The importance to be Fenoglio
di CATERINA VALCHERA ♦
In questo clima così fervoroso di polemiche e sentenziosi chiarimenti, di contrasti e riappropriazioni, di richieste di nuove moralità e di disallineamenti sul piano politico, ideologico ( si può ancora dire?) e culturale, il ricorrere del 25 Aprile impone anche la commemorazione della Resistenza, di quanti la vissero direttamente, di chi la raccontò e di chi fece entrambe le esperienze. Quindi occorre ricordare, adeguatamente ma non troppo, Beppe Fenoglio, di cui ricorre il centenario della nascita e che Italo Calvino consacrò come il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato[..] il libro che la nostra generazione voleva fare, quello grazie al quale il nostro lavoro ha un coronamento e un senso e che restituiva la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele. Si tratta di “Una questione privata”, cui Calvino assegna la palma della scrittura resistenziale, e che è in realtà il romanzo meno celebrativo di quei valori collettivi, meno oleografico e retorico e più esistenziale che resistenziale. Eppure viene definito “ il romanzo che un’intera generazione di narratori avrebbe voluto consegnare alla storia”. Sarebbe meglio dire alla storia della letteratura. Perché in realtà la vicenda del protagonista Milton- che Calvino assimila a una queste cavalleresca- rappresenta piuttosto una ricerca di se stessi, un percorso mosso da una pulsione assolutamente soggettiva: l’amore intriso di gelosia e immerso in una scenario temporale che è sì quello dalla lotta partigiana, ma con i tratti di un tempo assoluto, metafisico che si accompagna a un paesaggio altrettanto metafisico e visionario, orientato verso un orizzonte di totalità. In una parola, romantico. Fuori, il vento era calato ad un filo. Gli alberi non muggivano né sgrondavano più, il fogliame ventolava appena, con un suono musicale, insopportabilmente triste[…]Scuriva precipitosamente, ma sopra le creste resisteva una fascia di luce argentea, non come un margine del cielo ma come una effusione delle colline stesse . Così Fenoglio descrive, anzi dovrei dire evoca, ”la più lunga notte della vita di Milton”, quella all’indomani della quale egli avrebbe conosciuto la verità su Fulvia, l’unica verità che gli preme, l’unica che esiste , che ha “la precedenza assoluta” sulle altre. Poi, forse, qualcosa sarebbe stato nuovamente capace di fare per i suoi compagni, contro i fascisti, per la libertà. Una questione a due da risolvere, un libro oscuro e misterioso come la sua conclusione, qualcosa di molto lontano da una testimonianza di lotta partigiana e da una volontà di agiografia resistenziale. Per questo, a posteriori, Calvino la definisce una sfida lanciata ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata. Questo riconoscimento postumo andava a chiudere anni di polemiche sulla scrittura e sul ruolo dell’intellettuale che non poteva e non doveva “suonare il piffero della rivoluzione”, ma neppure parlare di “guerra civile” ponendo sullo stesso piano fascisti repubblichini e partigiani. Ragione per cui Vittorini, talent scout di Fenoglio e suo sostenitore presso Einaudi, costrinse “il gentiluomo delle Langhe” a mutare il titolo di “Racconti di guerra civile “ in “I 23 giorni della città di Alba”. Se ripercorro quegli anni e ripenso al profilo dello scrittore “intellettuale”, inquietamente sospeso tra Heidegger, Gramsci e Sartre, tra organicismo, engagement e tormentosa ricerca del sé, se rileggo gli scritti del Vittorini di “Diario in pubblico” e la sua polemica con Togliatti, il confronto con la miseria delle pseudo-battaglie ideologiche attuali, anche all’interno della sinistra (pseudo anche questa?) è sconfortante. E penso al paradosso storico del “fenoglismo”: alla distanza, lo scrittore “azzurro”, maniacalmente anglofilo, influenzato dalla religione puritana, che rincorreva una scrittura immersa nel reale ma volutamente antimimetica, antidocumentaria e altamente “letteraria”, proprio questo partigiano eccentrico anche per formazione culturale, ha finito coll’imporsi su tutti i suoi colleghi, affetti dalla “smania di raccontare” la Resistenza. Perché? Perché il piano della parola letteraria è “altro” rispetto a quello del reale, perché la letteratura, come dice Milan Kundera, non può essere il lacché della storia e i grandi scrittori sono quelli che la traspongono su un piano simbolico, epico, ma non necessariamente “eroico”, come accade nella narrativa di Beppe Fenoglio. L’uomo Jonny, l’uomo Milton rappresentano innanzitutto il proprio tempo e la propria misura, il dovere di compiere il proprio destino, penetrando nelle pieghe più brutali e concrete degli avvenimenti, per raccontare anche ciò che ragioni di opportunità politica avrebbero consigliato di tralasciare. E alla fine dell’avventura che li ha visti immersi nel cosmogonico caos di acqua e fango diventano pharmakoi di quel grande, orrido rito espiatorio che è la guerra, qualunque guerra, anche se di liberazione.
CATERINA VALCHERA
Grande Caterina, non potevi fare migliore scelta
per parlare di guerra e Liberazione dal nazifascismo, oggi🤗
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Italo Calvino, Fenoglio, Pavese, Ginzburg. L’Einaudi del dopoguerra.
Grazie ♥️
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I giorni della Resistenza e i panorami delle Langhe e del Monferrato fanno parte delle mie memorie di famiglia. A conferma che la grande letteratura, come nel caso di Fenoglio e Pavese, sa farsi universale quanto più racconta e indaga il particolare. Grazie Caterina.
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