IL TEATRO TRA VERITÀ E DENUNCIA: MARIO TRICAMO – 14. Lo spazio scenico e il pubblico come testimone.
di GIULIA MASSARELLI ♦
Lo spazio in cui si esibivano gli attori dell’Associazione Trousse era ogni volta diverso. Hanno recitato in piazze, palazzi e anche teatri tradizionali. A Roma, gli spettacoli di denuncia di Mario Tricamo avevano come sede principale il Teatro di Documenti: un particolare spazio teatrale che vantava – e vanta tutt’ora – la presenza di due piani collegati.
Il Teatro di Documenti, nel cuore del quartiere Testaccio a Roma, è stato ideato da Luciano Damiani (1923-2007), riconosciuto come il massimo scenografo del Novecento e uno dei più innovativi artisti teatrali di tutti i tempi, il quale dichiarava: “Non si deve decorare lo spazio, ma strutturarlo”, affermando un rinnovato ruolo da protagonista alla scenografia.
La genialità di Damiani è sostenuta da un metodo che supera il puro istinto del creatore. Osservatore implacabile, degli spazi non coglieva prospettive e proporzioni in termini intuitivi e basta, ma si interrogava sulle percezioni dell‘occhio e sulle impressioni ricevute dal cervello, così che la sua storia d‘artista interseca analisi e riflessioni di marchio scientifico.
Infatti, Damiani, dopo aver lavorato nei principali teatri di prosa e di lirica del mondo, decide di creare uno spazio che, senza rinnegare il passato e la tradizione, diventi il teatro che prima non esisteva.
Il Teatro di Documenti nasce dal sogno di Damiani di creare uno spazio democratico e popolare dove le persone, attori e spettatori, siano unite durante lo spettacolo. L‘unificazione strutturale tra spazio della scena, spazio del pubblico e spazio degli attori, annulla la tradizionale separazione tra palco e platea, e disintegra il dualismo dietro le quinte/davanti le quinte.
È dunque facile intuire quanto questo spazio si adatti alla perfezione alle opere di Mario Tricamo, alla sua idea di teatro di denuncia, popolare e democratico. Infatti, Tricamo, aveva interpretato molto bene l’idea di Damiani, gli spettacoli di denuncia sembrano pensati appositamente per il Teatro di Documenti: il pubblico si spostava nello spazio, da un piano all’altro, durante la rappresentazione; gli spettatori seguivano gli attori, partecipavano in modo attivo sia mentalmente che fisicamente all’azione teatrale, ed erano totalmente immersi nella scena.
Il Teatro di Documenti di per sé propone la disposizione del pubblico, infatti nella sala principale sono posizionate delle panche che seguono il perimetro della stanza.
Quindi gli attori sono completamente circondati dal pubblico, lavorando in una dimensione d’attore più che shakespeariana; questi ultimi hanno tre lati aperti con il pubblico e un lato coperto alle spalle da cui entrano ed escono. Gli attori della compagnia Trousse, invece, erano completamente nell’arena, nulla doveva sfuggirgli, tutto era sotto, o meglio di fronte, gli occhi degli spettatori.
In merito alla rappresentazione dello spettacolo DC9 Itavia: il caso Ustica, portato in scena al Teatro di Documenti, Mario afferma: “Nella prima sala del Teatro di Documenti, si svolgono il prologo e l’epilogo, la terza sala è la zona della memoria collettiva, e la seconda è quella dove prendono vita gli accadimenti”[1].
Lo spettatore è un viaggiatore traghettato dagli interpreti verso gli spazi-palcoscenico, ricavati in antiche grotte e lì sottoposto alle evocazioni traumatiche e più lievi di chi si propone al gioco della finzione. La figura di Aldo Moro appare in questa messinscena come una vittima sacrificale, ma viva nel ricordo degli umani e gli attori si prestano perfettamente ad una tragedia attuale, diventando essi stessi elementi di un coro da dramma greco.
Tricamo si avvale di un teatro fatto apposta per scatenare suggestioni e riflessioni, poiché il Teatro di Documenti con le sue sale molteplici, sotterranee e non, fa da contorno indispensabile nella discesa (reale e psicologica) dello spettatore nelle angosce di Moro prigioniero, nelle discussioni dei potenti, nella disperazione della moglie e della famiglia, nel dibattito in corso nell’opinione pubblica, rappresentato da un coro.
Gli spettacoli di Mario Tricamo erano provati e pensati per il Teatro di Documenti, ma successivamente venivano trasformati a seconda dei luoghi in cui poi sarebbero stati rappresentati. Dunque, non c’era un’unica e immodificabile messinscena, ma il lavoro che rimaneva stabile per ogni spettacolo era la lettura del testo con la musica.
Ad accompagnare gli spettacoli di denuncia, oltre ai già citati elementi principali, c’erano pochi strumenti di scena, principalmente dei leggii. Gli attori, solitamente, entravano in scena vestiti di nero, i costumi erano essenziali, a tutto il resto pensava la parola.
Mosso da un forte impegno civile, Mario Tricamo non ha come scopo quello di intrattenere il pubblico, il suo teatro non è un’arma di distrazione di massa, ma uno strumento di denuncia in grado di creare, attraverso le emozioni e la riflessione, un cortocircuito e smuovere le coscienze. Il teatro deve servire a reagire e in questo senso può essere usato per cambiare la società.
Gli spettacoli portati in scena dalla compagnia Trousse raccontano episodi inquietanti, facendo nomi e cognomi di personaggi coinvolti nelle vicende di storia italiana; attraverso letture reali di ciò che è accaduto, mostrano l’attualità dell’inchiesta. Pongono lo spettatore di fronte a qualcosa che lo coinvolge in prima persona e lo porta a riflettere.
Il pubblico che assisteva agli spettacoli di Mario Tricamo e dell’Associazione Trousse era coinvolto fisicamente nello spettacolo. Gli spettatori, specialmente se lo spazio scenico lo permetteva, erano molto vicini agli attori; il pubblico era parte integrante, una sorta di attore nel ruolo di testimone: questo rendeva l’impatto dello spettacolo molto forte. Dunque, lo spettatore come testimone, fortemente chiamato in causa, partecipava attivamente al racconto, all’indagine.
Il pubblico che seguiva la compagnia Trousse era per la maggior parte interessato ai temi e più precisamente a quel teatro civile.
Il pubblico è un elemento indispensabile, di fondamentale importanza, per il teatro. Piscator, ad esempio, aveva bisogno di un pubblico di riferimento ben specifico, il pubblico proletario; così come anche Dario Fo, che si mette in contatto con le masse e indirizza una teatralizzazione del discorso politico. Il suo pubblico, la gente delle piazze, chiede di sentir parlare della propria storia e dei propri problemi, per meglio capire la realtà che li circonda.
Brecht, invece, non aveva un pubblico specifico a cui rivolgersi, ma il suo intento era rendere lo spettatore attivo, in grado di saper riflettere e costruirsi un proprio pensiero critico.
Lo stesso vale per Mario Tricamo: il ruolo del pubblico non sarà più quello di spettatore passivo dell’evento scenico, ma di testimone attivo. Per coinvolgere gli uditori, affronta e mette in scena i grandi temi politici e sociali italiani, argomenti che il grande pubblico conosce bene e che, a volte, ha vissuto in prima persona.
Mario Tricamo aveva un’intuizione particolarmente sviluppata, il suo modo di sentire e vedere superava la realtà contingente, i fatti di cronaca, quello che accadeva: come se sapesse già come sarebbe andata a finire.
Quando il drammaturgo siciliano scrisse i suoi spettacoli, i fatti di cronaca di cui trattava erano ancora molto attuali. Il pubblico che li andava a vedere, conosceva bene le tematiche, aveva già una propria idea al riguardo – o comunque voleva saperne di più – ed era coinvolto in quanto attore in prima persona di quel periodo.
Sono passati anni, la storia oggi si conosce, si legge sui libri, se ne parla in televisione e ancora molti interrogativi non hanno avuto risposta. Per questo motivo ancora oggi c’è necessità di un teatro come quello di Mario Tricamo, un teatro politico che parli di fatti di attualità e che provi a fare luce sulla verità.
Piscator, Brecht..
E Voi bravi tutti!
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