“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – RESPONSABILITÀ? DIFFICILE A TROVARSI…..( EPPURE CI SONO)
di STEFANO CERVARELLI ♦
Un fallimento tanto fragoroso, e certamente inatteso, come la seconda esclusione consecutiva dal Mondiale, per giunta ad opera di una squadra non certo irresistibile come la Macedonia del Nord , non è certo il risultato di una sola causa, le situazioni che hanno contribuito a questa disfatta (sportiva) consentono qualsiasi spiegazione ed obiezione rendendo quindi più intricata la strada di un’analisi scevra appunto di episodi contingenti.
Facilmente si può dire: ”Se Jorginho avesse realizzato almeno uno dei due rigori avuti a disposizione contro la Svizzera……” ma più dei rigori mancati, che tutti possono sbagliare, l’immagine simbolo della cocente sconfitta che ci è costata l’eliminazione è quando proprio lui
si ferma invocando un inesistente fallo di mano di Trajkovski (quello che ha fatto il gol vincente della Macedonia), invece di contrastarlo nell’azione decisiva; una protesta davvero puerile: cercare l’aiutino arbitrale per mascherare un deficit di risorse tecnico e tattiche, che nessun campione si dovrebbe permettere, tanto più se si trova tra quelli designati alla vittoria del pallone d’oro.
Altri episodi nel corso del cammino verso i Mondiali si sono verificati, ma l’analisi di questi sarebbe forviante, perché presi singolarmente potrebbero indurre a pensare: “Ma tanto.. non sarebbe cambiato niente” oppure pensarla esattamente al contrario, come nei casi raccontati sopra.
Una prima differenza, a parer mio, tra Wembley e Palermo è stata la diversa combattività messa in campo dagli azzurri nelle due partite coraggio mostrato a Londra, ha lasciato il posto nel capoluogo siciliano ad una quasi scontata rassegnazione al ruolo di vittima sacrificale…
A Mancini si può imputare l’aver avuto completa fiducia nei suoi ragazzi quando qualche segnale premonitore doveva indurlo a portare qualche cambiamento in quella magnifica orchestra che era stata fino allora la Nazionale italiana. Sopravvalutazione? Senso di riconoscenza e gratitudine in chi si era battuto furiosamente per conquistare il titolo europeo? Senso di appagamento inconscio? Certo è che sulla squadra in qualche ruolo bisognava metterci mano.
Evidentemente poi nel non modificare nulla e dare al quel gruppo l’ulteriore soddisfazione di arrivare ai Mondiali un ruolo importante l’ha giocato, siamo sinceri, la consapevolezza che alla fine, l’ultimo ostacolo verso il Qatar sarebbe stato facilmente superato, nonostante tutto: come si fa a non vincere, a fare un goal alla Macedonia del Nord?
Invece… invece.
Il segnale d’allarme che deve risuonare più forte nel mondo calcistico non è tanto l’eliminazione con la modesta Macedonia del Nord, ma il fatto che Mancini abbia dovuto scegliere, come ultima mossa, un giocatore trentenne all’esordio in Nazionale come Joan Pedro, questo dice che talenti non ce ne sono più. L’attuale, ennesima Nazionale del rilancio ha come centravanti quello di una squadra classificatasi al nono posto nel campionato. Perché?
Risposta sbrigativa, non me ne vogliate, ma non ne vedo altre, può essere questa: è perché le squadre che sono nella parte alta della classifica si nutrono di attaccanti, in particolare centravanti stranieri. La Nazionale ha appena 60, forse 70, giocatori eleggibili in serie A, il campionato è intasato di stranieri mediocri che, grazie al Decreto Crescita costano il 25% meno di un italiano.
La Federcalcio, da anni, assiste silente al problema delle squadre primavera che sono infarcite da giocatori provenienti dall’estero, ma mancano interventi risolutivi soprattutto dalla Lega Calcio perché questa, alla fine, è nata essenzialmente per curare gli interessi dei club, cosa questa che non manca di creare a volte attrito con la Federcalcio.
Perché avviene questo? Il motivo, ancora una volta, è economico.
A dir la verità però non è proprio esatto dire che in Italia talenti non crescono più, è che si è smesso di coltivarli, ricorrendo, appunto, con maggior frequenza alle…..”serre” straniere.
Formare un ragazzo costa tempo e soldi ed è un investimento destinato a dare risultati a medio e lungo termine; nel frattempo devi investire nello scouting affinché sappia individuare presto e bene i futuri campioni; ma sapete che oggi le società prendono i ragazzi a 11 anni? Quindi devono garantire loro buoni allenatori, strutture adeguate, percorsi scolastici per almeno sette-otto anni, sperando che poi il giocatore possa tornare utile (leggi plusvalenze); si tratta quindi di investimenti consistenti di tempo denaro e risorse umane.
Ecco che allora si ricorre a prendere giovani giocatori stranieri, rimasti senza contratto nella loro patria (e quindi non proprio prime scelte) liberi, dai 16 anni, di andare dove vogliono; l’Europa, infatti, garantisce la circolazione dei giocatori- con contratto giovanile- fino ai 18 anni.
A quel punto i club hanno già, per usare un’espressione brutta, il prodotto bello e pronto e l’unica spesa da sostenere è quella del vitto e alloggio. Ovviamente poi bisogna farli giocare e non solo, purtroppo, per logici motivi tecnici, ma perché avviene quanto sto per dire.
Gli agenti usano i giocatori come pedine utili a operazioni più grandi ed il dialogo, presso a poco, è questo: ”Caro Presidente vuoi un centravanti da soli 10 milioni che può andar bene per la prima squadra? Bene, però devi prendere anche tre ragazzini per la primavera (parliamo di giocatori stranieri) i club accettano con la speranza che quei tre ragazzini, si “trasformino” in plusvalenze.
Nella categoria under 17 oggi troviamo squadre che hanno quattro, e anche più, ragazzini presi all’estero. Nelle categoria primavera si tocca il 33%.
E’ facile quindi comprendere come trovino sempre meno spazio i calciatori di formazione italiana proprio in quella fascia d’età che è quella chiave della crescita.
Un dirigente sportivo di vertice ha detto: ”dal 2017 ho proposto più volte alla FIGC di inserire l’obbligo in serie A e in Coppa Italia di far scendere in campo due under 23 con una formazione di almeno sei anni avuta nel settore giovanile”; la richiesta purtroppo è rimasta inascoltata.
Si pensava di ovviare a questo con la creazione delle seconde squadre, come avviene in altri campionati, proprio per dare spazio a chi gioca di meno, soltanto la Juventus ha aderito a questa richiesta e attualmente ha una squadra che milita nel campionato di serie C.
C è poi il discorso delle scuole calcio.
Nel 2014, anno in cui partecipammo al nostro ultimo Mondiale, i ragazzi tesserati con il settore giovanile scolastico erano all’incirca 700.000; prima della pandemia calarono di 45.000 unità.
La situazione paradossale (che in certo senso spiega anche il calo) è che la loro formazione, per la maggior parte, a carico delle famiglie perché le scuole calcio sono diventate, a tutti gli effetti, un business; le quote d’iscrizione raggiungono cifre inaudite, la media è infatti di 8-900 euro a bambino, soldi destinati a sostenere le spese dell’intera società, che in moltissimi casi dispone di una squadra nei campionati dilettantistici.
Ma il problema non è solo economico, anche se da questo deriva; si risparmia su tutto, a cominciare dagli allenatori, quelli formati e preparati sono pochi perché costano troppo; si fa affidamento su volontari che svolgono questa attività per passione, senza avere titoli e in molti casi con dubbie qualità. Senza dire che per le trasferte e il materiale sportivo si fa regolarmente affidamento sulle famiglie. Indubbiamente le cose cambiano nelle scuole calcio “d’élite” delle società maggiori, dove c’è persino lo …psicologo.
Nel 2020 la Federcalcio ha offerto circa due milioni di euro come contributo per i tesseramenti riservato alle società che svolgono solo attività giovanile. Mentre non sembra decollare il progetto dei centri federali.
E poi c’è chi per giocare deve pagare..
Nel mondo dilettantistico giovanile ci sono molti dirigenti che perpetrando un vecchio costume, prendono soldi anche per un semplice provino, e che, nei casi in cui il giovane arrivi a formalizzare un contratto con una società, pretendono una percentuale, minacciando di far saltare l’accordo; famiglie, convinte di avere in casa un futuro campione, accettano e pagano, in altri casi si cerca uno sponsor, ma questo, naturalmente, è disponibile all’operazione solo se ne vale la pena, ed ecco allora tornare in scena dirigenti e scouting che “indorano” il prodotto.
Anche cambiare squadra è difficile causa il vincolo sportivo che lega i giovani, fino a 25 anni, alle società; se queste non svincolano chi ne fa richiesta l’unico modo per cambiare squadra è pagare, non poco e in nero.
E naturalmente anche qui c’è chi, di questo, ne ha fatto un commercio.
“Un responsabile giovanile di una società di serie A – racconta un dirigente – quando decideva di ingaggiare un ragazzino faceva in modo che, prima di arrivare nel suo club, venisse preso da una società più piccola, con la quale aveva rapporti. L’accordo prevedeva che, quando questa incassava il premio valorizzazione dalla nuova cessione, una percentuale andasse a lui”.
Quella che ho riassunto, per sommi capi, è la situazione del calcio nazionale di cui la Nazionale dovrebbe costruire la massima espressione, il cosiddetto fiore all’occhiello.
Il goal di Tajkovski per la Federcalcio ha suonato come una sveglia fissata troppo presto.
Non si è fatto in tempo a nascondere, sotto il tappeto dell’Europeo, tutta la polvere la sporcizia esistente; si è confidato in un tappeto più grande: quello del Mondiale.
Quattro anni fa l’allora Presidente della FIGC, Tavecchio, fu costretto a dimettersi per molto meno e con lui anche il Commissario Tecnico Giancarlo Ventura.
Questa volta, come già ho avuto occasione di dire, indifferenza assoluta. Responsabili?
Tutti.. nessuno… centomila.
Ma continueremo a dire: ”Ah! Se Jorginho non avesse sbagliato i rigori!!!…..”.
STEFANO CERVARELLI