RUBRICA – “BENI COMUNI” – 8. Persone. Mario Guiotto ed Armando Dillon: il senso del diritto.
Catalogo Documenti Utili: La tutela delle bellezze naturali secondo Armando Dillon, 2 aprile 1942, Era Fascista?!
di FRANCESCO CORRENTI ♦
«Questo opuscolo contiene – disintegrate e variamente ordinate ad uso delle Commissioni provinciali per il paesaggio e degli uffici – le disposizioni della legge 29 giugno 1939-XVII n. 1497, pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” del 14 ottobre 1939 n. 241 e del relativo Regolamento 3 giugno 1940-XVIII n. 1357, sulla protezione delle bellezze naturali.»
Con queste parole, nel risvolto di copertina, è presentato, e sicuramente son parole dello stesso autore, il contenuto del volumetto, finito di stampare nella tipografia Alfio Amantia di Catania il 2 aprile MCMXLII-XX, in edizione fuori commercio, di 80 pagine in-16°. Tra i miei libri, l’opuscolo è pervenuto il 3 dicembre 1997, provenendo dalla biblioteca di mio suocero, Mario Moretti, per essere registrato con il numero 97250 e individuato sotto l’indice 711.1 (Urbanistica, sistemazione dei territori, aspetti amministrativi) del mio sistema di classificazione, che è una applicazione leggermente semplificata e molto personalizzata della CDD e della CDU.
Non ho immediatamente percepito il valore di quel libretto che ho ritenuto, lì per lì, semplicemente un commento esplicativo della nuova legge. Solo in seguito ho avuto la curiosità di leggere quelle pagine, notando immediatamente un tono e delle parole che mi sono sembrate molto più avanti nel tempo e nella mentalità della loro epoca, anzi della loro “era”, l’era fascista.
Da studenti di architettura, alla fine degli anni Cinquanta e nei primissimi anni Sessanta, la nostra impostazione culturale ci portava a considerare poco meno che orribili gran parte delle architetture del ventennio deprecato, mentre la scultura e soprattutto la pittura ci sembravano più digeribili. Non tenevamo conto che, a parte alcuni – i più anziani – dei nostri docenti, da collocare inesorabilmente nel novero dei nostalgici, anche i nostri Maestri più stimati erano stati dei giovani esponenti dell’architettura fascista, che avevano tentato di aggiornare le loro idee secondo l’evoluzione del movimento moderno, spesso con ottimi risultati, da non confondere con le magniloquenti opere del regime, improntate alla reinvenzione d’una mai esistita “romanità imperiale”. La nostra percezione di quell’architettura era ottimamente rappresentata dai disegni di Osbert Lancaster, pubblicati nel Breviario di Siegfried Giedion, sul neo-classicismo monumentale della Russia e della Germania di quegli anni tra le due guerre, che riporto qui avanti.
A prescindere dalla maggiore comprensione di molte opere maturata in seguito, ci apparivano notevoli alcuni interventi urbanistici privi di retorica e non basati su sciagurati sventramenti dei tessuti medievali, così come erano indubbiamente apprezzabili le leggi del 1939 emanate dal ministro dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai per la tutela delle cose di interesse artistico e storico e per la tutela delle bellezze paesistiche.
Sono corrette e illuminanti, in proposito, le parole di Giuseppe Galasso, autore, quale sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali e Ambientali (primo e secondo governo Craxi), dei decreti ministeriali che hanno imposto vincoli su diversi beni paesaggistici (i cosiddetti “galassini”) e poi promotore della legge 8 agosto 1985, n° 431, per la protezione del paesaggio, detta appunto “legge Galasso”. Nel suo saggio Paesaggio – in Sabino Cassese (a cura di), L’Italia: paesaggio e territorio, Roma, Vittoriano, 1 giugno-20 settembre 2006, Gangemi Editore, Roma 2006, pp. 9-44 – ha delineato ottimamente quei provvedimenti (ibidem, p. 10):
«Bisognò aspettare il 1939 perché le ormai diffuse sensibilità e convinzioni al riguardo trovassero un’espressione legislativa di alto profilo. Ci riferiamo naturalmente alla legge 1497 del 1939 che, insieme con la 1089 dello stesso anno, segnò una tappa in ogni senso memorabile nella legislazione italiana sia nello specifico settore al quale ciascuna delle due leggi era rivolta, sia per la stretta relazione tra le rispettive materie, sia per la felicità stilistica e tecnica e per la chiarezza normativa del loro dettato, sia, infine, per le loro profonde implicazioni e per il loro significato nel generale quadro legislativo italiano al di là del loro proprio ambito dispositivo. Non per nulla a distanza di decenni esse sono rimaste e rimangono una solida base della normativa italiana nelle loro materie. Già da ciò emerge, inoltre, che entrambe le leggi non furono il frutto di una improvvisazione estemporanea. In esse si riversò, in effetti, e fu messo a frutto quanto alcuni decenni di studi e di riflessioni avevano pensato e sviluppato nella cultura italiana (né solo in quella giuridica) sui problemi dei beni storico-artistici e paesistici del paese, non senza un vario, ma per nulla trascurabile legame con la vita politica e i suoi dibattiti e svolgimenti».
Va detto che, in realtà, le due leggi di tutela del 1939 hanno attribuito ai soprintendenti un vasto potere d’intervento, sproporzionato ai mezzi realmente disponibili e quindi sono un pericoloso potenziale fattore d’insuccesso, ma il loro impianto ideologico resta fondamentale e apprezzabile, come fu esemplare – dati i tempi cui ci hanno abituato i procedimenti legislativi dei giorni nostri – il fatto che il regolamento di attuazione sia stato emanato a meno d’un anno dall’approvazione della legge! Le modernissime osservazioni di commento del libricino di Dillon da cui ho preso le mosse, le riporto per i lettori nel “Fondo di documentazione” in appendice. Qui voglio dare, del personaggio, qualche notizia più precisa, dicendo subito che ne ho immediatamente percepito l’altissimo valore intellettuale e culturale, del resto comune ad altri suoi colleghi coevi, pur riscontrando la scarsità di notizie disponibili. Infatti, trovare notizie biografiche su Dillon senza potermi muovere dal mio tavolo non è stato facile, ma qualche risultato l’ho avuto, scoprendo anche che lo stesso interesse suscitato dalla sua attività instancabile in me, ha recentemente destato l’interesse di studiosi e di suoi “successori” istituzionali nei luoghi ove aveva operato, ossia la Sicilia e la Liguria. Questo, mettendo contemporaneamente in luce un altro architetto e soprintendente, di pari valore e di altrettante ammirevoli virtù civiche e professionali, Mario Guiotto, la cui vita e le cui attività si sono in certa misura intrecciate, in parte precedendole, a quelle di Dillon, per poi svilupparsi in ambiti diversi ma con fortissima sintonia ed unità di intenti. Motivo per cui ho ampliato le mie ricerche, cercando notizie e informazioni sull’uno e sull’altro personaggio.
Tra le pubblicazioni che ho potuto rintracciare sull’argomento, la prima in ordine cronologico è anche la più completa, perché comprende un’appendice biografica veramente esauriente. Si tratta della tesi di dottorato di ricerca in conservazione dei beni architettonici presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II” di Giuseppe Scaturro, Danni di guerra e restauro dei monumenti, Palermo 1943-1955 (relatore: Prof. Arch. Antonella Cangelosi), discussa nel novembre 2005.
L’appendice comprende le schede biografiche dei Soprintendenti in Sicilia negli anni della ricostruzione, ossia, appunto, la scheda di Mario Guiotto e quella di Armando Dillon, dove ho trovato la conferma delle mie sensazioni. Infatti, entrambi sono stati personaggi di altissime doti morali ed hanno consacrato la loro vita all’istituzione che rappresentavano e ne han fatta una missione, riuscendo a salvare innumerevoli monumenti, in totale coerenza con i loro principi ideali. Sono, insomma, di quelli che vengono definiti “Servitori dello Stato” o, con espressione francese, “Grand Commis de l’État” (e meno aulicamente “civil servant”), anche se non sono stati inseriti nel primo gruppo di cui tratta il volume curato da Guido Melis, edito nel 2011, per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Apro qui una parentesi per dare qualche ragguaglio di questo volume, dal titolo Servitori dello Stato. Centocinquanta biografie, dedicato appunto a 150 (uno per ogni anno dall’Unità, al momento) «uomini illustri d’Italia», come titola la presentazione dell’editore Gangemi, con scarsa correttezza di genere, anche se in effetti si parla di 141 uomini e solo di 9 donne, sorvolando su un’altra stranezza che ho letto nel sito dell’Archivio Centrale dello Stato dedicato al database relativo.
Più rispettoso, nella sua prefazione, il Ministro Renato Brunetta scrive: «Perché questo sforzo, perché questa prima pubblicazione? Non solo per onorare doverosamente la memoria di quanti ci hanno preceduto nell’opera di edificazione delle istituzioni. Non soltanto per ricordare quanti sono morti, alcuni eroicamente, per difendere la legalità, l’efficacia delle leggi, i principi fondamentali sui quali si basa il nostro Paese… Se non esiste la memoria di quelli che hanno lavorato prima di noi non esistono e non possono esistere il senso di appartenenza, la dignità e tanto meno l’orgoglio. Queste donne, questi uomini sono il nostro tesoro più prezioso: hanno manifestato amore per il proprio lavoro, per il proprio Paese e per la collettività. Il loro ricordo sia di sprone e di esempio per fare meglio, per fare prima, per fare tutto. Non disperdiamoli nell’oblio del tempo».
Siccome, a mio parere, nessuno deve esser servo di qualcosa e di qualcuno, sia pure in senso altamente onorevole, io preferisco annoverarli semplicemente tra i cittadini benemeriti e definirli «custodi e curatori dei beni comuni», perché, nella nostra lingua, il custodire presuppone la preziosità di ciò che si custodisce e l’aver cura di qualcosa implica atteggiamenti di premura e di solerzia che esprimono esattamente la qualità e l’essenza di chi li dimostra.
Tornando al tema della rubrica, riporto sinteticamente i dati essenziali dei due personaggi.
Scheda biografica di Mario Guiotto (Campodarsego, PD, 1903-Venezia? 1999)
1921-1928.Studi. Nel ’28 si laurea in Architettura presso la Scuola Superiore di Architettura di Venezia, conseguendo al Politecnico di Milano l’abilitazione all’esercizio della professione.
1929-1937. Attività professionale e servizio presso enti pubblici. Vince un concorso presso il Ministero dei Lavori Pubblici e presta servizio presso l’Ufficio del Genio Civile di Potenza.
Nel 1937 vince il concorso di Architetto delle Soprintendenze ai Monumenti e prende servizio presso quella di Arte Medioevale e Moderna della Sicilia a Palermo, dove esplica una notevole attività di studio, di rilievo, nonché di progettazione e direzione lavori di restauro dei monumenti siciliani.
Nel 1939 viene trasferito a Venezia alla Soprintendenza ai Monumenti del Veneto Orientale (province di Venezia, Vicenza, Padova, Rovigo, Treviso e Belluno), occupandosi, principalmente, di restauri di edifici monumentali a Venezia, Burano, Piove di Sacco (Padova), Vicenza e Monselice.
Nel 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia, cura la progettazione e la direzione di opere di salvaguardia monumentale dalle offese aeree a Venezia, Padova e Treviso. Tra esse importanza fondamentale in campo nazionale ricoprono gli interventi di protezione a Venezia del prospetto della basilica di S. Marco, dei due grandi pilastri detti “acritani”, dei capitelli e delle arcate inferiori di Palazzo Ducale e il trasporto a ricovero dei gruppi bronzei dei monumenti al Colleoni ed al Gattamelata. Data questa esperienza maturata, su comando ministeriale, nell’ottobre 1942, viene inviato a Genova, a collaborare con il Soprintendente Ceschi, nella difficile opera di salvaguardia e pronto intervento restaurativo dei numerosi edifici artistici colpite durante i pesanti bombardamenti aerei.
Il primo dicembre del 1942 viene nominato Soprintendente ai Monumenti della Sicilia Occidentale presso la sede di Palermo con giurisdizione sulle provincie di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta. Dopo appena un mese di prevalenti opere di salvaguardia antiaerea, a continuazione di quelle già effettuate in precedenza, sarà nuovamente impegnato nel far fronte ai danni bellici provocati dai frequenti ed intensi bombardamenti dell’inverno e della primavera del 1943. Si trova, fino alla metà di luglio del 1943, a dover e assolvere il gravoso compito di pronto intervento e di salvaguardia del patrimonio monumentale dalle numerose e violente offese aeree. Dopo l’occupazione di Palermo da parte della VII Armata americana e dunque durante il periodo di occupazione militare dell’isola sotto il governo dell’AMG (Allied Military Government), dirige l’opera di pronto intervento restaurativo e di recupero del materiale artistico.
Successivamente, fino al 1949, oltre ai normali compiti amministrativi, esplica una vasta e complessa attività tecnico-scientifica rivolta al restauro di circa ottanta edifici monumentali, di cui oltre una sessantina edifici di culto, ubicati in massima parte a Palermo, ma anche nelle altre città della Sicilia Occidentale. Dal 1943 al 1946, espleta, contemporaneamente al lavoro di ufficio, l’incarico di insegnamento di Rilievo e Restauro dei Monumenti ad un corso di specializzazione di architettura presso la Facoltà di Ingegneria e dal 1946 al 1949 ottiene la Cattedra di Restauro dei Monumenti alla nuova Facoltà di Architettura di Palermo.
Nel marzo 1948, consegue l’abilitazione alla libera docenza in Restauro dei Monumenti.
Il 1° luglio 1949, viene trasferito, sempre con funzioni di Soprintendente, a Trento, presso la Soprintendenza ai Monumenti ed alle Gallerie della Venezia Tridentina. In tale sede, egli svolge una continua ed intensa attività amministrativa e dirige vari lavori di restauro, anche qui, in massima parte, di complessi danneggiati da eventi bellici. In undici anni di lavoro ha modo di attuare oltre 230 restauri di edifici ed opere d’arte, la gran parte di carattere religioso, dislocati nelle provincie di sua giurisdizione. Nell’anno 1953 viene promosso Soprintendente di seconda classe, funzione che, peraltro, ha esercitato fin dal dicembre 1942, dall’incarico a Palermo, secondo legge, essendo allora il numero dei Soprintendenti in organico poco più della metà di quello delle Soprintendenze.
Nell’anno 1956 gli viene conferita l’onorificenza di Cavaliere Ufficiale al merito della Repubblica.
Il 1° maggio del 1960 viene nominato Soprintendente ai Monumenti a Venezia. Qui svolge una intensa e impegnativa attività lavorativa che lo porta a dirigere molteplici interventi di restauro sui complessi monumentali di tutto il Veneto. Innumerevoli i suoi interventi sul patrimonio della città lagunare, di Padova, di Vicenza, di Treviso e di tanti altri centri della regione. Contemporaneamente all’attività svolta presso la Soprintendenza, svolge studi specifici sulla conservazione di Venezia e importanti interventi sulla difesa monumentale e paesaggistica e sui restauri di edifici palladiani nell’ambito di convegni di vario livello e in lezioni svolte presso il Centro Internazionale di Studi d’Architettura Andrea Palladio a Vicenza.
Per raggiunti limiti di età, il 1° dicembre del 1968 lascia la Soprintendenza. Successivamente a tale data riprende la libera professione di architetto che lo porta a progettare e dirigere interventi di restauro di alcune dimore storiche, quali villa Gradenigo-Fasati a Oriago di Mira, villa Querini Stampalia a Mira e villa Cambi a Martellago. Inoltre, fino al 1974, da libero docente, tiene corsi gratuiti in Restauro dei Monumenti presso l’Istituto Universitario di Architettura in Venezia.
Si spegne a quasi 96 anni, nel febbraio del 1999.
Per quanto ho potuto riscontrare nella mia breve ricerca, il grandissimo valore scientifico e metodologico dei suoi interventi non tardano troppo ad essere compresi e studiati, diversamente da quelli analoghi e coevi di Armando Dillon, che sono rimasti ignorati per un decennio in più. Dal 2005, comunque, diversi contributi hanno finalmente approfondito i molteplici meriti dei due e reso noti, quindi, questi benemeriti architetti e pubblici funzionari, ai quali dobbiamo la conservazione di tanta parte del patrimonio artistico collettivo delle regioni dove hanno combattuto le loro battaglie di civiltà e di cultura (vere e proprie “guerre”, in molti casi), non soltanto contro le distruzioni nemiche ma soprattutto in contrasto con la sorda e miope violenza della speculazione e dell’ignoranza, alimentate da meschini interessi di pochi. Non dimenticando ed anzi traendo forza ed esempio dalla loro ferma e limpida strategia di contrapposizione sulla base del diritto. Promuovendo nei modi più opportuni il riconoscimento pubblico di questa loro dirittura (parola giusta) civile, civica, morale, vera e nobile rettitudine laica. Di cui queste modeste note biografiche delle persone, pubblicate in questa rubrica, vogliono essere un segno di doverosa riconoscenza e di testimonianza partecipe.
Scheda biografica di Armando Dillon (Napoli 1906-Monza 1989)
Laureato in Architettura, nel luglio del 1933, presso l’Università di Roma, consegue l’abilitazione all’esercizio professionale nel dicembre dello stesso anno.
Si applica poi in attività scientifiche. Nel 1935 ottiene il diploma di perfezionamento in Urbanistica e fino al 1937 è Assistente universitario (Assistente volontario, dal 1933 al 1935, e Assistente incaricato, dal 1935 al 1937) di Urbanistica presso la cattedra del Prof. Luigi Piccinato e di Elementi Costruttivi, alla Facoltà di Architettura di Napoli.
Nel 1934 inizia le attività professionali, partecipando a vari concorsi nazionali d’architettura, ottenendo tre primi premi per progetti di edifici scolastici a Napoli. Negli stessi anni partecipa alla elaborazione del Piano regolatore di Napoli, con la Commissione Giordani-Renzato.
Nel 1937 vince il concorso di Architetto nel ruolo dell’amministrazione delle Belle Arti e, il 16 luglio dello stesso anno, prende servizio come Architetto Aggiunto presso la Soprintendenza Brutio-Lucana di Reggio Calabria. Qui, come giovane funzionario, intraprende le prime esperienze di restauro e si riferiscono all’attività svolta in questo periodo le pubblicazioni inerenti ai restauri condotti sulla cattedrale dell’Assunta di Gerace Superiore, sulla chiesa di San Michele in Vibo Valentia e sulla Badia greca di S. Adriano.
Il 21 luglio 1939, con il ruolo di Architetto Direttore è trasferito presso la Soprintendenza ai Monumenti di Napoli, ove ricopre vari incarichi in seno all’amministrazione. Tra gli altri, nell’aprile del 1941, riceve l’incarico della direzione della Reggia di Caserta.
Nella sua città natale riprende a frequentare l’ambiente universitario come assistente alla Cattedra di Restauro dei monumenti.
Il primo ottobre del 1941 è nominato Soprintendente ai Monumenti della Sicilia Orientale presso la sede di Catania con giurisdizione sulle province di Catania, Siracusa, Ragusa, Messina ed Enna, succedendo a Piero Gazzola., trasferito a Verona.
A Catania, tenendo presente il particolare momento caratterizzato dalle prime azioni belliche, predispone fin da subito un programma di rilievi grafici e di documentazione fotografica del patrimonio monumentale, curando poi la custodia di questo materiale in opportuni ricoveri, oltre all’attuazione dei lavori relativi alle opere di protezione dei monumenti e ai primi interventi alle fabbriche danneggiate dalle prime incursioni avvenute nel primo anno di guerra.
Non trascurando però il normale lavoro di tutela del patrimonio monumentale, nel periodo 1942-1943 esegue i restauri del Palazzo Bellomo a Siracusa, della chiesa di San Basilio a Randazzo (CT), della chiesa di S. Andrea a Piazza Armerina (EN), del Castellaccio di Lentini (SR), del castello di Lombardia e delle torri civiche di Enna, della chiesa di San Biagio, della Matrice e della torre di San Gregorio a Comiso (RG), della Naumachia, della Cattedrale e della chiesa di S. Pietro a Taormina (ME).
Dall’aprile del 1943, con l’inizio dell’offensiva aerea sui cieli siciliani, si trova a dovere assolvere il gravoso compito di pronto intervento e di salvaguardia del patrimonio monumentale dalle numerose e violente offese nemiche.
Dopo la fine delle ostilità nell’isola, e fino al 1949, oltre ai compiti amministrativi, attua una vasta e complessa attività tecnico-scientifica rivolta al restauro di numerosi edifici monumentali danneggiati, ubicati sia a Catania che nelle altre città della Sicilia orientale.
Dal 1946 al 1949, espleta, contemporaneamente al lavoro d’ufficio, l’incarico di insegnamento di Storia dell’arte presso il liceo Leonardo di Catania.
Il 1° luglio 1949, succedendo a Mario Guiotto trasferito a Trento, è nominato Soprintendente ai Monumenti della Sicilia occidentale con sede a Palermo, avendo come sua giurisdizione le province di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta. In questa sede, porta a compimento i restauri sui monumenti danneggiati dalle azioni belliche, già intrapresi dal Guiotto. Tra essi si ricordano, in particolare, gli interventi di liberazione sulla Basilica della Magione, su palazzo Abatellis e su S. Maria della Catena. Sempre nel 1949 riceve l’incarico per l’insegnamento di Restauro dei Monumenti presso la Facoltà di Architettura di Palermo, che mantiene fino al 1955. A tal proposito nel 1951 consegue l’abilitazione alla libera docenza in Restauro dei Monumenti.
In questi anni si colloca la sua singolare missione di studio in Siria e in Libano, ove, dal marzo 1953, per incarico dell’UNESCO e con il prof. Paul Collart dell’Università di Ginevra e Selim Abdul-Hak, porta a compimento studi per la conservazione e la valorizzazione dei complessi monumentali delle città di Damasco, Palmira, Aleppo e Baalbek.
Nel 1955 ottiene l’incarico per la docenza presso la cattedra di Storia e Stili dell’Architettura alla facoltà di Ingegneria di Genova, che ricoprirà fino al 1964.Il 1° ottobre 1955 è nominato Soprintendente ai Monumenti della Liguria con sede a Genova. In questi anni, per un decennio, oltre ai compiti amministrativi che abbracciano una vasta attività rivolta al restauro di numerosi edifici monumentali, si interessa di problemi di tutela del paesaggio e del colore nell’architettura.
Nel 1965 è nominato Soprintendente ai Monumenti di Napoli. In questo periodo, continua il suo interesse per la tutela ambientale e del paesaggio, al fine di tentare di arginare le pressanti iniziative di speculazione edilizia sulla costa campana, caratterizzanti il periodo in questione. Durante gli anni napoletani, alla facoltà di Architettura di Napoli, ottiene l’incarico per la docenza presso la cattedra di Storia e Stili dell’Architettura (I -II), che mantiene dal 1964 al 1967.
Nel 1968, con riferimento alla sua esperienza di docente e professionista nel campo del restauro architettonico, richiede invano il conferimento dell’incarico per il corso di Restauro dei Monumenti nella stessa facoltà che gli sarà rifiutato, essendo osteggiato per il suo contemporaneo ruolo di Soprintendente. Amareggiato dalle questioni universitarie napoletane, il 1° dicembre 1969 prende servizio a Roma presso il Ministero della Pubblica Istruzione, per concludere la sua carriera come Ispettore generale per l’Architettura e, dal 1971, da Direttore Generale per le Antichità e Belle Arti.
Si ritira in pensione nell’anno 1973 e si trasferisce a Genova, ove nel maggio 1974 è nominato Ispettore Onorario per i monumenti della Liguria per il triennio 1974-77.
Dal 1981 risiede a Monza dove si spegne il 24 giugno 1989.
Come si vede, la sua attività più incisiva può essere suddivisa in due fasi principali: la prima, quella di soprintendente a Catania dal 1941 al ’55, la seconda di soprintendente della Liguria a Genova dal ’55 al ’64. Analoghe per l’impegno con cui egli si dedica alla sua missione di custode dei beni comuni, diverse per il diverso carattere politico e ideologico dello Stato – il Regno d’Italia negli ultimi anni del governo fascista e la Repubblica Italiana a prevalente guida democristiana – e ancora simili per le drammatiche circostanze in cui si svolge la sua azione, prima, in Sicilia, con la ricostruzione post-bellica del patrimonio monumentale danneggiato o distrutto dai bombardamenti (anche grazie al lavoro di studio e rilievo predisposto), poi, in Liguria, durante quegli anni Cinquanta che vedono in Liguria (ma ovunque, in Italia) un assalto, più cruento e diffuso delle stesse precedenti distruzioni belliche, al paesaggio ed al patrimonio monumentale e storico-artistico in genere. È la situazione che si ripete ancora, per lungo tempo, in molte parti del Bel Paese, che vedrà così l’inesorabile crescita delle offese alla sua integrità e la progressiva rovina di quella sua qualità unitaria e peculiare, esaltata dall’Alighieri, dal Petrarca e dallo Stoppani, che in tante contrade porterà alla scomparsa del celebrato “paesaggio” – quello urbano delle città e dei borghi, quello sapientemente agricolo delle campagne coltivate e quello naturale e selvatico di tutto il resto – sostituito da un anonimo, indifferenziato e squallido “paesaccio” che si stende ovunque senza interruzione.
È la situazione che nel 1975 descrivo per la costa a nord di Roma, nel mio saggio sulla storia urbana di Civitavecchia, edito in un volume nell’85 (Chome lo papa uole…, p. 33 e segg.):
«È pur vero che il territorio è già stato aggredito in più parti e lì lo scempio operato è tra i più gravi. Accanto alla speculazione privata dei lager di fine settimana, si sono affiancati gli enti pubblici e lo stesso Stato a deturpare e distruggere ciò che avrebbero dovuto tutelare (sono episodi ben noti, di cui va sempre più diffondendosi la consapevolezza e ciò significa che è possibile porvi rimedio, anche se l’opera di bonifica, di risanamento e restauro ambientale e paesistico sarà lunga e difficile). Ma esistono anche vastissime zone incontaminate rimaste prive di interventi positivi, non hanno dovuto subire neppure quelli negativi. Da esse dovrà iniziare la programmazione del riassetto territoriale, riscoprendo vocazioni e risorse dimenticate.»
E qui devo accennare alla mia vicenda personale, dato che, in certa misura, mi avvicina spazialmente ai due insigni colleghi di cui stiamo parlando. Laureato in Architettura nel febbraio del 1967, presso la Sapienza Università di Roma, con una tesi in town-design su varianti al PRG 1961 di Civitavecchia del prof. Luigi Piccinato (relatore il prof. Ludovico Quaroni), coordinata con quella in restauro dei monumenti di Paola Moretti (relatore il prof. Guglielmo De Angelis d’Ossat), conseguo l’abilitazione all’esercizio professionale nell’aprile dello stesso anno. Partecipo poi e vinco il concorso per esami bandito dal Ministero della Pubblica Istruzione con D.M. 4 luglio 1967, a 9 posti di architetto della carriera direttiva delle Soprintendenze alle Antichità e Belle Arti (su 250 partecipanti). Vengo nominato in ruolo con effetto 1° aprile 1969 ed assegnato alla Soprintendenza ai Monumenti di Genova, dove ancora per otto mesi è Soprintendente Armando Dillon.
Purtroppo, la bella opportunità di fare esperienza in quella prestigiosa istituzione genovese si conclude per le difficoltà pratiche di conciliare la costante presenza in loco con la situazione famigliare radicata a Roma, con una moglie impegnata nell’assistenza alla cattedra di Restauro in Facoltà e con un figlio di pochi mesi, motivi per cui ho optato per la mia seconda passione professionale, dopo il restauro dei monumenti, quella per l’urbanistica e le opere pubbliche, in quanto nel frattempo ero risultato vincitore anche di un altro concorso, quello per il posto di urbanista al Comune di Civitavecchia. Sarà poi in questo ruolo e nella costante collaborazione con le Soprintendenze (poi anche quale Ispettore onorario) che si potranno realizzare molti importanti restauri di monumenti.
Le recenti indagini archivistiche e storiografiche hanno portato alla riscoperta di varie altre figure esemplari di quell’epoca, come nel caso di Piero Gazzola (Piacenza 1908-Negrar, VR, 1979), architetto e ingegnere presente a Catania a fianco di Dillon per un breve periodo e poi, dal 1941 al 1973, Soprintendente del Veneto occidentale a Verona, autore di celebri ricostruzioni, fondatore nel 1964 dell’Istituto Italiano dei Castelli, curatore per l’UNESCO del salvataggio dei templi di Abu Simbel in Egitto (1959-61, progetto vincitore del concorso internazionale, con il prof. Gustavo Colonnetti e l’ing. Riccardo Morandi, poi diversamente realizzato) e della valorizzazione della valle di Bamiyan in Afghanistan (1970, il sito famoso per le enormi statue di Buddha scolpite nella roccia, ma che oggi si ricorda per la distruzione nel 2001 a opera dei talebani) e, soprattutto, estensore della «Carta di Venezia», l’importante Carta del restauro redatta a seguito della conferenza internazionale tenutasi a Venezia nel 1964, assieme ad un gruppo di esperti di restauro di diverse nazioni, fra cui era Roberto Pane (Taranto 1897-Sorrento 1987). In proposito, ho piacere di ricordare qui che il Piano di recupero della zona U/CS Centro Storico del Comune di Civitavecchia (Sindaco F. Barbaranelli, Segretario generale dott. T. Tangari, Progettista arch. F. Correnti, data 28.02.1990, Progetto 7/2° P.P.A.), adottato con delibera del Consiglio comunale n° 289 del 21 marzo 1990 e approvato con delibera del Consiglio comunale n°109 del 27 dicembre 1991, contiene tra l’altro, l’elaborato 3, Relazione e Norme Tecniche, con quattro allegati: appunto la Carta di Venezia (1964); la Carta italiana del restauro (1972); la Deliberazione n° 414 adottata dal Consiglio Comunale nella seduta del 26 settembre 1978. Norme di arredo urbano riguardanti l’esterno degli edifici siti nel centro storico e la tutela delle caratteristiche ambientali, strutturali e tipologiche delle costruzioni; le Norme di arredo urbano riguardanti l’esterno degli edifici nel centro storico e la tutela delle caratteristiche ambientali, strutturali e tipologiche delle costruzioni del 5 marzo 1979.
Di Pane, a sua volta architetto impegnato nella conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale italiano (cui si deve la “riscoperta” nel 1959 delle ville vesuviane del ’700), esponente della scuola del restauro critico con Cesare Brandi (principale redattore della Carta del 1972) e Renato Bonelli e figura di primo piano nel dibattito nazionale in campo ambientale, architettonico ed urbanistico, in difesa delle testimonianze storiche e paesaggistiche contro la speculazione edilizia, voglio ricordare il Piano Territoriale Paesistico della penisola sorrentino-amalfitana, redatto assieme a Luigi Piccinato e approvato definitivamente nel 1987, «senza il quale probabilmente quel magnifico lembo di territorio sarebbe stato totalmente deturpato».
Piero Gazzola è anche tra gli esperti incaricati dal Consiglio d’Europa di studiare nuovi strumenti per la salvaguardia dei “centri storici”, tra cui l’impostazione dell’Inventario di protezione del Patrimonio Culturale Europeo (IPCE), primo catalogo unificato volto a classificare i beni archeologici, storici, artistici, etnologici, naturalistici per perimetrare su basi scientifiche i complessi da tutelare nei vari territori nazionali, cui segue la Lista del Patrimonio Mondiale nel 1972.
Il cortese lettore vorrà comprendere la mia insistenza sulle drammatiche circostanze in cui operano le persone di cui tratto in questa puntata della rubrica e sulle motivazioni ideali che le animano, date le affinità di formazione, di ambienti e di Maestri frequentati e, conseguentemente, di impegno assunto nella professione in veste pubblica, con precisi indirizzi a tutela dei beni comuni.
Un’ulteriore coincidenza con fatti a noi vicini, è rappresentata da quelli che, nella sua relazione per gli Atti del IV Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura del 1950, Roberto Pane definisce «pseudo restauri», riferendosi a quegli interventi gestiti dalle Curie e volti a garantire interessi tutt’altro che spirituali ed artistici, promuovendo restauri in perenne contrasto con i pareri, motivati da criteri rigorosi, dei Soprintendenti, come in particolare per le cattedrali di Cefalù e di Messina.
Ho registrato con soddisfazione le diverse iniziative di riscoperta dell’opera di Dillon (e di Guiotto). Ne dò conto brevemente L’impegno istituzionale di Dillon nella realtà della Liguria negli anni del boom economico, dal 1955 al 1964, è stato oggetto di un convegno a Genova nel novembre 2019, nel trentennale della morte, promosso dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, rievocando gli importanti restauri ed i problemi della tutela del paesaggio di fronte all’espansione edilizia e all’assalto al territorio, mentre si preparavano i nuovi piani regolatori per la Riviera e per la città di Genova. Il 17 dicembre 2019, al Monastero dei Benedettini di Catania si è tenuta la giornata di studi “La guerra del soprintendente – Armando Dillon in Sicilia (1941-1955)”, proponendo una riflessione sulla difficile stagione di distruzioni e ricostruzioni che hanno indelebilmente segnato il destino del nostro patrimonio monumentale e, ancor più, il volto delle nostre città.
Fondo di documentazione archivistica e bibliografica sul tema “BENI COMUNI” – CDU
La tutela delle bellezze naturali
Armando Dillon, La tutela delle bellezze naturali, Catania 1942, passim.
Sin dei primi anni del secolo, artisti, studiosi e patrioti invocavano l’ausilio delle leggi in difesa delle bellezze di cui si vanta il suolo d’Italia contro l’insensibilità, l’interesse e la speculazione.
Quando al concetto di bellezza naturale da difendere si unì pure quello di ricchezza naturale, il movimento ebbe un più ampio consenso ad opera dei naturalisti. Ma purtroppo il concetto di ricchezza si associava più facilmente l’idea di sfruttamento che non quella di conservazione. L’Amministrazione comunale di Ravenna decretava la vendita del taglio della Pineta; il Demanio vendeva la rupe sacra di Cuma come cava di pietre.
Di fronte a tali sacrilegi il sentimento della nazione trovava eco nella sensibilità e nell’entusiasmo di alte personalità della politica e dell’arte, ma trovava pure il violento e freddo contrasto negli interessi privati minacciati, nel concetto di proprietà, nel vuoto parlamentarismo delle Camere, nella scarsa conoscenza delle disposizioni legislative già emanate.
Si ebbero sporadici provvedimenti di tutela i quali determinarono un invito del Senato al Governo (1909) per la presentazione di un progetto di legge «per la tutela e la conservazione delle ville, dei giardini e delle altre proprietà fondiarie, che si connettono alla storia o alla letteratura o che importano una ragione di pubblico interesse a motivo della loro singolare bellezza».
[…]
Fu una legge d’esperimento. Ce lo ha ricordato il ministro Bottai nella sua limpida relazione sulla legge attuale. E come legge d’esperimento è servita di base alla elaborazione di questa. Nel periodo intercorso tra le due leggi (1922-1939) si nota, nei provvedimenti e negli atti amministrativi, lo sforzo di portare le disposizioni, anche implicite, della legge Rosadi ad una applicazione integrale ed estesa, ma lo sforzo era spesso reso vano, per la novità stessa del vincolo e dei principi giuridici che ne limitavano l’applicazione e per le opposizioni degli interessati, sempre molto accorti nello scoprire della legge l’inganno.
[…]
Per le bellezze d’insieme, ed in esse – è bene ricordarlo – sono compresi «i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale», l’azione di tutela non ha funzione conservativa; «nessuno può ragionevolmente proporsi di conservare inalterato l’aspetto del paesaggio italiano, d’interrompere ad un tratto quel processo di modificazione che dura da secoli né di ristabilire un determinato momento di quello sviluppo ed assumerlo come definitivo per l’eternità. Un’azione sistematica di tutela deve invece individuare la legge interna di quel processo di modificazione ed evitare le deviazioni arbitrarie».
Tante volte «l’aspetto estetico e tradizionale» dei complessi di cose immobili, inquadrate o no dal paesaggio circostante più ampio, deve la propria bellezza alla cristallinità spontanea del suo insieme, a quel carattere di necessarietà e di ingenuità delle sue parti e della sua architettura, ove l’ingenuità stessa è fatta intelligenza e pensiero.
Quando questa bellezza è stata rivelata, la speculazione ne profitta e spesso i nuovi elementi che vi s’inseriscono fanno sentire lo sforzo di un pensiero e di un’intelligenza che vorrebbe farsi ingenua senza saper essere umile.
Il «paesaggio urbano» è un’architettura elaborata da secoli e dalle generazioni, un’architettura viva nella quale è dato anche a noi d’inserirci con la nostra vita, con le nostre esigenze, il nostro gusto. Ma quando questa architettura assurge ad un pensiero che trascende la sua vita attuale e locale, ogni modificazione deve essere controllata e contenuta nella «idea» dell’insieme.
Noi non tuteliamo le pietre, le superfici, i colori del paesaggio, ma il pensiero che v’è racchiuso, come un’anima capace di meravigliose risonanze.
La professione di fede del nostro Direttore generale sull’architettura moderna ci entusiasma e ci conforta. Essa ci è pure di monito ad essere obiettivamente disposti nel giudicare il «nuovo» che s’inserisce nell’antico. Spesso quello che può sembrarci una stonatura viene, dopo uno o due anni, a fondersi al resto dell’ambiente. Ed è bastato l’effetto del sole o della vegetazione. La disposizione del regolamento che rimanda di un anno il provvedimento ministeriale sulla richiesta variazione del colore alle facciate dei fabbricati è ispirata a questa esperienza.
Noi abbiamo fiducia nell’architettura moderna, specialmente in quella fatta dagli architetti. Purtroppo gran parte dei progetti di lavori – o di lavori senza progetto – non può vantare una paternità, o l’attribuisce a qualche disegnatore senza diploma, ma in regolare possesso di una delle edizioni artistiche sulle ville d’architettura moderna. In questi progetti l’interesse privato emerge in forma di sfacciata concorrenza con la bellezza stessa della natura.
Al di sopra della tutela stessa, le disposizioni legislative contemplano la possibilità di un maggior potenziamento del patrimonio paesistico col dare concreto fondamento giuridico alla elaborazione dei piani territoriali paesistici.
Il regolamento per l’applicazione della legge precisa che i piani paesistici hanno il fine di stabilire le zone di rispetto, la zonizzazione, le norme per i diversi tipi di costruzione, l’allineamento dei fabbricati, la distribuzione e la varia scelta della flora.
Le possibilità offerte con questa semplice e chiara disposizione sono state da tempo invocate dagli urbanisti, i quali, forzando i concetti già acquisiti nel diritto, relativamente alla pubblica utilità, hanno in certo modo anticipato i risultati che la legge accoglie sancisce.
Un piano territoriale paesistico rappresenta la definizione di un programma di lavoro, di potenziamento e di tutela, ma purtroppo la definizione stessa di questo programma provoca una lotta d’interessi. È necessario pertanto, nella sua elaborazione, un’obiettività assoluta e controllata, una convinzione delle determinazioni attuate nell’interesse pubblico, tenendo pure conto, per quanto possibile, del danno… privato.
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Con i piani territoriali paesistici, con la possibilità d’intervenire nello stabilire i criteri nella redazione dei piani regolatori e di ampliamento dei centri urbani, con la tutela specifica delle ville, dei parchi e dei giardini, la legge contempla ogni possibilità di conservazione e di potenziamento delle zone verdi, vita, respiro e bellezza delle città.
È questa una parte non secondaria del nostro lavoro, contrastata pur essa tanto dai privati quanto dalle Amministrazioni (specialmente provinciali e comunali) che pare spiino ogni occasione di considerare edificatorio un terreno agricolo
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In tutto il nostro lavoro vi è un’etica da tenere ben presente. Solo una controllata obiettività può dargli la consistenza di una reale utilità. Le tesi che noi sosterremo avranno sempre bisogno di essere dimostrate e bisogna soprattutto poter dimostrare che la nostra personalità è estranea ad ogni provvedimento.
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Fino ad oggi la forza dell’idea, da oggi anche quella del diritto. Ma questa non deve freddamente sostituirsi a quella. È necessario che lo spirito e il meccanismo della legge siano conosciuti da tutte le Amministrazioni in qualunque modo interessate nel processo di modificazione, di sfruttamento o di valorizzazione del suolo d’Italia; è necessario che, indipendentemente dalle specifiche competenze, ciascuna consideri l’ufficio della Soprintendenza ai monumenti non come un organo di controllo, creatore di fastidi, ma come un proprio ufficio di consulenza, capace di dare – nello spirito della legge – aiuto e consiglio nella soluzione dei problemi interessanti le bellezze naturali. Il complesso meccanismo amministrativo che potrebbe, se malamente compreso ed applicato, sminuire il valore delle disposizioni legislative, dev’essere sostenuto dal vivo desiderio di conseguire pienamente i fini delle disposizioni stesse.
FRANCESCO CORRENTI