“OLTRE LA LINEA” A CURA DI SIMONETTA BISI E NICOLA R. PORRO – Con l’Ucraina. Senza se e senza ma.  

di NICOLA R. PORRO

Sullo schermo tv scorrono le immagini atroci della guerra di Ucraina. Da giorni mi sforzo di capire il senso di una tragedia che evoca i peggiori incubi del Novecento. Tuttavia, sperando di non sembrare irriverente, non riesco a dissociare quelle immagini di dolore e morte da quella di una bella signora che, una ventina di anni fa, era stata mia casuale compagna di viaggio in un volo di ritorno dalla Finlandia. Seduta al mio fianco sfogliava distrattamente un giornale in caratteri cirillici. Prima di sbarazzarsene me lo porse chiedendomi in inglese se mi interessasse leggerlo. Le risposi ringraziandola ma confessando che decrittavo a fatica i caratteri cirillici e che non conoscevo il russo. D’un tratto gli occhi della bella signora si fecero di ghiaccio, il tono di voce si fece quasi stizzito: …I’m not Russian. I’m Ukrainian… 

A distanza di tanti anni mi viene da pensare che quella puntigliosa rivendicazione di un’identità «altra» rispetto all’opprimente vicino – l’Urss si era già dissolta da anni – contenesse una possibile chiave di lettura di quanto sta accadendo oggi. Quella diversità reclamata può stupire se si pensa alle affinità fra i due popoli, a una lunga storia comune, al fatto che almeno un terzo dei russi è imparentato con cittadini ucraini. Senza contare il fatto che la stessa Russia postsovietica, pur territorialmente ridimensionata, rimane un crogiolo di diversità. Forse ad animare la resistenza ucraina è piuttosto una differente idea di futuro. Elaborata forse nella lunga stagione della subordinazione ai “russi”, fossero seguaci dello zar o apostoli del bolscevismo. Illustri storici come Braudel ci hanno infatti insegnato come ogni identità nazionale si sia formata in opposizione – o quantomeno per differenza – rispetto a un «altro da sé». I coristi di Kiev che hanno intonato (in Italiano, ma non serviva alcuna tradizione…) uno struggente Va’ pensiero, stringendosi alla loro bandiera, hanno confermato la funzione primaria dell’arte: rendere universale il particolare. L’inno alla libertà musicato da Verdi prorompeva dal cuore di un patriota italiano, attivo in un contesto storico specifico e temporalmente lontano: quello del nostro risorgimento e della declinante egemonia degli imperi sovranazionali. Ancora capace però, a distanza di quasi due secoli, di significare prima di tutto una cultura condivisa, a dispetto di guerre, lingue e frontiere. Sino a rendere possibile l’impensabile: un progetto di pacifica costruzione di una «nazione europea» narrata in decine di idiomi diversi, in grado di ospitare diverse fedi religiose, di dare forma a una lealtà non imposta dalla spada ma da un diritto comune. È questa pacifica, faticosa e complessa rivoluzione che un despota nazionalista non può comprendere e che spaventa i nostalgici degli imperi di qualunque colore. 

Per questo è giusto e legittimo affermare che l’Ucraina, resistendo all’aggressione dell’ultimo degli imperi – una potenza militare con gli indicatori economici di un Paese in via di sviluppo -, sta combattendo anche per noi. E non serve cavillare sulle prevedibili contraddizioni di un fronte politico che – come in qualsiasi emergenza nazionale – abbraccia tutto l‘arco delle ideologie, delle appartenenze e delle memorie. Quel popolo è unito dal rivendicare il diritto a scegliere il proprio destino rifiutando il tentativo putiniano di ricondurlo con la forza all’ubbidienza sovietica, come la Bielorussia di Lukashenko. C’è un aggredito e un aggressore: punto e basta. È disarmante o patetico leggere i commenti di vecchie glorie di una ancor più vecchia sinistra – basti il nome di Luciano Canfora – che ci spiegano come l’Ucraina sia stata invasa per fare, per interposta nazione, la guerra alla Nato e al suo incoercibile espansionismo. [1]  Senza forse accorgersi di mortificare, con argomenti politicistici e slogan d’antan, proprio le ragioni ideali che avevano animato la battaglia antimperialista delle generazioni più anziane, formatesi in quelle mobilitazioni per il Vietnam ma contro ogni e qualsiasi forma di imperialismo. Mezzo secolo dopo sembra invece che il Canfora-pensiero ci insegni a distinguere senza esitazioni gli imperialismi buoni da quelli cattivi. Insomma: l’Ucraina se l’è cercata. Non solo: sarebbe “antiscientifico” (testuale!) non avallare le bizzarre idee sulla storia politica dell’Est europeo riscritta da Putin. Scoprendo che la Russia ha mandato a morire migliaia di suoi soldati (anche di leva) per un impulso morale: impedire che il figlio di Biden facesse affari con l’infido  Zelensky. Del resto sembra che criticare la politica di Putin sia roba da maccartisti: il povero Navalny è stato mandato a svernare in Siberia, doveva essere un maccartista…  

Altrettanto sconcertante è scoprire come l’Europa dovrebbe assolvere oggi Putin perché colpevole di avere “respinto” Gorbaciov più di trent’anni fa. A me risulta che Gorbaciov non fu “respinto” dall’Occidente e intimidito dalla Nato: fu fatto fuori dalla nomenklatura post-sovietica che gli rinfacciava proprio il tentativo di costruire rapporti più amichevoli con la UE e la NATO.

Ed è infine francamente vergognoso pontificare dal proprio salotto sulle (pur inesaudibili) richieste di sostegno militare da parte di Zelensky. Di un leader, cioè, che ha scelto di condividere le sorti della sua città e del suo popolo sotto le bombe nemiche e braccato da bande di tagliagola pagati per farlo fuori in nome della fratellanza russo-ucraina. Un modo singolare, per uno stalinismo sopravvissuto alla fine del comunismo, di contribuire alla pace nel mondo. Eppure lesto nel riconoscere “realisticamente” le buone ragioni delle divisioni corazzate e dell’aeronautica da combattimento del pacifico Putin.

Vero è invece che nessun ruolo pacificatore può essere allo stato esercitato da un’Unione europea priva di un’autonoma potenza militare. Insieme all’indipendenza energetica e alla conversione industriale del sistema produttivo, la questione militare, purtroppo ma con colpevole ritardo, torna in capo all’agenda europea. 

Mentre aspettavamo di recuperare i nostri bagagli all’aeroporto di Milano Malpensa, la bella signora aveva riassunto il suo punto di vista con una frase che mi è rimasta impressa: fra noi e i russi ci sono molte affinità ma quello che ci distingue e che non è componibile è che noi ucraini «pensiamo europeo». Le chiesi cosa significasse «pensare europeo». La risposta arrivò sintetica e precisa: significa assumere una visione laica della propria identità. Inevitabilmente in contrasto con la visione messianica e la missione profetica che affiorano periodicamente dai percorsi carsici del pensiero politico russo. Istituendo così una gerarchia di rango, insieme vittimistica e proterva, fra sé e gli «altri». Obiettai alla signora –  che avevo scoperto essere un ingegnere chimico e chiamarsi Oksana – che quell’ispirazione percorre le pagine più ispirate della grande letteratura russa. «Appunto – replicò – è una pianta che non si può estirpare!». In questa chiave andava interpretata quella relazione irrisolta di amore-odio che caratterizza la relazione fra l’Europa e la Russia mentre gli ucraini non rinunciano a coltivare l’appartenenza europea come un diritto negato e un sogno proibito. 

Aggiornando quelle intuizioni, Putin non sarebbe altro che l’ultimo e più feroce despota dell’antico assolutismo imperiale, da ripristinare alla bisogna bombardando cittadini inermi e minacciando il ricorso alle armi di distruzione di massa. Per una mente lucidamente paranoica è del resto intollerabile l’idea stessa di una comunità sovranazionale costituita attraverso un libero patto fra contraenti. Un’idea che rappresenta una sfida più pericolosa di quella rappresentata dagli USA – l’ex rivale uscito vittorioso dalla Guerra fredda – o dai missili della NATO. E più insidiosa del mortificante confronto con le economie delle democrazie continentali da parte di un Paese grande più dell’intera Europa ma che, con una popolazione tripla rispetto all’Italia, produce un pil inferiore a quello della Spagna o della sola Val Padana. 

Gli argomenti della bella signora mi risultano oggi più chiari e meglio comprensibili mentre osservo edifici abbattuti e cadaveri abbandonati nel fango. È l’espressione struggente di quella che è, o vuole essere, una «società aperta». La formula elaborata dal vecchio Popper è intellettualmente complessa ma di immediata presa comunicativa: una società fondata sul consenso e sul diritto, sottratta alla tirannia della forza. Per questo l’Ucraina desidera l’Europa e per questo l’Europa non può abbandonarla al suo destino. 

Il neoimperialismo russo si fonda sulla discutibile e confusa idea di una Russia accomunata da una sola lingua (il russo), una sola fede (il cristianesimo russo-ortodosso) e un solo leader (ieri lo zar, oggi Putin). L’idea forza dell’Europa vagheggiata a Ventotene da Altiero Spinelli ne rappresenta il perfetto rovesciamento. Assume come una risorsa il pluralismo linguistico e religioso: nella UE convivono decine di idiomi nazionali e più o meno tutte le fedi religiose. Afferma un modello di federalismo democratico basato sul consenso e affidato a un esercizio plurale della leadership. Non è dunque un caso che la vicenda ucraina abbia sollevato reazioni più forti e diffuse in Europa occidentale. Quell’Europa che il Galileo di Brecht chiamava «il giardino degli uomini» – la terra del logos e dei diritti – è stato un giardino troppe volte calpestato dal potere della forza. Ha fatto bene Edgar Morin a contrapporre a quelli “né con la Russia né con la NATO” – come i nostri videocantori del né né, come Canfora, Di Cesare, Orsini, Rovelli, in servizio permanente effettivo sugli schemi tv (manco fossero virologi!) – la concreta logica della storia “in diretta”. L’intollerabile doppia verità del “sì, però…”, fondata sulla ovvietà per cui torti e ragioni “non stanno mai da una parte sola”, è eticamente improponibile. Non si tratta di scegliersi amici e nemici bensì di prendere atto che nella terza decade del Duemila uno Stato sovrano è stato militarmente aggredito e invaso dalle forze armate di un Paese confinante con un terrificante spiegamento di forze e in assenza persino di una formale dichiarazione di guerra. Il pacifismo di ritorno va assimilato all’opportunismo degli indifferenti come già avvenuto quattordici anni fa quando chiudemmo colpevolmente gli occhi davanti alla seconda guerra di Ossezia, scatenata contro la Georgia, e sei anni dopo di fronte all’annessione della Crimea.

NICOLA R. PORRO