“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – IL CALCIATORE PIER PAOLO PASOLINI
di STEFANO CERVARELLI ♦
Poteva questa Agorà perdere questa occasione? Poteva proprio nei giorni in cui si celebra la ricorrenza della nascita di Pier Paolo Pasolini, non ricordare il grande amore di questo superbo artista per il calcio?
Una passione che in certi versi travalicava quella specifica per questo sport per incanalarsi, accentrarsi, proprio sul gusto di tirare calci al pallone preso a simbolo di un riscatto delle classi proletarie verso quelle più abbienti.
Nel calcio Pasolini riusciva a vedere non il semplice divertimento dell’assistere ad un incontro, quello lo considerava un atto borghese, lui era innamorato del gioco in se stesso, gioco come mezzo di riscatto, elevazione delle classi proletarie dalle cui realtà attingeva per i suoi capolavori.
Pasolini era attirato dal calcio “povero”, quello giocato in campetti rimediati sugli spiazzi polverosi delle periferia, con le porte fatte con le giacche, i maglioni, il libri.
Si può dire che nutriva una passione per la sfera di cuoio, per il divertimento di prenderla a calci, che ricordava la passione innata nei bambini verso la palla, un piacere che gli esperti di psicologia infantile hanno detto essere il frutto dei ricordi e dell’attrazione inconscia dei bambini per la pancia della mamma.
Certo che se questa, e non ho motivo di dubitarne, è la spiegazione che spinge già da piccolissimi a correre dietro una palla che rotola, il ricordo inconscio della gestione materna era forte in Pasolini e non l’ha mai lasciato.
Non mancano immagini che ci mostrano un Pasolini che, tolta la giacca, rimanendo in camicia e cravatta e rimboccandosi i pantaloni, prendeva parte a sfide furenti, che duravano oltre i classici 90′, per durare ore, a volte fino al tramonto.
Ma sarebbe riduttivo collocare l’artista solo all’interno di disfide di borgata.
Pasolini faceva parte della nazionale artisti ed era molto fiero di indossare quella maglia azzurra; per lui giocare queste partite oppure correre sulla terra di periferia con camici e pantaloni arrotolati significava la stessa cosa: impegnarsi sempre fino allo spasimo, dare il meglio di sè, sotto i riflettori degli stadi o sotto lo sguardo ammirato delle persone che dai palazzoni di periferia vedevano questo uomo, magro, piccolo, impegnarsi duramente per vincere una partita di pallone.
In un’epoca in cui la distanza fra il calcio dei campioni, dagli stipendi favolosi, e il mondo dei campetti si era fatto davvero abissale, Pasolini colpiva anche per questa trasversalità: la partita improvvisata nella più remota delle borgate romane, valeva, ed era vissuta, quanto quella giocata accanto ai campioni del momento, oppure quanto quelle di goliardiche sfide, una per tutte: quella organizzata tra la sua troupe impegnata nel girare Salò contro quella di Novecento di Bernardo Bertolucci. Vinse questa per 5 a 2, ma a parziale giustificazione della troupe pasoliniana bisogna dire una cosa. Bertolucci, di nascosto, fece passare come componente della sua troupe in qualità di attrezzista un ragazzo di soli 16 anni, ma che, da lì a poco, avrebbe fatto parlare di sè, e non certo come attrezzista: Carlo Ancellotti che segnò anche un goal. Seppur imbrogliando bisogna dire che Bertolucci aveva visto giusto.
Appare evidente che il calcio di Pasolini non era moda, non era folclore, era fatica, sudore di chi lotta per qualcosa; lo definiva “ rappresentazione sacra” “spettacolo che presto avrebbe sostituito il teatro”.
Il pallone ha sempre contrassegnato la vita di Pasolini, da quando, come diceva lui, a tre anni, andava nei giardinetti “di fronte casa mia“ a vedere i ragazzi giocare, lì, come ricordava, viveva per le prime volte l’aspirazione a diventare grande, per poter partecipare a quel gioco.
Tra quei giardini e la mattina del due novembre 1975 ci sono stati mille palloni, mille campi, le partite dei prati di Caprara di Bologna che, come dicevo prima, duravano anche sei-sette ore e che lui definì “i più bei pomeriggi della mia vita”.
Ma com’era Pasolini calciatore? I ricordi grosso modo concordano nel definirlo dotato di parecchia volontà, ma di non altrettanta tecnica. Di lui si ricorda che aveva molto fiato e che correva tanto. Di passaggio voglio ricordare che Pasolini non disdegnava altre discipline sportive: gli piaceva fare lunghe pedalate sulle Dolomiti, ha partecipato a gare di mezzofondo universitarie e si è cimentato anche nel basket.
Una testimonianza ci dà di lui un’immagine alquanto vicina al rapporto che aveva con il calcio. E’ dell’attore Franco Citti, scomparso nel 2016 e che conosceva bene Pier Paolo Pasolini: ”Dopo le partite, si immusoniva di nuovo, tornava ad assumere la sua aria triste. Era finita l’esaltazione, il momento magico che lo faceva ritornare ad essere come un ragazzino. A sorridere.
Sporchi di terra e fango, grondanti di sudore, ci infilavamo sotto le docce e lui ritornava a essere solo. Si ritrovava immediatamente ad annegare nei pensieri e nei problemi che non raccontava mai a nessuno”.
Il calcio, associato alla sua curiosità, lo sollecitò anche per il suo lavoro di regista; per cercare un protagonista per Il fiore delle mille e una notte, andò a vedere le partite delle serie A Etiope.
Il pallone entrò pure nell’ultima scena della sua vita.
Proprio in quella mattina di novembre del 1975 un gruppo di ragazzi con sottobraccio un pallone si recarono sulla spiaggia di Ostia per disputare una partita, furono rimandati indietro dalla polizia perché “lì non si poteva stare, c’era un morto”; se ne tornarono a casa quei ragazzi senza immaginare lontanamente che quel corpo straziato apparteneva ad uomo che in quel grigio mattino, avendoli potuto incontrarli sulla spiaggia, non avrebbe esitato ad unirsi a loro per correre sulla sabbia dietro una sfera di cuoio, cercando di mandarla in una porta fatta con i maglioni.
STEFANO CERVARELLI
Purtroppo io non mi intendo di calcio, ma questo bellissimo scritto riporta tutta l’umanità di Pasolini attraverso il filtro di uno sport universalmente amato e lo rende ancor più caro nella ricerca della dimensione “eroica” che ha segnato tutta la sua vita, anche in un gioco che penso fosse per lui un momento forte di condivisione
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