OLTRE LA LINEA” A CURA DI S.BISI E N. R. PORRO – LA GUERRA E LA PACE (PARTE PRIMA): DA TUCIDIDE A SANDRONE.

di NICOLA R. PORRO

La prima volta che mi trovai a fare i conti con il pensiero del realismo politico fu in terza elementare. Lucio, il mio compagno di banco, aveva con sé un mazzetto di figurine che nell’intervallo avrebbe barattato con le mie. Aveva anche un pezzo di torta fatta in casa che era disposto a dividere. A ricreazione, però, due giuggioloni aggressivi – ripetenti di quinta appartenenti alla famigerata banda dei “coreani” – strapparono a Lucio i suoi tesori. Lo trovai disperato in una valle di lacrime e, sebbene incolpevole, mi rimproverai di averlo lasciato solo in quel frangente. Per di più, il sospirato scambio dei doppioni era andato in fumo…

Quel giorno ad aspettarci all’uscita c’era Sandrone, il fratello più grande di Lucio. Credo facesse ancora le scuole medie, ma era in forte ritardo con gli studi. Il suo aspetto – due palmi più alto di noi, fisico da rugbista, un primo accenno di peluria sul mento – era quello di un quasi adulto. Consolò senza troppe smancerie il fratello che gli riferiva desolato la disavventura. Capimmo che, a lavare l’onta nel sangue, Sandrone non ci pensava proprio. Con tacitiana stringatezza, distillò però a nostro uso una lezione di vita. 

«Co’ quelli più grossi nun te ce mette!

Si le poi busca’, fatte ‘na lepre!

Si propio hai da mena’, mena pe’ primo!»

Dubito che Sandrone avesse meditato sulle pagine dedicate da Tucidide alla Guerra del Peloponneso. Nemmeno penso avesse delibato Il principe di Machiavelli. Certamente però anticipava le teorie che la scienza politica contemporanea definisce dell’aggressive realism. Ispirate alla Scuola di Chicago e alle idee di John Meanshimer, sono state da noi divulgate – si parva licet componere magnis – da Alessandro Orsini, commentatore televisivo a tempo pieno della guerra di Ucraina. Tucidide, Machiavelli, Sandrone e i “realisti” di Chicago, con i loro epigoni all’amatriciana, esprimono una visione della politica indifferente all’etica e ai valori e orientata al puro conseguimento dell’obiettivo (goal oriented). Weber battezzò pudicamente Wertfreiheit (avalutatività) questo pensiero, comprensibilmente condiviso da dittatori di tutti i tempi, colori e latitudini. Già venticinque secoli prima, Tucidide ne aveva offerto una sintesi semplice e fulminante: “I forti facciano ciò che devono fare e i deboli accettino ciò che devono accettare”. Succede così che ai giorni nostri si scambino Meanshimer, ammiratore di quel Kissinger che organizzava democraticissimi colpi di stato in Cile e in Argentina, o il suo epigono Orsini, per campioni della causa pacifista.[1]  Niente di più errato: da parte dei sedicenti realisti, infatti, l’invito a deporre le armi è a senso unico, rivolto sempre e soltanto al contendente che ritengono destinato alla sconfitta. Per i «realisti» il presunto perdente non può che contenere il danno o «farsi lepre», come consigliava Sandrone al fratello bullizzato dai coreani. Non si tratta di codardia ma neppure di pacifismo: si chiama cinismo. Ser Niccolò Machiavelli, del resto, teorizzando che il fine giustifica il mezzo, lo considerava inseparabile dall’esercizio del potere: instrumentum regni. L’equivalente di un’assoluzione preventiva: conoscete qualcuno che abbia desistito dal compiere azioni scellerate riconoscendosi animato da finalità ingiuste? A sfidare il cinismo della politica, negli anni del Vietnam, era stata la nostra generazione postbellica.  Però noi chiedevamo che gli americani se ne andassero dall’Indocina, non che i Vietcong deponessero le armi. Molto flebili sono invece le voci «pacifiste» che invocano oggi il ritiro dall’Ucraina degli occupanti. 

Come spiegare, allora, le simpatie o quanto meno l’indulgenza, anche di ambienti della sinistra, per un despota nazionalista come Putin? Perché in Italia più che altrove? Cosa segnala l’affinità, documentata da più di un sondaggio, fra l’area no vax e quella pro Putin? Siamo davvero regrediti alla legge del beduino per la quale «il nemico del mio nemico è mio amico»?

Sul Corriere della sera del 19 aprile 2022 Giancristiano Desiderio ha tentato una risposta: «… si incontrano due tabù: da una parte gli Usa e dall’altro la Russia che per molti pacifisti italiani, tanto di sinistra quanto di destra, sono nient’altro che fantasmi mentali che non hanno superato… Il pacifismo italiano è una sorta di partito della resa altrui che vive con risentimento ancora nella politica dei due blocchi e desidera la pace come sconfitta del mondo che ha vinto la Guerra fredda: le democrazie occidentali, noi stessi». Da qui litanie di sospetti e di risentimenti che riflettono le contrapposizioni ideologiche di mezzo secolo fa. Penso a quella idiosincrasia per la Nato che affonda radici nella ideologia postbellica degli Imperi. Senza però chiedersi come mai, caduto il Muro, i Paesi satelliti del vecchio blocco sovietico abbiano cercato precipitosamente riparo sotto la bandiera degli ex nemici. Del resto, nell’Europa del secondo dopoguerra, le uniche «operazioni militari speciali» in territori di altri Paesi sono state messe in atto dall’Urss (Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968) e poi dalla Russia di Putin. L’invasione dell’Ucraina, preceduta da quelle dell’Ossezia meridionale e della Cecenia (2008) e poi della Crimea (2014), spiega eloquentemente l’altrimenti incomprensibile popolarità di cui gode la Nato a est dell’Elba. 

Putin persegue due obiettivi diversi ma complementari. Nel breve periodo contrastare, per quanto possibile, l’espansione della Nato ai confini dell’Impero neozarista. A più ampio raggio, scatenare un’offensiva politico-culturale contro l’Occidente, alimentata da una paranoica rappresentazione della Storia e intrisa di tutti i veleni messi in circolo dai fascismi del Novecento. L’espansionismo russo risale però a tempi più lontani, riflettendo l’idea messianica e misticheggiante di una presunta missione nazionale. Parla l’evidenza storica. La Russia attuale, con una superficie di oltre diciassette milioni di chilometri quadrati (cinquantasei volte l’Italia), confina con quattordici Stati sovrani. I territori di tredici di questi, nell’arco di tre secoli, sono stati almeno una volta invasi, occupati o sottomessi militarmente dall’ingombrante vicino. Da Pietro il Grande a Stalin a Putin a mutare, di volta in volta, erano solo le divise degli aggressori e i pretesti inventati per giustificare l’aggressione. 

Alla scuola del realismo aggressivo si contrappone quella battezzata, in modo altrettanto approssimativo, dell’idealismo militante. Essa considera i valori un bene non negoziabile che, a differenza degli interessi, non può essere oggetto di contrattazione o di scambio. A scanso di equivoci: l’idealismo ispirato ai valori (value oriented) non ha nulla a che fare con la filosofia hegeliana, con le retoriche dell’eroismo e tanto meno con l’esaltazione machista della forza che è propria dei leader totalitari, da Mussolini a Putin. Contribuisce, caso mai, a riabilitare il povero don Abbondio quando al Cardinale Borromeo confessa che “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Affrontare le proprie paure – ne abbiamo tutti – non è infatti semplice per nessuno. Si tratta tuttavia di un sensore imperfetto: la possibile estinzione della specie annunciata dal cambiamento climatico, ad esempio, ci turba assai meno di una rissa fra ubriachi cui abbiamo assistito casualmente. La paura rappresenta anche un prezioso campanello di allarme, tanto più quando segnala una minaccia a raggio planetario. Una robusta motivazione etica – come la solidarietà, la difesa della libertà o la tutela di diritti legittimi – si ritrova puntualmente nelle biografie degli «eroi per caso». 

Riflettiamo su una vicenda recente. Nemmeno due anni fa assistemmo nel nostro Paese, di fronte alla prima offensiva di un nemico sconosciuto e micidiale – il Covid non aveva ancora un nome -, a una prova collettiva di coraggio e di solidarietà che valse all’Italia l’ammirazione del mondo. Ne furono protagonisti medici, infermieri, volontari, ma anche le semplici cassiere di un supermercato o i camionisti che trasportavano merci essenziali esponendosi a conseguenze all’epoca imprevedibili. Persone normali come tutti noi, con paure e ansie identiche alle nostre, che non si abbandonarono al panico, non si tirarono indietro. Certo: l’impatto psicologico prodotto da una guerra (dove il nemico è visibile e identificato da precisi codici simbolici: divise, bandiere ecc.) differisce da quello generato da una pandemia. Anche la percezione del rischio è altamente soggettiva. Nei primi giorni della pandemia ricordo qualche irresponsabile che vagava nei supermercati senza mascherina né guanti mentre a sera, scendendo nella strada deserta a gettare l’immondizia, mi imbattevo in un vicino di casa bardato manco fosse Neil Armstrong in procinto di sbarcare sulla Luna. 

Ogni sfida produce una metamorfosi. ll coraggioso non è chi non ha paura bensì chi trasforma la paura in sentimenti attivi: prudenza, vigilanza, lucidità e un po’ di sano senso della misura. Per le nostre generazioni, cresciute nell’Europa postbellica, la guerra è un oggetto rimosso e misterioso quanto e forse più di un virus. È dunque legittimo, anche nel caso Ucraina, ricordare antefatti, precedenti, torti e ragioni di ciascuno. Ed è importante sollecitare storici, economisti, studiosi di scienze sociali a dissipare dubbi, approfondire analisi e proporre interpretazioni. Non al prezzo però di fornire un alibi alla nostra cattiva coscienza. In presenza di un solo aggressore, che fa ricorso alla violenza armata contro uno Stato sovrano, e di un solo aggredito, a quale mai analisi della «complessità» dovremmo fare appello prima di assumerci le nostre responsabilità? 

Aggiungo che non sarebbe male aggiornare le chiavi di lettura. Non saprei contare a quante manifestazioni ho partecipato scandendo «Yankee go home» e «Via l’Italia dalla Nato» (ma anche, lo ricordo ai convertiti al pacifismo senza se e senza ma, «Vietcong vince perché spara»). Nello scenario geopolitico bipolare, disegnato della Guerra fredda, chiedevamo il ritiro degli americani dall’Indocina, non la resa dei vietnamiti. Mezzo secolo dopo il regime putiniano, benedetto da patriarchi omofobi, sostenuto da una cricca di oligarchi e ispirato a nostalgie zariste, è senza ombra di dubbio il più reazionario fra i governi europei. Non scambiamo la coerenza ideale con la coazione a ripetere slogan coniati in altri tempi e per altri scenari. Senza esimerci dal dovere di capire, approfondire, scambiare opinioni: non è questa la missione del nostro blog? 

NICOLA R. PORRO

[1] Anche sul nostro blog si è fatto cenno a quel «trattamento Orsini» che subirebbe questo professore di seconda fascia della Luiss, colpevole solo di rappresentare una voce fuori dal coro. L’epurato più presenzialista e fra i meglio retribuiti delle reti tv, è ora anche protagonista di eventi teatrali in cui promette di rivelarci «tutto quello che non ci dicono». Gode d’altronde di poteri speciali che ha rivelato in una puntata recente di Cartabianca affermando (testuale): «La mente umana non è in grado di farsi carico di tutte queste informazioni. Per me è normale farlo, la mia mente è allenata a questo tipo di operazioni. L’uomo comune, invece, compresi alcuni giornalisti e politici, non conosce la politica internazionale». Per giudizi meno encomiastici rinvio al documentato articolo di Matteo Pugliese, «Alessandro Orsini e Fabio Mini diffondono complottismo? Il fact checking» su Domani del 30 marzo 2022. Prevedibile, invece, il favore riscosso presso un polemista di destra come Vittorio Feltri: «Tv piena di cretini: perché prendersela solo con Orsini?» su Libero del 14 aprile 2022.