“Politicamente corretto” e linguaggio inclusivo.
di ENRICO IENGO ♦
Qualche giorno fa un nutrito gruppo di intellettuali, filosofi, storici e scrittori, quali Claudio Marazzini, presidente della Crusca, Massimo Cacciari, Alessandro Barbero, Luca Serianni, Edith Bruck, hanno firmato un appello contro l’uso dello (o della?) schwa nel linguaggio scritto; ad oggi si è arrivati ad oltre 15000 firme. Il termine indica l’uso della e capovolta (Ə) che viene utilizzata per sostituire le desinenze maschili e femminili al singolare. Per i sostantivi plurali maschili e femminili, non binari, lo “schwa” ammette la desinenza: “3”.
Riporto per coloro che non hanno letto la petizione alcuni stralci significativi di questa: “Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito di inclusività, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della <e> rovesciata non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predica regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche”.
L’appello continua prendendo di mira I fautori dello schwa che esortano a sostituire i pronomi personali “lui” e “lei” con “lƏi”, consapevoli che così facendo si sancisce la morte di termini quali “direttrice”, “pittrice”, “autrice” e “lettrice”. Chiosano i firmatari: “Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili. Nel latino classico <pictrix>, come femminile di <pictor> non esisteva”
Si arriva al punto che gli articoli determinativi convergano nell’unica forma “lƏ”, e i rispettivi plurali in “l3”. L’appello termina con la forte considerazione che lo schwa e altri simboli, oppure specifici suoni (come la “u” in “caru tuttu”, per “cari tutti” e “care tutte”) sono modifiche del linguaggio “frutto di un perbenismo superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività”.
Già oggi, nota Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, se ne fa uso in bandi di concorso o in verbali di Commissione, e il medesimo riporta alcuni inquietanti esempi pubblicati ufficialmente: ”La consultazione da parte dell3 Commissar3 delle pubblicazioni dell3 Candidat3 soggette a copyright…..”, oppure “..non avere relazioni di parentela….con gli altri commissar3”. Come la mettiamo in questi due casi con gli articoli? La confusione è tanta commenta Gian Antonio Stella.
Inutile dire che intorno a questo appello si sta scatenando un dibattito aspro, soprattutto all’interno della sinistra. La scrittrice Michela Murgia ha preso decisamente posizione, affermando che ha riempito il suo nuovo libro di <Ə> perché “..all’interno di un sistema sessista come il nostro lo schwa è un inciampo necessario dell’occhio..”.
Quindi lo scopo dei sostenitori della “Schwa” sarebbe quello di arrivare ad “una maggiore inclusività del linguaggio, meno legato al predominio maschilista”, di conseguenza andrebbe inscritto nell’ambito del politicamente corretto.
Il linguaggio, lo sappiamo tutti, cambia, è in continua evoluzione e queste mutazioni sono funzionali a trasformazioni nella società, nell’economia, nelle relazioni interpersonali e fra popoli: quanto più globalizziamo il nostro modo di vivere tanto più rapidamente il linguaggio si arricchisce di nuovi termini, magari di importazione e si impoverisce di altri.
Siamo al cospetto di una nuova κοινή. Le parole sono importanti, sono strumento identitario con il quale costruiamo la realtà e al di là dell’appello di cui ho parlato sopra e che mi sento di sottoscrivere in pieno, non c’è dubbio che soprattutto di fronte a termini stranieri molti paventino esageratamente rischi e derive per la nostra bella lingua italiana
Ma vorrei tornare al “politicamente corretto” di cui si parla nell’appello di Massimo Arcangeli, termine associato questa volta ad una particolare valutazione negativa che ne fanno i firmatari. Giudizio negativo condiviso nel suo significato più estensivo da una buona parte dell’opinione pubblica.
I filosofi Andrea Colamedici e Maura Cancitano nell’interessante libro “L’alba dei nuovi dei” citano il linguista Federico Faloppa che fa risalire il concetto di “correttezza politica” al suo utilizzo, fino alla metà degli anni 80, da parte della sinistra con il significato della “necessità di coerenza tra idee e azioni, cercando sempre di fare e pensare la cosa giusta, seguendo fedelmente la linea del partito”.
In seguito l’espressione -secondo i due filosofi- continuò a circolare al di fuori di quell’ambiente, ma stavolta con una connotazione ironica e derisoria. L’acronimo P.C. fu introdotto per la prima volta dai repubblicani negli USA che ne riuscirono a capovolgere il significato.
La politica di molte università in quegli anni fu quella di accogliere minoranze, prima escluse, sia etnico-religiose, sia afro-americane, sia LGBT+, scatenando la reazione di una destra che arrivò a paventare una discriminazione al contrario, ove l’ammissione non era per merito, ma per appartenenza a minoranze etniche o femminili, minando così gli ideali e i valori tradizionali degli Stati Uniti.
Concetti come ferita alla libertà di espressione, nuovi fascismi, politica segregazionista circolarono alimentati dai media, almeno da quella parte che era espressione della destra di quel paese.
In Italia il “politically correct” ha avuto storia e caratteristiche un po’ diverse. Intanto è stato intestato anche qui alla sinistra, ma non solo, anche alle associazioni di volontariato e alla parte del clero più sensibile ai diritti umani. I temi ricorrenti nel politicamente corretto riguardano l’accoglienza dei migranti, la difesa delle minoranze e degli ultimi, i diritti delle donne e dei transgender. In generale il rispetto dei diritti, dei valori e della dignità degli uomini e delle donne.
Tutto ciò ha determinato attraverso soprattutto i social una reazione rabbiosa: “il buonismo” che pensa agli altri, “quando non si arriva alla fine del mese”, che pretende di dare lavoro agli stranieri quando in Italia non c’è lavoro, o di dare la casa all’immigrato escludendo gli italiani.
Con un retropensiero: tutta questa solidarietà viene percepita come il mezzo per arrivare a distruggere l’identità, i valori di questo nostro paese o per imporre una ideologia egualitaria dietro la quale incombono le minacce dell’Europa o della Finanza mondiale che compromettono le nostre libertà individuali. Secondo questa versione, cavalcata dalla destra e dai populismi in generale, dietro il politicamente corretto ci sono i “radical chic” della sinistra, intellettuali benestanti che predicano buoni pensieri perché se lo possono permettere, quando “ben altri” sono i problemi.
E’ una divisione profonda, dietro la quale c’è una spaccatura culturale, un divario intellettuale ove, per dirla in termini gramsciani, la sinistra non è riuscita a conquistare l’egemonia culturale, non è penetrata nella società civile, ma spesso ha dato involontariamente l’impressione di assumere atteggiamenti di superiorità morale e intellettuale . Occorre ricucire questo strappo, non sarà facile, ma da ciò passa il futuro stesso della sinistra. Certo non si deve sacrificare a questo obiettivo la difesa e il rispetto dei diritti degli sfruttati, delle minoranze, in qualsiasi circostanza, ma attenzione ad un messaggio che può suonare come elitario e solo di principio.
Torniamo al punto di partenza: ma veramente è il linguaggio inclusivo della schwa, la priorità che ci aiuterà a superare le discriminazioni di genere? O rappresenta l’ennesimo esempio che rafforza il “benaltrismo”, che approfondisce le distanze, che scatena le accuse di non saper pensare ai problemi della “gente”? Si può lanciare, in alternativa un messaggio “politically correct” che consista, per fare solo due esempi, nel battersi per superare il gap retributivo tra uomo e donna, per garantire quei servizi che liberino le donne dall’obbligo di scegliere fra lavoro e famiglia o tra famiglia e lavoro pieno e di responsabilità?
Per finire, non riesco a concepire qualsiasi minaccia, anche potenziale, alla nostra Letteratura, alla nostra Poesia: i nostri padri non ce lo perdonerebbero. Ciò che Calliope ed Erato ci hanno donato nei secoli è troppo importante per sacrificarlo ad una “e” capovolta o ad un asterisco. Questo è il mio “politicamente corretto”.
ENRICO IENGO
Un contributo interessantissimo per i riferimenti sociolinguistici e culturali. Si tratta di una battaglia che mi lascia in uno stato di sospensione perché impostata su una scelta esclusivamente grafica che rovescia il rapporto storico tra lingua parlata, molto più dinamica e aperta all’innovazione, e lingua scritta, conservatrice e meno flessibile. D’altra parte è la segnalazione di predomini e privilegi ormai in sopportabili. La complessità odierna in questo ambito segnico reclama un mutamento di rotta,che nella proposta dello swa è evidente rottura fonetica e semantica. Penso che comunque si decida, aver sollevato la questione sia stato un atto dovuto. La tradizione letteraria resta quel che è, per suo statuto ferma nella sua monumentalità.. e la citazione che la riguarda pure.. Ma i nuovi esiti parlati pongono il problema della pronuncia. Un bel groviglio
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Riflessioni preziose soprattutto perché riferite a mutamenti linguistici e culturali che riflettono trasformazioni sociali e culturali a più ampio raggio. Non è casuale, ad esempio, che la questione del “politically correct” sia emersa prima e con particolare forza negli Usa. Un Paese di immigrati che si è dato la lingua della comunità dominante mentre affidava la propria materiale edificazione a generazioni di schiavi. Nel tempo della globalizzazione si è imposta una sorta di esame di coscienza collettivo che ha interessato soprattutto le élite intellettuali. Tale rivoluzione antropologica, alo stesso tempo, si é innestata su una cultura sociale permeata di etica calvinistica ma priva del retroterra umanistico europeo. Di qui forse qualche eccesso di zelo che non giova nemmeno alle cause più nobili. Insomma: come sempre… est modus in rebus.
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Una componente del problema da non sottovalutare penso che sia quello della dizione. Di fatto, noi tutti parliamo uno dei tanti italiani regionali di cui scrive Tullio De Mauro, che nella spontaneità della vita quotidiana ci appartiene intimamente come la grafia e la camminata, ed è difficilissimo da alterare: per fare solo un esempio, che magari lascia il tempo che trova, io ho vissuto in regioni diverse e ho accolto con naturalezza e molto piacere vocaboli di altre zone, ma non la pronuncia, che mi rimane inalterata e che mi sforzo di sprovincializzare solo in situazioni “ufficiali”…
Questo per dire come, al di là delle buone intenzioni, il problema sia di complicatissima soluzione. Comunque su una cosa sono d’accordissimo: quando si parla di lingua, è sempre un segnale di grande ricchezza e civiltà
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Decisamente l’intento è da condividere ma credo che la lingua si debba evolvere nel tempo e non a tavolino e infatti le desinenze al femminile di alcune professioni cominciano a non sembrare così orribili come lo erano inizialmente, ma se possiamo anche accettare questo cambiamento sullo scritto non riusciamo a condividerlo foneticamente
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