Anche “transustanziazione” è cacofonico eppure lo usiamo.  

di VALENTINA DI GENNARO

Lo schwa, che si pronuncia scevà all’italiana o alla tedesca [ʃva], deriva a sua volta dalla parola ebraica שווא (šěwā’, /ʃəˈwaːʔ/) e sembra fare così tanta paura ad accademici e ai protettori, e protettrici, della lingua italiana.

Siamo sicuri che a intimorire sia il possibile imbarbarimento della lingua italiana oppure ci fa paura la possibilità di accogliere, nel nostro eloquio quotidiano, un linguaggio più inclusivo?

Dopo le polemiche per la petizione di alcuni intellettuali e accademici contro l’uso della vocale neutra, chi la promuove chiede una maggiore riflessione sull’importanza della rivendicazione. Perché?

Il ricorso alla denuncia retorica del politicamente corretto, che è un’arma delle estreme destre, serve solo a eludere il portato conflittuale, e politico, di queste rivendicazioni.

A forza di essere contro il “politicamente corretto” si incorre, infatti, nella possibilità di essere politicamente banali.

Lo schwa, la vocale neutra, del cui uso, si sta discutendo all’interno del dibattito e del movimento transfemminista e queer, nel tentativo di proporre un linguaggio più inclusivo di quello attuale, che vede il predominio esteso del genere grammaticale maschile, soprattutto al plurale.

Quando in italiano ci rivolgiamo a “tutti”, infatti,  facciamo ricorso a un maschile plurale, appunto detto  sovraesteso, che, nel presentarlo come neutro e universale, in realtà nasconde  la pluralità dei generi. Sicuramente ingloba il femminile, per esempio.

Secondo alcune teorie del linguaggio, che non entusiasmano nemmeno me a dirla tutta, l’uso dello schwa consentirebbe di aggirare questo pericolo. Nei giorni scorsi, in seguito all’adozione della vocale neutra nel bando di un concorso pubblico all’università, è stata lanciata una petizione contro il suo utilizzo, il cui primo firmatario è il linguista e scrittore Massimo Arcangeli.

Qui il grosso nodo. Il dibattito ridotto a schieramenti: ǝ sì, ǝ no.

Ma lo schwa (perché lo schwa è maschio) è solo un altro, l’ultimo in ordine di tempo dei tentativi di rendere il linguaggio più inclusivo: prima c’è stato il femminile sovraesteso al posto del maschile, poi  l’uso della vocale “u”, degli asterischi e di altri segni grafici in sostituzione delle normali desinenze di genere.

Questi tentativi non mirano a “eliminare” i generi grammaticali, figuriamoci quelli biologici, ma a proporre un linguaggio maggiormente inclusivo nei riguardi di quelle persone,  o gruppi sociali, che non si identificano nel genere assegnato loro alla nascita o che non si identificano in nessuno dei due generi binari, offrendo loro la possibilità di scegliersi il proprio genere grammaticale.

Perché, mentre il sesso biologico ce lo impone la lotteria genetica, il genere in cui ci si riconosce è una costruzione sociale!

Sociale e quindi comunicativa e quindi linguistica!

Nella famosa petizione, i sostenitori (ecco un maschile sovraesteso) dello schwa, vengono definiti  come “una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi”.

Credo, molto semplicemente , che queste, così come l’uso dello ǝ, siano sperimentazioni linguistiche e che servono sostanzialmente a individuare e sottolineare   “che lì c’è un problema”, offrendo nello stesso momento  “uno strumento pratico a coloro che non si riconoscono nei generi grammaticali imposti, affinché nessuna persona o soggettività minoritaria debba annoverare fra i suoi problemi anche quello di non disporre di un linguaggio che la rappresenti”.

Si tratta, per citare come sopra, il filosofo Federico Zappino,  di “sperimentazioni sovversive”.

Veniamo ad alcuni punti critici importanti. Che ci sono.

Innanzitutto il fatto che la difficile pronunciabilità di alcuni segni possa effettivamente costituire un problema per la comunicazione, offrendo così il pretesto per polemiche e petizioni che servono solo a ribadire il potere e il privilegio di chi le firma: “È il modo migliore per liquidare l’importanza delle trasformazioni del linguaggio, delegittimandone il portato politico”.

Contro questi rischi, ci dice, “è importante sperimentare nuove strategie i cui effetti si estendano decisamente oltre al bacino specifico di coloro che hanno accesso a una certa tipologia di testi e contenuti e che dispongono degli strumenti politici e culturali che consentono loro di prendere parte alle sperimentazioni linguistiche, come nel caso dell’asterisco o dello schwa”. Per un superamento più generale del maschile sovraesteso – che per Zappino costituisce “l’indicatore linguistico del dominio politico degli uomini sulle donne e sulle minoranze di genere e sessuali, in tutti gli ambiti della società” –, potrebbe essere necessario fare ancora molti passaggi, “sperimentazioni della malleabilità del linguaggio che abbattano la necessità delle marcature di genere, favorendo al contempo la pronunciabilità e la comunicazionein modi inequivocabili, aggirando così i rischi degli esotismi”.

Insomma lo ǝ è appena una sperimentazione, se sarà in grado di trasformare effettivamente, nel tempo, i rapporti di potere insiti nel linguaggio, ce lo dirà solo il tempo, tuttavia, bisogna sottolineare come ci sia sempre, ancora, bisogno delle marcature di genere (ovviamente di quelle femminili): mi riferisco per esempio ai nomi delle professioni e dei mestieri. Molte ancora le obiezioni in proposito, tra le quali quella della cacofonia.

Anche “transustanziazione” è cacofonico eppure lo usiamo.

Si usano le parole che ci servono, non quelle che ci piacciono.

Insomma, sono convinta che la ritrosia sul cercare un modo di includere le persone non binarie nel linguaggio non sia solo in relazione all’integrità della lingua.

La lingua cambia, io non parlo la stessa lingua dei miei genitori, figuriamoci quella dei miei nonni.

Fino a poco tempo fa, in eminenti riviste scientifiche, si usavano termini come mentecatto, idiota, demente, isterica, mongoloide.

Eppure abbiamo deciso, dall’alto, che non si potessero più usare, neanche nel linguaggio scientifico: per il fine di una lingua più inclusiva, ed erano definizioni scientifiche e mediche. Di centinaia di anni.

La questione è politica.

Ecco perché l’uso di certi suoni, segni grafici o simboli, ha una portata di conflitto così dirompente.

VALENTINA DI GENNARO