“PESCI, PESCATORI, PESCIVENDOLI E CONSUMATORI” DI GIORGIO CORATI – Evoluzione storica del fermo biologico lungo la costa mediterranea dello Stato pontificio
di GIORGIO CORATI ♦
Nell’articolo dal titolo “Il fermo biologico nella pesca a Civitavecchia” ho affrontato il tema dell’“interruzione temporanea obbligatoria” dell’attività di pesca delle imbarcazioni che operano nel Compartimento marittimo di Civitavecchia con l’utilizzo della “rete a strascico a divergenti”. Ho affrontato concetti riferibili al “fermo”, ho elencato sia delle specie ittiche che possono essere catturate anche con altre tecniche di pesca (palangaro e tramaglio) sia alcune specie che in quel periodo di interruzione generalmente sono in fase di riproduzione ciascuna in funzione del proprio ciclo di vita naturale.
In questo articolo propongo un sintetico approfondimento di vicende storiche associate alla regolamentazione dell’attività di pesca lungo la costa mediterranea dello Stato pontificio. Si tratta della regolamentazione attuata con Editti, Leggi, Notificazioni e Circolari da parte dei governi pontifici inerenti l’attività di pesca delle paranze. Le vicende che seguono consentono la comprensione delle motivazioni addotte al divieto di pesca delle paranze quale annoso problema nello Stato pontificio e riconducono al concetto attuale di fermo biologico. Si tratta di un’evoluzione storica del “fermo” molto interessante dal punto di vista della storia socio-economica del litorale laziale civitavecchiese. Le informazioni e le annotazioni storiche da cui attinge l’articolo sono tratte dal libro della UILA Pesca dal titolo Una ricchezza dalla grande storia. La Pesca a Civitavecchia (2019),1 curato dallo storico civitavecchiese Enrico Ciancarini. Ciancarini riporta un’interessantissima mole di fatti anche rispetto all’evoluzione storica della pesca e delle flottiglie pescherecce presenti lungo la costa marittima pontificia del Mediterraneo da Palo-Ladispoli a Montalto di Castro.
L’attività di pesca a Civitavecchia è regolata per la prima volta dallo Statuto comunale del 1451, con l’articolo cinque del Libro Quarto De Extraordinarii, stabilendo che ciascun civitavecchiese ha libertà di pescare con qualsiasi mezzo sia in mare sia nei fiumi, purché non inquini le acque in alcun modo.
Nel corso dei secoli, la pesca lungo il litorale pontificio del Mediterraneo sarà caratterizzata da forti interessi, da preoccupazioni a livello di governo e da problemi di gestione che si manifesteranno contestualmente alla nascita e all’evoluzione in senso storico della flottiglia peschereccia civitavecchiese. Con l’evoluzione delle tecniche di pesca, come quella che oggi è definita “pesca a strascico”, e con l’utilizzo dell’innovativa vela latina, che favorirà spostamenti in mare più veloci, i pescatori si avventureranno sempre più verso il largo e al di fuori dei propri ambiti geografici di riferimento, e si adegueranno alle mutate condizioni sperimentando innovative tecniche e strategie di pesca alla ricerca di bordate maggiormente redditizie nelle quantità prelevate dal mare. Ciò desterà allarme e preoccupazione in seno ai governi pontifici al punto che, nel 1747, il possibile depauperamento delle proprie risorse ittiche sarà motivo dell’emanazione di un Editto con il quale saranno decretate forti pene pecuniarie e il carcere, nonché la confisca dei legni (barche) per quei pescatori che opereranno la pesca “di Conserva” e la pesca “a Coppia”. Si trattava di vietare al pesca che utilizzava reti colleganti due o più legni assieme. I legni, conosciuti con i nomi di paranze e di paranzelle, che verranno successivamente mirabilmente descritte nel suo Vocabolario dall’illustre civitavecchiese Padre Alberto Guglielmotti, verosimilmente erano imbarcazioni antesignane di quelle che oggigiorno operano in mare utilizzando la “rete a strascico”. Le sanzioni erano concrete e “pesanti” e stabilite nell’intenzione di “arginare” la smodata, sistematica e incessante attività di cattura di pesci e di uova di pesce da parte sia di pescatori locali sia di pescatori “esteri”. Questi ultimi in particolare, che costituivano al contempo sia una minaccia sia una “risorsa”, imperversavano nel mare della costa tirrenica pontificia durante tutto l’anno. Decenni dopo, nel 1778, una Legge proibirà ai paranzellari la pesca per il periodo “tra le due Croci”, cioè per tutto l’arco di tempo “dalla Pasqua di Resurrezione fino alla Croce di settembre” ovvero vieterà ai paranzellari la pesca dal 3 di maggio al 14 di settembre. Un periodo molto lungo che, come si vedrà, sarà anche superato nella durata. Il riferimento a quella Legge è negli Atti della Pontificia Accademia de’ Nuovi Lincei (1866-1867). Gli Atti riportano che nel 1867 l’”Accademia” formò una commissione di indagine sul modo di pescare delle paranze e sugli effetti prodotti sul novellame dei pesci. Composta tra gli altri dagli illustri civitavecchiesi Padre Alberto Guglielmotti e Alessandro Cialdi, la commissione convenne che, come già compreso nel 1778, la riproduzione della fauna marina avviene principalmente alla fine di marzo e dunque la pesca, sosterranno i commissari, dovrebbe essere interrotta nel periodo dal 3 di maggio al 14 di settembre.
Sebbene lungo la costa mediterranea dello Stato pontificio l’attività dei pescatori “forastieri” (principalmente “Napolitani e Toscani”) fosse mal tollerata, il loro pescato era ritenuto tuttavia “prezioso”, perché contribuiva all’approvvigionamento di pesce fresco sul mercato di Roma (una necessità sempre fortemente sentita). Una circostanza in particolare spiega la tolleranza del governo pontificio nei confronti dei pescatori “esteri” e cioè la mancanza di una marineria locale ovvero la disorganizzazione operativa dei pescatori locali, i quali solo in un momento successivo saranno riuniti sotto la bandiera della marineria nazionale pontificia, mentre le flottiglie “estere” in generale erano meglio organizzate e equipaggiate.
In tale contesto e nel corso del tempo, si alternarono periodi di aspra rivalità a periodi di normale conflittualità sia tra gli stessi pescatori locali sia anche tra pescatori della marineria nazionale pontificia e pescatori delle flottiglie “estere”. La conflittualità ricorrerà anche tra pescatori (indistinti) e governo pontificio. Il governo, nella sua costante azione di regolamentazione della pesca, tenderà a gestire il pesce come risorsa naturale patrimonio dello Stato. In questi termini, il “fermo” dei governi pontifici è associabile all’attuale fermo biologico. Inoltre, in questa visione, pur producendo ricchezza per lo Stato, la risorsa sarà gestita in funzione del mantenimento della sua disponibilità nel luogo e nel tempo. Le motivazioni per condurre azioni di tutela hanno, dunque, spesse volte interessato sia direttamente la sostenibilità dell’azione di cattura sia la necessità di reprimere “abusi” come, ad esempio, la pratica del lancio di oggetti esplosivi in mare, utilizzata al solo fine di accelerare la modalità di cattura in termini di quantità di pescato. Il divieto, a sua volta, ha fatto emergere la necessità della costituzione di una marineria pontifica nazionale che risolvesse anche altri problemi di ordine economico e sociale a Civitavecchia. Una Notificazione del 1818 rimarca l’inadeguatezza della flottiglia peschereccia locale e si sostanzia in provvedimenti che saranno probabilmente motivi per i quali, nel 1827, papa Leone XII avvierà, a spese dello Stato, la costruzione di 50 paranze da pesca e di 50 manaidi che costituiranno la marineria pontificia nazionale. Nella Notificazione, il cardinale camerlengo Bartolomeo Pacca, conoscitore della realtà locale civitavecchiese, ordina il divieto di pesca alle paranzelle “estere” nel periodo dal 3 di maggio al 14 di settembre – è lo stesso periodo “tra le due Croci” che ricorre -, rimarcando la proibizione della pesca durante i mesi estivi. La Notificazione, che richiama il Moto Proprio di Pio VII del 1801, muove in base alla constatazione che l’attività di pesca interdetta tenda alla distruzione delle specie ittiche. Riporta, altresì, le regole per armare una paranzella battente bandiera pontificia. In generale, la consistenza della flottiglia peschereccia pontificia era inadeguata al fabbisogno, ma il problema più pressante era la necessità di rifornire di pesce fresco il mercato di Roma, in special modo durante i mesi in cui la pesca risultava proficua. Lo sfruttamento intensivo, in estrema sintesi, rischiava di compromettere anche il commercio ittico in tutto lo Stato pontificio.
Dieci anni dopo, nel 1828, i concessionari (“paroni”) o proprietari di paranze di Civitavecchia torneranno a richiedere il divieto alla pesca a paranza per i pescatori “esteri” e lo faranno anche tramite il marchese Vincenzo Calabrini, intimo amico di papa Leone XII che, da pontefice in carica, già l’anno prima (nel 1827) era tornato sul tema spinoso della scarsità di legni (imbarcazioni) da pesca battenti bandiera “nazionale”. Il Papa, infatti, aveva già avviato nel 1827 la costruzione di 50 paranze da pesca e di 50 manaidi a spese dello Stato da cedere ai “paroni” contro pagamenti facilitati nell’ammontare, purché venissero utilizzate per costituire la marineria pontificia nazionale da tempo “attesa”. La costruzione delle manaidi è un dato interessante, perché si tratta di un tipo di barca, che prende il nome dalla rete che utilizza, il cui obiettivo di pesca sono acciughe o alici e sardine ovvero specie ittiche che si rivelano essere alternative di altre durante il divieto delle paranze. Oggigiorno la tecnica di cattura utilizzata per quelle specie è principalmente il cianciolo.
Con il progetto di Leone XII, il governo pontificio tenterà di contenere il predominio della pesca degli “esteri” e la creazione di una flottiglia che batte bandiera pontificia – ciò sarà sempre più una necessità impellente – e tenderà, dunque, a limitare al massimo la pesca ai “forastieri”. Il progetto sarà utile anche nel tentativo di riavviare l’economia civitavecchiese, nella considerazione che la pesca è, come scriverà il marchese Calabrini nel 1829, un’attività “che è il germe di molte altre”. Tuttavia, non mancheranno momenti critici. Una delle preoccupazioni maggiori dei concessionari delle paranze sarà la continua concorrenza “estera”, al punto da chiedere alla Reverenda Camera Apostolica sia protezione sia incoraggiamento per farvi fronte. Concretamente chiederanno di poter vietare la pesca nei mesi di settembre e ottobre alle barche che non battono bandiera pontificia e sosterranno la loro richiesta, ammonendo che gli “esteri” impoveriscono le entrate del governo. Il marchese Calabrini, già incaricato da papa Leone XII di adoperarsi per incrementare la flotta peschereccia di Civitavecchia, sostenne le richieste dei concessionari e sollecitò l’autorità camerale a ristabilire il divieto di pesca per gli “esteri” e al contempo a protrarlo fino al mese di novembre ovvero a ridefinirlo “nell’intervallo dalla Croce di maggio fino ai Morti”. Si tratterà di allungare il periodo già noto “fra le due Croci”, cioè “dalla Pasqua di Resurrezione fino alla Croce di settembre”, “fino ai Morti”. Il Marchese sosterrà, inoltre, che, nonostante il divieto, il mercato di Roma potrà certamente essere rifornito di pesce senza problema alcuno, specialmente durante i mesi in cui la pesca è abbondante.
L’illustre civitavecchiese Pietro Manzi, amico del Calabrini, esprimendo un’opinione in merito all’interruzione della pesca, suggerirà di consentirla soltanto durante i mesi autunnali, sostenendo che in altri luoghi la pesca è vietata proprio in quel periodo.
La necessità di impedire l’attività di pesca in alcuni periodi dell’anno e, soprattutto, di impedirla ai pescatori non residenti, è stata un necessario ricorso o è divenuta una sorta di consuetudine intesa a regolare il diritto dell’esercizio della pesca e a mantenere “adeguata” abbondanza di pesce in mare, impedendo a una modalità di pesca in particolare la distruzione sia del fregolo sia delle uova.
Nel libro dal titolo La piccola pesca e le paranzelle del 1866 lo studioso livornese Pietro Coccoluto Ferrigni segnalerà che nello Stato pontificio vigeva il divieto di pesca nei mesi di maggio, giugno e luglio, così come stabilito nel Granducato di Toscana e nel Regno delle Due Sicilie. Inoltre, nel 1871, Targioni Tozzetti in La pesca in Italia riporterà dei documenti interessanti tra i quali la Circolare N. 6244 del Ministero del commercio e dei Lavori pubblici del 1852 (datata 1853) che richiama in vigore una precedente Circolare, datata 1821, la N. 93657 della Segreteria di Stato. In questo documento, che riporta una data di qualche anno antecedente al progetto di papa Leone XII, si rinnova l’annosa questione relativa alla “pesca a strascico” rispetto alla quale la Circolare del 1852 sostiene l’abolizione della pesca delle paranze durante la stagione estiva, perché le reti, radendo il fondale nei pressi della riva, catturano una gran quantità di piccoli individui di pesci di varie specie, “distruggendo così le ovaie e recando positivo danno alla crescenza dei pesci”.
Nel 1867, i proprietari di paranze pontificie della costa mediterranea torneranno nuovamente a chiedere l’istituzione del divieto di pescare con le paranze “estere” dal 3 maggio al 14 di settembre. La richiesta sarà accolta dal governo. La Pontificia Accademia de’ Nuovi Lincei sarà incaricata di formare una commissione per esprimersi in merito al modo di pescare delle paranze, verificando, per l’appunto, “se il modo di pescare delle paranze” [così come era uso a quel tempo] “distrugga in realtà la prolificazione del pesce novello” e, inoltre, di proporre un consiglio in merito. Composta da Padre Alberto Guglielmotti e Alessandro Cialdi e dai professori Vincenzo Diorio e Giuseppe Ponzi, la commissione incontratasi a Civitavecchia consigliò l’accoglimento della richiesta, sostenendola con il richiamo in vigore dell’editto del 1778 che proibiva a tutti i paranzellari la pesca “dalla Pasqua di Resurrezione fino alla Croce di settembre”. Fu fermo il convincimento della commissione di consentire l’operatività di quella pesca a una distanza dalla riva di almeno “cinquanta passi d’acqua” (81 mt.), perché la pesca di paranza, secondo la commissione, arrecava gravi danni alla riproduzione nei bassi fondali, vicino alle spiagge.
In merito alla riproduzione del pesce i commissari scrivono:
“a tutti è noto come moltissimi fra i pesci si riproducano per ova le quali si lasciano dalle generanti, senza precedente accoppiamento, e che per la specifica loro gravità vanno a posarsi sul fondo del mare: là talune volte le genitrici preparano quasi un letticciuolo di muschi per lo adagiamento dei nascituri, e trasportano delle piccole breccie, o frantumi d’ogni maniera, per innalzare un riparo contro alle correnti che potrebbero disturbare l’opera della natura mentre lavora per lo sviluppo dei germi. I maschi lasciano pure, nelle specie ovipare, la loro semenza nelle onde; ed è la legge fisica del peso specialmente che guida l’umor fecondante sulle ova le quali, come abbiam detto, toccarono già il fondo; ed ivi i spermatozoidi viventi compiono la fecondazione delle ovicina; dalle quali dopo alcune settimane d’incubazione veggonsi uscire i pesciolini, con sotto al ventre la vescichetta vitellina. Riassorbita questa, il pesce è ancor fanciullo e chiamasi tecnicamente allevime, mentre fu prima germe”.
Il divieto di pesca con le paranze non pregiudicava completamente la disponibilità di pesce fresco, perché il mercato poteva essere rifornito con il pescato di altri tipi di barche come, ad esempio, le sciabiche [dette barche terriere] che prendono nome dalla rete sciabica utilizzata, o dal pescato raccolto con altri tipi di reti e barche come il tramaglio, i palamiti e le lenzare “gittate dai palacrisi e dalle manaidi”. Il mercato poteva essere rifornito con sarde e alici [raccolte dalle manaidi come già riportato] e altro pesce migratorio che si avvicinava alla costa proprio durante il periodo di “fermo”.
Come riportato negli eventi storici, lo sfruttamento intensivo delle risorse ittiche da parte dei pescatori delle paranze, che metteva a rischio il rifornimento di pesce fresco destinato al consumo del mercato di Roma e in generale il commercio ittico in tutto lo Stato pontificio, produrrà quale effetto la regola del fermo biologico sulle coste tirreniche del Lazio. La regola si confermerà quale “argine” alla pesca eccessiva [smodata] e come sostegno all’accrescimento del pesce in mare, impedendo di fatto la distruzione del fregolo e delle uova a vantaggio delle varie specie ittiche che, durante il periodo in cui vige il divieto, vivono la propria fase di riproduzione naturale.
GIORGIO CORATI
Bibliografia