Che Papa che fa…dell’umorismo!

di CATERINA VALCHERA

Non sarà sfuggito agli ascoltatori- data anche l’eccezionalità dell’evento televisivo – che papa Bergoglio nelle parte conclusiva del suo colloquio con Fazio nella trasmissione di domenica scorsa ha fatto riferimento all’umorismo come risorsa euforistica, come chiave d’accesso a una diversa e più rasserenante visione delle cose. Non mi è sembrato un congedo improvvisato, tanto per chiudere sorridendo l’intervista a cui si è sottoposto, quanto piuttosto uno spunto paternamente offerto alla riflessione generale. Tra l’altro non è certo la prima volta che Francesco indulge al ridicule, come quando ha riso dei “preti con la faccia della beata Imelda”, suscitando scandalo e riprovazione proprio da parte degli “spiritualisti esagerati” che erano bersaglio di quella sua sorprendente comparazione con la mistica santa. Vorrei tornare  sul suo invito all’umorismo, un concetto e una pratica su cui in molti hanno speculato, tentandone una definizione, ma comunque ragionando sulla sua funzione, sull’effetto che questa dote squisitamente umana riesce a produrre. Probabilmente Bergoglio ha inteso proporre dell’umorismo un adattamento cristiano, una versione addolcita e non dico banalizzante, ma certamente meno complessa di quella che proviene da altri fronti, per esempio dalla riflessione psicologica, estetica e letteraria. Frutto, secondo Pirandello, di “quella macchinetta infernale che si chiama logica”, l’Umorismo è il baricentro della poetica del grande scrittore e drammaturgo siciliano, “figlio del Caos” come amò qualificarsi, che lo spiegò ampiamente nel suo saggio come elemento consustanziale al processo creativo: “Ogni pensiero, moto dell’autore, ogni sì fa nascere anche un no che alla fine viene ad assumere lo stesso valore del sì”. L’unità dell’io e dell’atto creativo è minacciata continuamente dall’insorgere di un altro punto di vista contrario e irriducibile al primo. Questa è l’arte umoristica che disgrega, scompone, relativizza. Un relativismo gnoseologico ed estetico drammatico,  molto lontano per le sue ragioni e per i suoi intenti dal bonario umorismo auspicato da papa Francesco, che certo non intendeva identificarsi con don Abbondio, esempio pirandelliano di persona (maschera)umoristica. Lo vedrei piuttosto nei panni di donchisciottesco cavaliere di una chiesa perduta, di valori evangelici traditi, di combattente di cause perse contro i falsi preti. L’umorismo che intende Bergoglio è infatti una virtù cristiana e consiste nel sorriso moderatore dei conflitti, nell’autoironia che abbassa albagia e superbia, nel dialogo aperto e tollerante. In comune con l’umorismo epistemologico e laico di Pirandello e altri cui accenneremo ha soltanto l’attitude alla relativizzazione, l’accoglienza di punti di vista anche opposti al proprio. Ma il dogma non è assoluto? E se non si incarna nella mondana cera a cosa serve per l’umana vita? Bergoglio ha in sostanza ricordato che un sano umorismo, in questo teatro di haters improvvisati e sprovveduti, è un dono, un’attività spirituale. La dignità del Witz, cioè del motto di spirito arguto, prima ancora della magistrale interpretazione e casistica che ne offrì Freud, aveva trovato il sostegno teorico e creativo in un grande umorista -citato per l’appunto da Pirandello- Jean Paul (Richter),che lo connetteva  con forza al principio di libertà: ”La libertà genera motti di spirito e i motti di spirito generano la libertà[..]proferire motti di spirito significa semplicemente giocare con le idee”. Una definizione che possiamo accogliere ancora oggi, anche perché riguarda non il singolo motto, ma la capacità di giocare con le parole e i pensieri, di non prenderli ( e quindi non prendersi) troppo sul serio. Come poteva un gesuita come Papa Bergoglio non ammettere nel suo orizzonte mentale e morale la potenzialità dell’umorismo contro la rigidezza della “faccia funerea”, auspicandone l’uso anche nella comunicazione ecclesiale? Direi che proprio la parte finale della sua intervista sia stata apprezzabile anche per le orecchie di un laico, il quale sa che si dà umorismo e ridicolo solo in presenza di oggetti seri: “A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio e d’importante” (Leopardi, Zib.1393). Si tratta della perenne attualità del paradosso. Secondo Bateson l’umorismo funziona proprio perché ci immette in una paradossalità, in uno sdoppiamento e richiede da parte del soggetto/ attore sociale la capacità di esercitare un’arte  sottile e difficile,  difficilmente massificabile. Per questa ragione oggi ne abbiamo un gran bisogno. L’Homo sapiens è innanzitutto homo ridens, pour ce que le rire est le propre de l’homme ( Rabelais), anche di  quello che porta sul capo una papalina bianca (e “umoristicamente”  storta).