IL TEATRO TRA VERITÀ E DENUNCIA: MARIO TRICAMO – 6. Il teatro politico: storia, protagonisti e varianti

di GIULIA MASSARELLI

Parlare del teatro politico significa parlare di un teatro che nasce dalla realtà, dal vissuto delle persone e che si basa su della documentazione, testimonianze, su un sentire comune e condiviso.

Nel corso del Novecento sono sorti, per esigenza e spontaneità, diversi tipi di teatro politico che si possono considerare come dei sottogeneri, delle varianti di un unico e più generale modo, o meglio genere, di classificazione teatrale.

Ciò che accomuna tutte queste varianti, e quindi che li identifica come generi/tendenze derivanti da questo tipo di teatro, è il peculiare uso del linguaggio, inteso come scrittura scenica, e dal rapporto di comunicazione con il pubblico.

Dunque, un teatro è politico nella misura in cui i suoi stessi strumenti linguistici determinano un nuovo rapporto tra platea e palcoscenico. Gli spettatori non devono essere passivi, ma svegli e partecipi a ciò che vedono: questo anche grazie all’uso di temi e argomenti reali e attuali, contemporanei, diffusi tra il popolo. Il teatro, quindi, assume un valore popolare.

Lo studioso Lorenzo Mango in merito al Nuovo Teatro ha affermato che tra il 1976 e il 1985 si stava determinando una varietà e una stratificazione di esperienze diverse. In questo complesso fenomeno, Mario Tricamo – attivo nello stesso periodo a livello professionale – non si collocava all’interno, ma condivideva le principali innovazioni, in primis il nuovo spazio scenico e il rapporto con il pubblico.

Nel contesto del Nuovo Teatro, si parla di teatro politico attraverso gli esempi di gruppi e drammaturghi, a partire dagli anni Sessanta; di un teatro, dunque, che si oppone e distacca dal teatro ufficiale. Di quest’ultimo, si contestano i metodi e le finalità, ponendosi fuori dalla logica del successo commerciale e dei condizionamenti burocratici. Il Nuovo Teatro, costituisce un’alternativa al teatro ufficiale perché prospetta l’utopia di un teatro che è politico in quanto è capace di penetrare realmente nella società e di indagare i bisogni di un nuovo pubblico.

Il fine del teatro politico, che coincide con il fine delle sue varianti, è la ricerca della verità attraverso la conoscenza della realtà. Il fine della rivoluzione linguistica è politico in quanto prospetta un nuovo teatro aperto ai bisogni reali del pubblico, stimola una presa di coscienza critica da parte degli spettatori e instaura un dibattito su temi problematici.

L’arte di questo tipo di teatro è espressione di un esistere che parte da sé stessi e si diffonde a macchia d’olio sulla popolazione. Perché è un genere che non si fa solamente per sé stessi o per gli altri, è un teatro che si fa insieme. Uno spettacolo del genere non serve solo ad attivare le coscienze e a prendere una posizione critica, ma richiede impegno, determinazione, comunicazione e vede protagonisti tutti: la Storia, l’ingiustizia, la denuncia, il popolo-spettatore, gli attori.

Come già affermato, sono molte le varianti: teatro della crudeltà, teatro che fonda la sua essenza nel rapporto osmotico tra arte-vita, teatro laboratorio, teatro collettivo, teatro di propaganda e teatro epico. Sorge poi il dubbio di come fondere arte e politica, se è veramente possibile una simbiosi o se i due argomenti devono essere separati. E capire, se possono convivere insieme, quale è il modo migliore: nasce così il teatro popolare. Al fianco di tutte queste varianti si aggiungono quei sottogeneri i cui testi prendono le mosse proprio dai documenti, atti giudiziari, testimonianze dirette, come il teatro di cronaca, documentario, di narrazione e il teatro civile.

È in tutto questo fermento, in questo contesto politico e sociale della seconda metà del Novecento che Mario Tricamo pensa al suo teatro, ne sviluppa e analizza le differenti tendenze e crea il suo teatro di denuncia.

Dunque, non si tratta semplicemente di un problema di definizione, ma di tante e variegate sfaccettature di una stessa medaglia, un grande teatro che fuoriesce dalle quattro anguste mura e si fa voce e speranza di un popolo che vuole giustizia e verità.

 

Gli sviluppi del teatro politico nel corso del Novecento

Si può cominciare a parlare di teatro politico con una delle figure più importanti dell’avanguardia teatrale tra le due guerre, Antonin Artaud (1896-1948), il quale aveva preconizzato uno spettacolo crudele nel senso che doveva investire lo spettatore nella mente, nel cuore, nei nervi e nel sangue. Questa forma di aggressione si può ottenere condizionando la parola ai gesti e dando a questi ultimi una forma di rituale altamente semplice e ripetitivo. Il codice linguistico propugnato da Artaud è alla base della scrittura scenica, in cui la produzione del senso prescinde dall’uso di un testo scritto e della parola, determinandosi invece attraverso la pluralità dei linguaggi. Questo tipo di teatro è politico nella misura in cui i suoi stessi strumenti linguistici determinano un nuovo rapporto tra platea e palcoscenico non più fondato su una comunicazione passiva, ma attiva e partecipe. Il teatro della crudeltà si configura come un evento che si consuma nell’hic et nunc e agisce direttamente con i suoi mezzi specifici sui sensi degli spettatori. Nella concezione di Artaud il mondo è malato e il teatro è lo strumento per una possibile guarigione. Definiva il suo teatro della crudeltà perché per raggiungere il suo fine avrebbe dovuto costringere lo spettatore a guardare dentro di sé. La crudeltà auspicata da Artaud non era perciò di tipo prevalentemente fisico, bensì morale e psichico: si tratta di una crudeltà che doveva giungere a toccare l’istinto, costringendo l’attore a immergersi fino alle radici del suo essere e il pubblico a partecipare emotivamente al processo, in modo da lasciare il teatro, alla fine dello spettacolo, spossato, coinvolto e forse trasformato.

Il teatro di Antonin Artaud va oltre la realtà, la supera per arrivare a esprimere verità segrete: mette in luce la verità.

Un altro esempio di teatro politico – quindi anche dell’uso di un nuovo linguaggio e nuovo modo di comunicare – lo troviamo con il Living Theatre, una compagnia di teatro sperimentale fondata a New York nel 1947 da Julian Beck e dall’attrice e regista Judith Malina, allieva di Erwin Piscator.  Il Living Theatre considera il teatro un rapporto osmotico tra arte e vita, l’utilizzo del gesto come materiale scenico che sostituisce la parola. Il gruppo si propone come compagnia capace di identificare la ricerca artistica con la lotta politica e rinnovare profondamente il modo e le tecniche teatrali, costituendoli come forme di intervento politico rivolto a realizzare la rivoluzione. I loro spettacoli si caratterizzano come una partitura, nuova concezione di spettacolo.

Il modus operandi del teatro politico presenta due aspetti: quello dell’innovazione, intesa come ricerca di laboratorio che si fonda sulla dialettica arte-vita comune alla Postavanguardia, e quello della popolarità/collettività, che è l’essenza e l’esistenza di quella vita.

Il teatro laboratorio luogo di studio e ricerca, realizza un rapporto dialettico con la realtà e rappresenta un modo di intervento nel corpo vivo della società, reso possibile grazie all’uso delle tematiche popolari, cioè argomenti che toccano da vicino i problemi attuali comuni ad una larga fetta del popolo, elaborate attraverso un lavoro di gruppo o nel caso di un lavoro drammaturgico individuale, attraverso un lavoro collettivo attuato nella fase di progettazione, di elaborazione e di realizzazione della messinscena.

Per teatro collettivo si intende una struttura dove si è abolita qualsiasi gerarchia per realizzare un lavoro che vede tutti partecipi allo stesso modo e il cui scopo principale è quello di provocare il pubblico in senso rivoluzionario, cioè attraverso sollecitazioni offerte dalle tematiche popolari. Il teatro collettivo si concretizza sulla scena e attraverso una collaborazione stretta tra i membri del gruppo, ma anche attraverso l’eliminazione del diaframma tra palcoscenico e platea.

L’idea del teatro laboratorio e collettivo confluisce nel più ampio progetto che prevede la nascita di un teatro formativo, un teatro che aspira ad avere come referente un pubblico differenziato da formare, eliminando qualsiasi distanza tra creatore e fruitore. Si viene così a creare una relazione biunivoca tra teatro e società, un’osmosi tra segni scenici e pubblico contemporaneo.

GIULIA MASSARELLI                                                                                                               (continua)