi necessariamente consideriamo le specie ittiche come distinte in beni di lusso e beni inferiori e non come beni normali.
Ebbene,
se si considerano beni di lusso alcune delle specie “commerciali” con prezzo di mercato relativamente elevato e ipoteticamente riferibili ad un “consumo vistoso”,
se si considerano come beni inferiori quelle specie poco utilizzate che hanno prezzi di mercato relativamente bassi,
allora:
- i) al crescere del reddito disponibile aumenta la quantità domandata delle specie commerciali (beni di lusso), mentre diminuisce quella delle seconde ovvero delle specie poco note (beni inferiori);
- ii) al decrescere del reddito disponibile aumenta la quantità domandata delle seconde ovvero delle specie poco note (beni inferiori), mentre diminuisce la quantità delle specie commerciali (beni di lusso).
L’aumento del reddito corrisponde generalmente a un mutamento di tipo qualitativo del consumo, ma si può ritenere che, a parità (o quasi) di caratteristiche organolettiche tra le varie specie ittiche, il concetto di qualità non sia riferibile esclusivamente a un comportamento di consumo per il quale l’attributo (caratteristica tangibile o intangibile) più importante del prodotto della pesca è la qualità in senso lato, quanto, piuttosto, sia riferibile ad altre variabili del contesto socio-economico.
Un’abitudine (o consuetudine) che si può notare rispetto al vincolo del reddito riferito alla domanda del consumatore è quella di quel consumatore, che pur avendo una elevata capacità di spesa, non è predisposto o disposto a pagare un prezzo di mercato genericamente “alto” (un prezzo associabile a un bene di lusso). Ciò accade probabilmente per un “sentimento di indifferenza” ovvero, nel caso del pescato, di scelta “neutra” tra una specie ittica e un’altra oppure per altra motivazione.
Tuttavia, studi e ricerche stanno rilevando che il consumatore attento o già orientato alla sostenibilità tende a rivelare la sua disponibilità a pagare un sovrapprezzo sul prezzo di mercato al fine di ottenere una prodotto della pesca che è compatibile con la sostenibilità.
Se in un’altra ipotesi, anch’essa tutta da verificare, utilizzassimo, seppure in modo estremamente superficiale, il concetto di insufficienza della domanda effettiva quale spiegazione scientifica della disoccupazione come in Malthus (v. Keynes)12 e lo considerassimo speculare a un concetto che astrattamente sostiene l’idea che “l’accumulazione di capitale tende a demotivare l’incentivo a consumare” o a “corrompere” il “consumo vistoso” come in Veblen,
allora:
iii) o saremmo portati a pensare che la motivazione del problema di cui si è accennato sopra non sia di “sentimento di indifferenza” (che riconduce per certi versi al concetto di bene sostituto di un altro) piuttosto sia dovuta ad una “dissimulata” appartenenza ad una classe sociale superiore o comunque distintiva, rispetto a quella che si vuole eventualmente “dimostrare” di aver “superato” e si disponga al contrario di un reddito non esattamente adeguato al ruolo.
- iv) o potremmo optare per una motivazione diametralmente opposta: in questo caso, si potrebbe definire un’ipotesi verosimile all’idea di Keynes,12 il quale sosteneva che tra i
[…] “principali moventi o obiettivi di carattere soggettivo che spingono gli individui ad astenersi dallo spendere i propri redditi” […] vi è quello attuato […] “per soddisfare una pura avarizia, ossia la repressione irragionevole ma insistente degli atti di spesa come tali” (pp.237-238).
Di fatto, però potrebbe trattarsi di una disponibilità a pagare molto limitata? Se fosse così, non si tratterebbe di un comportamento irragionevole.
è notorio che tra i prodotti alimentari, il prodotto della pesca è quello che risente maggiormente delle variazioni di reddito del consumatore, il quale può anche farne a meno, non essendo necessariamente o strettamente associato alla sussistenza alimentare. Tuttavia. Il depauperamento costante del valore associato alla perdita di biodiversità di specie (che deriva anche dal marcato utilizzo di poche specie ittiche sulla totalità disponibile) non sembra essere ritenuto un elemento importante a sostegno della stessa biodiversità. O ancora il problema che pone tale depauperamento lascia molti consumatori indifferenti, mentre la biodiversità non è considerata rilevante quale precondizione del consumo futuro della risorsa stessa (si tratta di una visione egoistica o miope?). La sua capacità di sostenere l’alimentazione, nonché l’economia delle generazioni future, è messo a rischio dal consumo qualitativamente e quantitativamente discutibile. Si tratta di un comportamento di consumo anche definibile come “spreco della risorsa” e che di fatto è un’inefficienza o uno “sciupio” per dirla ancora con Veblen,1 per il quale
[…] “vale la pena di [far] notare che il termine “sciupio” nel linguaggio della vita d’ogni giorno implica condanna. Tale sottinteso del senso comune è di per sé un’eco dell’istinto dell’efficienza”. La riprovazione popolare dello scialo arriva a dire che per essere in pace con se stesso l’uomo comune dev’essere capace di vedere in ogni sforzo e piacere umano un aumento di vita e di benessere in generale” (pp.78-79).
Dunque. Si può ragionevolmente pensare che il consumatore agisca di consumo per lo più in modo “meccanico” e inconsapevole? Probabilmente il consumatore è per lo più indotto al consumo dei beni disponibili nella “società dei consumatori”, piuttosto che mosso al consumo per una propria necessità di manifestare opulenza, ostentazione o superiorità. Inoltre, non è da sottovalutare la disponibilità del consumatore a orientarsi lungo la traiettoria del consumo sostenibile17 dei prodotti della pesca.
GIORGIO CORATI
Che bella lezione di sociologia classica ed applicata!
Grazie, ti leggo sempre con molto interesse.
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Grazie! Un’esposizione dettagliata ed esaustiva che sottolinea passione per la ricerca e ti pone come riferimento colto e necessario per chi vive il mare, la storia, l’economia… quindi ognuno di noi.
Giuseppe Vota
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