“OLTRE LA LINEA” A CURA DI SIMONETTA BISI E NICOLA R. PORRO – In guerra con la modernità: il viral-populismo (IV)

di NICOLA R. PORRO

Il conflitto culturale che si è scatenato attorno alla questione vaccinale nei Paesi colpiti dalla pandemia può rappresentare un caso esemplare dell’opposizione fra etica della responsabilità ed etica della convinzione. L’aveva descritta Max Weber tracciandone il profilo in una delle più citate conferenze della storia della sociologia, tenuta a Monaco di Baviera nel 1919. La riflessione aveva per tema la Politica come professione – o meglio il rapporto fra etica e politica – e muoveva da alcune premesse che è indispensabile richiamare. La prima di tali premesse riguarda una rappresentazione laica e disincantata della politica come territorio della forza e del conflitto. Il suo fondamento regolativo e ordinativo risiede in ciò che la lingua tedesca definisce Beruf, rinviando però a due nozioni che l’italiano distingue: quella di professione e quella di vocazio­ne. Si tratta di concetti polisemici ma non di rado sovrapponibili, come accade nella sfera della politica quando Beruf può riferirsi a modelli etici differenti e persino opposti. Da una parte, la Gesinnungsethik, traducibile come etica della convinzione o (più esattamente) dei princìpi. Dall’altra la Verantwortungsethik: l’etica della responsabilità. La prima si considera interprete di una verità assoluta, non negoziabile e capace di ispirare comportamenti concreti prescindendo dai loro possibili effetti. All’opposto, l’etica della responsabilità esige la valutazione delle conseguenze che l’agire può produrre. Per fare un esempio relativo alle condotte economiche: il calcolo costi-ricavi che regola la filosofia dell’impresa e costituisce il codice normativo del capitalismo, non può essere sottomesso alla Gesinnungsethik. Essa, al contrario, si ispirerà al principio della responsabilità che informa la Verantwortungsethik e che rappresenta per Weber uno dei capisaldi della modernità.

Allo stesso tempo, ammoniva Weber misurandosi con la rappresentazione della politica anticipata cinque secoli prima da Machiavelli, «il raggiungimento di fini buoni è accompagnato il più delle vol­te dall’uso di mezzi sospetti», e «nessuna etica può determi­nare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifica” i mezzi e le altre conseguenze moralmente peri­colose». Chi non tiene conto di questo — che dal bene non deriva sempre il bene e dal male non deriva sempre il ma­le — «in politica è un fanciul­lo». In altre parole: la missione della politica, il suo autentico Beruf, è quella di contemperare, nella pratica quotidiana e concreta, le due visioni e le due logiche di azione che le tassonomie astratte pongono in conflitto. La buona politica è quella che riesce ad accordare disincantato realismo e responsabilità morale. Consapevole che i dilemmi etici non possono essere risolti in assenza di un solido riferimento ai valori, essa è però chiamata a diffidarne perché essi sono per definizione molteplici, diversamente elaborati e socializzati, non sempre armo­nizzabili e passibili di entrare in conflitto proprio al momento di tradurli in comportamenti pratici. Ciò che Weber chiama politeismo dei valo­ri“ può rendere ardua e persino impossibile la decisione politica in assenza di adeguate strategie di mediazione e di composizione delle controversie. Elaborarle, praticarle, adattarle è fare della politica una «professione». L’ideologia no vax – quella professata dal suo zoccolo duro – si colloca perciò con solare evidenza nella sfera esclusiva della convinzione. L’antipolitica risponde a imperativi categorici, rifiuta qualunque compromesso, si arrocca in una visione del mondo alternativa, argomentata alla bell’e meglio ma impossibile da scalfire. Al punto che persino l’ala più paziente e dialogante dei pro vax ha via via rinunciato a incrinare resistenze caratteristiche di una controcultura in gestazione più che di un segmento di opinione pubblica mobilitato da motivazioni circoscritte. Si punta semmai a limitare il danno alzando la soglia dell’immunità di gregge e confidando nella progressiva remissione dell’offensiva virale.

Il disincanto no vax, perciò, non assomiglia affatto a quello prodotto dalla rivoluzione culturale della modernità che dall’Illuminismo ha condotto alla rivoluzione industriale, alla filosofia positivistica e all’ordine mondiale del Novecento. Alla razionalistica venerazione della scienza, propria della modernità, la protesta no vax oppone quel «cinismo della postmodernità» che, sconfessando l’autorità dei saperi, delegittima l’etica della responsabilità come un’anacronistica eredità del tempo delle false certezze. La funzione costruttiva assegnata al dubbio dalla filosofia di Cartesio agli albori della modernità lascia così il posto a una controcultura del sospetto pronta a dare forma a quel regime della paura che Donatella Di Cesare (2021, 2022), in polemica con il “cattivo maestro” Giorgio Agamben, ha definito fobocrazia. Una diffusa incertezza sociale sembra insomma rappresentare l’effetto inintenzionale proprio della brusca accelerazione di quella rivoluzione tecnico-scientifica che, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, aveva nutrito la percezione del progresso come processo lineare e a velocità crescente. Ma le magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria, proprio perché inarrestabili, appaiono imprevedibili e sottratte a ogni possibilità di controllo da parte di chi non detenga le chiavi di accesso a un sistema di cui si ammira la potenza e insieme si teme la pervasività. Ad arginare l’inquietudine non opera nemmeno più – o certamente non più con la medesima forza ed efficacia – l’idea che le magnifiche sorti siano davvero progressive. Non ci sono un sol dell’avvenire o la speranza di un’umanità emancipata dal bisogno e dall’affermazione dei diritti ad alimentare sogni collettivi e a indicare una meta. Nemmeno è vero, d’altronde, che il conoscibile sia finito e che la scienza accresca gradualmente e sistematicamente – come nella vulgata del primo positivismo – la conoscenza del mondo. Aumenta, semmai la consapevolezza di quanto grande sia ciò che non sappiamo.

Lo stigma populista di cui è vittima la scienza non assolve dunque gli scienziati dalle loro responsabilità, a cominciare da una rappresentazione esageratamente ottimistica dei progressi delle conoscenze. Dal XV secolo in poi i continui successi hanno autorizzato gli scienziati a indossare con giustificato orgoglio i panni dei sacerdoti del progresso e dei benefattori dell’umanità. Rappresentazione non illegittima se solo si pensa – per limitarci all’ambito medico-sanitario – alle malattie vinte, alle esistenze salvate, al costante prolungamento delle aspettative di vita. Inevitabilmente, tuttavia, nell’esercizio della loro professione, i medici hanno imparato a rimuovere o celare dubbi o incertezze che potessero riverberarsi sulla fiducia dei pazienti – risorsa preziosa ma bisognosa di continue conferme – e sulla loro serenità. Questa comunicazione anestetica è stata sfidata dalla prima grande pandemia del XXI secolo. Si è già detto che non siamo in grado di disegnare un convincente profilo socio-demografico del disincanto. Nel caso italiano, tuttavia, lo zoccolo duro – il più attivo nelle campagne social e il più incline a una rappresentazione antagonistica del confronto sul tema –  sembra costituito dalle classi d’età mediane e da soggetti a livello di istruzione medio-basso. Le prime (i cinquantenni) sopportano meglio di quelle più giovani le limitazioni imposte dal virus alle relazioni di socialità. È invece probabile che i secondi non dispongano di adeguati strumenti scientifici e culturali ma coltivino la convinzione difensiva di “saperne abbastanza” per diffidare delle verità ufficiali. L’effetto perverso è di elevare i più banali pregiudizi al rango di «diverse opinioni». La pretesa che sia rimossa la legittima quota di incertezza che accompagna ogni azione umana fa così in modo che ogni evidenza sia esposta al sospetto della manipolazione. La prudenza deborda nella paranoia: e se il vaccino mi fa male? se dà gravi effetti secondari? se comunque non mi garantisce l’immunità? La paura costituisce un sentimento umano utilissimo: ci avvisa di pericoli che sono reali, ci fa prendere delle misure per prevenirli o almeno per evitare i danni maggiori. Se però non rappresenta altro che l’incapacità di sopportare l’incertezza, finisce per costruire pericoli immaginari: genera paralisi. Il sospetto assume a scala di massa un’inquietante dimensione esistenziale che può alimentare – come insegna la genesi dei totalitarismi – tragiche derive sociali e politiche.

Gemmata dalla subcultura dei social, la rivolta no vax ne mutua l’ipersemplificazione e la banalizzazione del messaggio. Con il rischio di favorire l’indebita identificazione fra antipopulismo e ideologia dello scientismo, da una parte, e fra populismo tout court e prevenzione antiscientista. In proposito, Paola Angeloni, commentando sul nostro blog l’articolo di Simonetta Bisi «Il popolo: una comunità immaginata. La sottile seduzione dell’autoritarismo» (3 febbraio 2022) segnalava opportunamente l’esigenza di distinguere fra le molteplici tipologie che sono state via via sussunte nella categoria di populismo. Formula che andrebbe infatti sempre declinata al plurale: esistono numerose varietà di populismi, ma il populismo in quanto tale non rappresenta un idealtipo sociologico bensì un’approssimativa definizione ombrello. Basta pensare ai primi esempi ottocenteschi, come i narodniki russi, o indagare le pulsioni plebeistiche che precedono e accompagnano per qualche decennio persino l’elaborazione del pensiero marxista e la gestazione del movimento operaio, per disporre di un caleidoscopio di esperienze e di variazioni sul tema. È allora legittimo parlare in senso lato di nuovi populismi? E se sì, quali ne sono i tratti peculiari che li distinguono dai vecchi paradigmi? Ed è legittimo interpretare il viral-populismo come l’espressione di un malessere diffuso in cerca di pretesti per scatenare una rabbia sociale a più ampio raggio? Tenteremo prossimamente, a conclusione del nostro itinerario, qualche provvisoria e parziale risposta.

NICOLA R. PORRO

Di Cesare Donatella, «Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo», L’Espresso del 20 dicembre 2021 e «La matrice del negazionismo», La Stampa del 12 gennaio 2022.
Weber Max, La politica come professione, (ebook), con un’introduzione di Massimo Cacciari, Milano, Mondadori Libri S.p.A., 2017 (edizione tedesca originaria 1919).