“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – DA QUI PASSÒ LA SUA VITA

di MICHELE CAPITANI

“La strada è l’osso,

le deviazioni la polpa”

  Un pomeriggio di piena estate, sono uscito dall’Aurelia e vado percorrendo una provinciale che s’inoltra nella profonda e solitaria campagna… Dopo una ventina di chilometri imbocco una stradicciola, al fondo della quale arrivo: sembra un cognome ma esiste davvero la località Cinelli, nella sperduta e spopolata Maremma viterbese, che è vasta area di sparuti paeselli.

  Qui, pochissime case sparse (tra cui l’ovvio agriturismo): questa non è nemmeno una frazione, bensì a malapena un “popolo” o una pieve, si sarebbe detto secoli addietro. Non so immaginare luogo più periferico di questo lieve nulla di quattro case e tutta campagna

  Ho imboccato la deviazione per questo luogo poiché una voce dalla memoria mi diceva che dovevo arrivarci.

  Nel silenzio della campagna estiva mi riempie una sensazione di vertiginosa sperdutezza, una lontananza da tutto, che non è quella che provi in vetta alle montagne o in fondo al deserto: qui sono venuto a cercare un silenzio pieno, quel silenzio che ti parla di qualcosa o qualcuno che resta non deteriorato nella memoria, e allora, almeno per un po’, il tempo, come nell’infanzia, torna a sembrare interminabile.

  Ci sono venuto apposta nel silenzio di questo luogo della terra, perché da quaggiù passò una storia, la grandiosa storia di una ragazza, una nostra ex-alunna, un vero e formidabile “romanzo non scritto”. Già per essere capitata a scuola in questa frazione di campagna, va da sé che quella di Viviana non può essere una storia come tutte le altre…

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  Noi insegnanti del Serale la conoscemmo quando era ospite di un centro di accoglienza: per gran parte, i ragazzi di quel centro erano adolescenti tossicodipendenti, ma lei risiedeva in un’ala speciale, con altre come lei, in quanto ragazza madre, trentenne, con due bambini; aveva comunque smesso di bucarsi da alcuni anni.

  Le occorreva la licenza media, e andavamo lì noi a far lezione, alcune ore a settimana (c’era anche Renata, che però doveva sostenere la maturità), anche perché Viviana non poteva mettere il naso al di fuori dato che c’era chi la aspettava per aggredirla, forse gambizzarla, probabilmente un parente del marito, o chi per lui.

  Viviana era una spettacolosa cantora che mi raccontava di mondi geograficamente prossimi eppure in verità impensabilmente lontani, ed episodi e individui torvi o favolosi: Viviana era una sinti, cioè una zingara ma stanziale. Molto grossolanamente, ci sono i rom che sono i nomadi forse più diffusi in Italia, e i sinti, i quali da generazioni non sono più nomadi, anzi italiani e dai cognomi italianissimi, e che di zingaro si direbbe abbiano ormai davvero poco. Lei aveva carnagione e capelli che più gitani non ci si immagina, ma la sua romanità si sentiva appena apriva bocca e ne usciva una parlata da vecchio Trastevere, come fonetica e intonazione, seppure non priva d’una certa eleganza per nulla affettata, di sorveglianza sui congiuntivi, e di una attenzione all’italiano nel senso più ampio del termine, che faceva sospettare schiatte o frequentazioni non solo borgatare o delinquenziali. E difatti tra i suoi parenti (quantitativamente non censibili) figurava una zia che aveva lavorato a servizio a casa di Totò; sì, proprio lui: il barone De Curtis. Non faticai a crederci, e per diverse ragioni: intanto perché motivi per “spara’ fregnacce” Viviana non ne aveva, con la vita che aveva trascorso; inoltre, si era spesso dimostrata persona “de côre” con noi, che lì naturalmente eravamo un po’ insegnanti e un po’ (o un po’ molto) confidenti. Inoltre ce ne narrò di svariate e di vere e di eclatanti, e dunque perché mai su quella zia avrebbe dovuto mentire?

  Infine, è bello ricordare che una grande attenzione alla forma anche scritta lei ce l’aveva, e se la teneva stretta, e ci teneva anche per i suoi figli: la grafia di quell’alunna era davvero una calli-grafia, era bella, femminile, fluente ma controllata; a parte qualcosa su lessico e punteggiatura, non durai mai alcuna fatica a comprendere i suoi temi, che anzi erano argomentati e piacevoli.

  Com’è tipico di ogni alunno adulto, anche lei si faceva molti più problemi del necessario, aveva cioè una certa disistima di sé di fronte all’insegnamento, e propendeva alla soggezione verso di esso, cosa che negli adulti è fenomeno impressionante per quanto poco, in genere, è giustificato; e sì che di stima in sé doveva averne man mano riacquistata parecchia, non fosse altro che per essere sopravvissuta all’entrata in comunità, ove si affronta la selva dei rischi che non è detto siano meno feroci dei rischi della vita deviata: lasciare i soldi facili, ed esporsi alle critiche, ma soprattutto all’autocritica e ai sensi di colpa, implacabili, sempre in agguato giorno e notte, e altre consimili gigantesche amenità…

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  Nell’infanzia era stata palleggiata tra Roma e certi zii e zie, una delle quali, quella che stava a servizio dai De Curtis, la picchiava se non utilizzava, appunto, una forma adeguata nell’esprimersi: segnatamente, se non ricordo male, quando non dava del “lei” e qualcos’altro del genere. Ci diceva poi di parenti dai mestieri curiosi e dagli strambi andirivieni tra le periferie e chissà dove, e di quando poi andò a stare da certi altri zii appunto a Cinelli, qui dove ora sto, e in cui frequentò un anno di scuola elementare.

  Quanto ci abbiamo riso! Io che insegno da molti anni mai avevo nemmeno sentito che qui nella sperduta campagna ci fosse una scuola. Eppure lei ne conservava un bel ricordo: di uccellini, di sole, di giochi all’aperto.

  Di che altro dovrebbe nutrirsi una bimba?

  Da grande però entrò in contatto con “giri” criminali finché si sposò con uno della malavita romana, ma di quelli tosti; lei ci prendeva un sacco di botte, e si “facevano” entrambi; insomma ‘na vita de mmerda, e lei ne subì d’ogni sorta: alle mie colleghe, con cui chiaramente riusciva ad andare oltre nella confidenza, ne aveva dette tante e tali che esse furono solo capaci di un gesto e una faccia per suggerirmi che si sfiorava il diabolico.

  Droga, violenza, omicidi, galera, soldi luridi, paura, minacce, ma poi i figli, con la gioia e con l’enorme sovrappiù di paura, però stavolta paura per loro. Una vita periclitante, troppo, insopportabilmente troppo “per i miei cuccioli”. Non rammento come lasciò il tizio, cioè se qualcosa fece passare il segno, se avvenne qualcosa di risolutivo, magari quella volta che lui, in una delle sue crisi, minacciò di sbattere uno dei ragazzini per terra. O forse, più facilmente, una delle volte che era finito ar gabbio e lei riuscì in un attimo di impavida lucidità a scappare e lasciare certi guai, per addossarsi un’altra vita più costruttiva.

  Con poche raminghe masserizie era scappata, per finire infine lì alla comunità, dove si iscrisse a scuola con noi.

***

  In una stanza in alto, nelle mattine silenziose di tutto un inverno umido, e poi col sole asciutto e dispiegato della primavera a finestre aperte, assieme a noi su quel tavolino lei scriveva i temi, e gli esercizi di matematica, e quelli di inglese, e ci raccontava la sua vita.

  La sua vita la scoprivamo via via sempre più intersecata a vicende incredibili, grandi passioni e terrificanti violenze, e personaggi che erano anch’essi dei veri romanzi-non-scritti: parlare con lei, leggere i suoi temi, era come entrare in una biblioteca senza sapere mai che tipo di storia avresti avuto in sorte di leggere.

  Certo, non erano sempre cose negative: proprio come il sottoscritto, anche lei amava Pinocchio. Non soltanto si stupiva di quanto le piaceva («è meraviglioso, travolgente, ti entra nell’animo») ma si gustava l’effetto che faceva sui figli, 4 e 5 anni, ai quali, da quando aveva iniziato a leggerlo prima della nanna, non era poi così difficile far mettere il pigiama. Per tutti e tre, il brano più spassoso era, sempre e fino alle lacrime, il saluto del pulcino a Pinocchio: «Mi figuro la faccia: e se fosse la stessa di mio figlio? Sto per dire una bugia, perché se fosse stata quella dei miei bambini mi sarei messa a piangere: immaginate una povera creatura che nella disperazione finalmente trova un uovo, e quest’ultimo nell’aprirsi gli dice “Arrivederci e tanti saluti a casa” (semplificando), voi non cerchereste di farvi a pezzi o di vendervi l’anima pur di far mangiare i vostri bambini? Ed è qui che Pinocchio mi lascia di stucco…» dimostrando di aver capito in pieno il cuore della ricca ma ambigua comicità delle Avventure del burattino.

  A proposito di violenza e morte, un giorno si seppe che il marito era crepato (fu la prima volta nella mia vita in cui gioii per la morte d’una persona).

  Agli esami, infine, scegliendo la traccia che chiedeva di parlare di una persona cara, scrisse questo tema:

«Nell’ultimo periodo dell’anno ho conosciuto Daniela, entrata nel centro dove risiedo una settimana dopo di me; presa dai miei problemi, non riuscivo a provare emozioni per la sua storia, anzi ero piena di giudizi nei suoi confronti e non riuscivo ad avere un rapporto con lei; per me, non era sincera.

  Daniela soffriva perché con sé non aveva Giovanni e Flavio, i suoi figli, che dieci mesi prima le avevano tolto.

  Insieme abbiamo iniziato il nostro cammino in comunità, con tanti screzi, tanti malintesi, giudizi, e dubbi soprattutto, che covavo nei suoi confronti.

  Arrivò anche il Natale, con precisione la vigilia; in questo atteso giorno Daniela aspettava una risposta  dal giudice, inerente alla situazione dei bambini, ma la risposta fu negativa, ed è proprio quel ventiquattro di dicembre che ho iniziato a provare interesse per la sofferenza di una madre che, per colpa di una ineducazione (sic) a crescere i propri figli, li aveva persi.

  Il fatto di non credere in lei era legato alla mia situazione, perché io non credevo in me, perciò vedevo tutto nero; quando ho approfondito il lavoro su me stessa ho iniziato a vedere le cose in modo diverso, finendo per voler bene anche a lei.

  Di tempo n’è passato tanto, è ritornata l’estate, e una cosa che non ho ancora detto è che Dany ha partorito un terzo figlio, che naturalmente per nulla al mondo poteva compensare il vuoto degli altri due, ma forse il Signore Dio ha letto nel suo cuore che di voglia di cambiare ne aveva proprio tanta, e così al ritorno dalle vacanze, passando dal giardino della nostra residenza, l’ho vista che dondolava un bimbo sull’altalena e un altro che giocava a pallone. “Santo Dio!” mi sono detta, erano i suoi figli; il cuore mi scoppiò di gioia e gli occhi di lacrime, e tutto questo per me è un nuovo bagaglio da portare per sempre nel cuore, e la riflessione è questa: nella vita non si devono mai giudicare le persone e sicuramente anch’io potevo perdere i miei figli. Mi è andata bene; ora più che mai non rischierò di dovermi privare di Vincenzo e Stefano per niente al mondo»

***

  Si fa tardi, è ora di lasciarmi alle spalle il fondo della campagna, e riavviarmi verso la strada principale… e intanto penso che la storia di Viviana è solo una delle infinite che sono state tracciate sul mondo e di cui sembra che non resti molto, però i luoghi, perfino quelli sperduti, a quanto pare possono servire a far rinascere la memoria delle nostre storie.

  Il vero viaggiatore queste cose le sa.

  Quando, in quel tempo, lei mi accennava a questo luogo, ci guardavamo quasi sbalorditi, riflettendo in silenzio sulla meraviglia che ci invade quando ci si guarda indietro e si rivede sé stessi laggiù, come in una vita precedente o in una scena solo sognata, in luoghi improbabili dove vivemmo per un breve periodo, quasi per un’erronea digressione della vita, luoghi che forse esistono ancora ma che paiono smisuratamente remoti.

  Eppure ora ci sto, in questo punto del mondo ove passò la grande storia di quella ragazza.

  E lei, in questo punto del mondo, fu felice.

  Come spero che riesca ad essere ancora adesso, dovunque si trovi.

MICHELE CAPITANI

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