Biondo era e bello e di gentile aspetto

di LUCIA SCAGGIANTE

In un 9 febbraio come oggi, 173 anni fa, presso il Palazzo della Cancelleria, dopo un dibattito civilissimo e ardente durato molte ore, all’una di notte fu proclamata la Repubblica Romana. Di tutte le pagine della nostra vicenda risorgimentale, quella della Repubblica Romana resta forse la più esaltante e la più pura.

Era nata da un forte coinvolgimento di popolo: Margaret Fuller, prima donna inviata dal “New York Tribune” a testimoniare i fermenti politici italiani, osservò che in tutti i territori dello Stato Pontificio le elezioni indette a suffragio universale maschile per formare un’Assemblea Costituente avevano registrato afflussi alle urne in percentuali superiori a quelle del suo paese che pure, in quegli anni, nella partecipazione elettorale riconosceva un vero e proprio motivo identitario. L’Assemblea mise a punto una Costituzione ispirata ai principi di libertà, democrazia e laicità, così limpida nel dettato che sembrava aver assunto la forma stessa della lealtà, così moderna nella concezione che cent’anni dopo sarebbe servita da modello alla Costituzione italiana. Quanto poi fu generosa e appassionata la difesa della Repubblica, questo è entrato nella leggenda – quanto struggente ed epica e fiera la sua dignità nella sconfitta.

Io non sono una storica, e quindi non posso aggiungere nulla a quanto in materia è stato già ricostruito, analizzato, esposto e discusso con larghezza, profondità e rigore di metodo. Nulla, se non la mia adesione commossa di cittadina e il mio affetto, così, con molta semplicità, mi viene da dire, per gli uomini e le donne che hanno tracciato questa strada di libertà. Eppure una storia vorrei raccontarla, una storia poco nota che inizia in  provincia e in realtà è stata anche in parte studiata e scritta, ma ha circolato nei limiti brevi degli studi locali, e poi è stata come dimenticata; una storia che nei suoi risvolti privati riguarda la mia famiglia e, ultima della fila, arriva fino a me.

Augusto Bertoni nacque a Faenza l’8 novembre 1818. Nelle vene gli scorreva sangue giacobino: durante gli anni irrequieti delle campagne napoleoniche in Italia, – rapide incursioni trionfali, pericolosi e continui ribaltamenti di potere – suo nonno Vincenzo, suo zio Camillo e suo padre Giuseppe avevano subito persecuzioni e nel febbraio del 1800 un processo per “giacobinismo e marcata democrazia repubblicana”. Condividere la loro passione politica gli fu dunque naturale, ma negli ambienti cittadini si fece conoscere soprattutto perché scriveva. Poesie, articoli su periodici come “L’imparziale”, che si stampava a Faenza, e il romano “Il Popolare. Giornale di istruzione e di educazione del popolo”, drammi ispirati ai romanzi storici di Francesco Domenico Guerrazzi. Nel ’45 diede appoggio alla cospirazione che portò allo scontro delle Balze, carbonari contro pontifici ai confini tra la Romagna e la Toscana; intanto era entrato nella Giovine Italia e allo scoppio della prima guerra di indipendenza si unì a una colonna di volontari faentini che parteciparono alla difesa di Vicenza, dove rimase ferito.

Poi a Roma si fece la Repubblica. La notizia arrivò a Faenza due giorni dopo la proclamazione, la sera dell’11 febbraio, proprio mentre stavano andando in scena  I due Foscari di Giuseppe Verdi. Interrompendo la rappresentazione, in mezzo ai cantanti accorsi  tutti festosamente alla ribalta, fu il baritono Mauro Zacchi, le vesti del doge Francesco indosso, a leggere i quattro articoli del decreto nel silenzio sospeso del pubblico, che alla fine si sciolse in esultanza. Nel calore del momento, con pari,  ottocentesca teatralità, da un palco di proscenio gli fece eco Augusto, improvvisando una strofa che inneggiava all’indipendenza italiana. Suo fratello Giacomo doveva essere già a Roma, deputato neoeletto alla Costituente.

Lui, non è sempre facile seguirlo. Le fonti permettono di comporre un mosaico di azioni e spostamenti che rimane tuttora lacerato da strappi e da lacune. È certo che, sostenitore attivo e appassionato della Repubblica com’era, fu determinato a difenderla. Mentre Roma continuava la resistenza dopo la folgorante reazione al primo attacco francese del 30 aprile e gli Austriaci varcavano in forze massicce il confine delle ex Legazioni per riprenderne possesso “in nome del Papa Re”, nei municipi vennero infatti mobilitati i battaglioni delle guardie nazionali per sbarrare loro il passo e  presidiare la Repubblica, le sue istituzioni e le sue leggi; Augusto faceva parte del piccolo battaglione faentino, composto di 356 uomini, col grado di tenente. Per tutta risposta il feldmaresciallo Wimpffen, giunto a Imola il 18 maggio dopo aver espugnato Bologna, intimò la resa minacciando di bombardare le città. Fermarne l’avanzata fu impossibile.

Ma un poemetto composto più tardi sull’onda dell’emozione che la fine di Augusto suscitò – In morte di Augusto Bertoni si intitola, fu pubblicato a Torino in forma anonima da un esule toscano che si dichiara suo amico e compagno di ideali – un poemetto dicevo, lo descrive accorso alla difesa del Campidoglio, nell’infuriare di una sanguinosa e disperata battaglia sotto le mura che potrebbe essere quella del 3 giugno oppure la conclusione stessa dell’assedio. O magari, sintesi di entrambe. Se già non era partito prima dell’invasione austriaca, allora dovremmo anche immaginare fra quali peripezie potrebbe aver raggiunto la città, attraversando territori occupati da truppe nemiche.

Quando Roma fu perduta, per molti la sorte mutò. Subito riprese i contatti segreti con i gruppi di cospirazione romagnoli, ma in breve fu allontanato dal lavoro per causa politica e quindi ricercato dalla polizia. Furono anni di clandestinità, di fughe e di miseria, vissuti vagando tra la Svizzera e Genova. Ci dovette essere, non sappiamo quando e come, anche un incontro personale con Mazzini, che nelle sue lettere parlò ben quattordici volte di lui, sempre con grande considerazione. “È uno dei migliori nostri”, scrisse, e arrivò a raccomandarlo a sua madre incaricandola di mandargli denaro per suo conto. Lui non si risparmiava: i suoi interventi sul giornale mazziniano “Italia e Popolo” gli attirarono un provvedimento di espulsione da parte del governo sabaudo a cui si sottrasse rimanendo a Genova di nascosto, e quando nel 1853 un drappello di repubblicani convinti – dei cosiddetti “puri”, quelli che rifiutavano, a differenza dei “fusionisti”, di venire a patti con Cavour – partì per Roma, si imbarcò insieme a loro. All’orizzonte c’era un’insurrezione che il bolognese Giuseppe Petroni vi stava preparando e che, nelle speranze, a Roma doveva soltanto cominciare. Non fu così.

Scesero nei pressi di Fiumicino il 13 luglio, penetrarono in città, si unirono agli altri affiliati. Ma il 22 luglio cominciarono gli arresti. Augusto fu catturato il 6 del mese seguente e tradotto nelle carceri di San Michele a Ripa. La mattina del 29 ottobre lo trovarono impiccato all’inferriata della sua cella, il collo stretto da una sciarpa di seta.  Si disse a Faenza che era opera degli “sgherri del papa”, ma un altro faentino prigioniero rivelò che negli ultimi tempi era apparso amareggiato dalle delusioni e sfinito dagli interrogatori estenuanti, nei quali, fra l’altro, gli veniva mossa l’ingiusta accusa di aver istigato delitti in Romagna. Forse l’opprimeva l’angoscia di non reggere, di portare i compagni alla rovina.

Il cospiratore mazziniano Augusto Bertoni era primo cugino del mio trisavolo Elio: erano figli di fratelli, rispettivamente di quei Giuseppe e Camillo cui fu intentato un processo politico qualche mese prima della battaglia di Marengo. Elio era più giovane di sei anni e doveva ammirarlo molto, perché alla sua morte dettò un’epigrafe in suo onore, ottenendone per conseguenza l’interdizione a mettere piede nella capitale, e in seguito, dopo la breccia di Porta Pia, scelse per la propria figlia il nome di Romana. Rimase vedovo quando la bambina aveva solo quattro anni, e assai preso dal suo lavoro di medico, secondo un’abitudine del tempo si risolse di mandarla in collegio dalle suore. E dev’essere sopraggiunta fra quelle mura una svolta inattesa del nostro ramo della famiglia, che da fieramente anticlericale si ritrovò cattolico. Non dubito che le suore si saranno intenerite per quella piccola orfana, che era minuta e delicata, forse di carattere ombroso, e che l’avranno circondata di premure – lei ne conservava un caro ricordo – ma sono altrettanto certa che avranno voluto tesserle attorno un mondo ben diverso da quello in cui era nata. A cominciare dal suo nome, che non veniva usato mai, quasi avesse  il potere segreto di evocare la tempesta. La mia bisnonna fu sempre e per tutti Rina. Di fatto sembra che col tempo, per mosse impercettibili, sia stata esercitata una specie di rimozione famigliare della memoria. Mia madre raccontava che nella sua infanzia, le poche volte in cui la conversazione cadeva su Augusto, si avvertiva una  reticenza strana e c’era sempre qualcuno pronto a sviare il discorso. Suppongo che  non si fosse nemmeno al corrente di cosa di preciso aveva fatto: bastava l’idea tenebrosa della sovversione e del suicidio a creare disagio e suggerire il rifiuto.

I fili li riannodò mia madre. Successe quando era già un po’ avanti negli anni e non è raro sentire il desiderio di rimettere a posto le storie e risalire alle proprie radici. Lesse, si emozionò, collegò, diede un senso ai comportamenti con saggezza e con amore, vide chiaramente quello che forse aveva intuito da bambina senza rendersene conto; stabilì con me una complicità bellissima nella fascinazione per quel personaggio dall’aura romantica che poteva essere un eroe di famiglia e non lo era stato.

Ora non so più da quale fonte, era risultato che fosse stato sepolto ai margini del Verano. Quando mi trasferii a Civitavecchia, mia madre mi disse: “Vacci, al Verano,  appena puoi, cerca la tomba di Augusto. Vorrei che gli portassi un fiore per me”. Sono andata, mi sono arrangiata nelle ricerche come ho meglio potuto, ma non sono arrivata a niente. Un oppositore politico, un suicida per giunta, chissà cosa hanno fatto di lui anche dopo. Te lo ricordi, mamma, il funerale di Manfredi, lo scomunicato? A luci spente, nella terra di nessuno, ossa che non dovevano aver pace mai.

Le sue poesie, però, le ho trovate. Aveva ventisei anni. Mi aspettavo la retorica risorgimentale, toni frementi. Invece, nella patina del suo secolo, c’erano situazioni e motivi intimisti, cadenze sommesse. E si dice, lo so bene, l’ho detto anch’io mille volte ai miei studenti, quando si legge un libro si entra in contatto con un essere umano. Ma non mi era mai capitato di sentire con tanta intensità la vicinanza,  quasi la presenza fisica di chi l’aveva scritto. Raccoglievo ogni singola parola come quando, centimetro per centimetro, si percorre un viso sconosciuto, cercando di raggiungerne il mistero. Ho incontrato un uomo gentile, malinconico, dolce.

LUCIA SCAGGIANTE

  •  “Faenza ha dedicato alla memoria di Augusto Bertoni un’associazione culturale presieduta da Alberto Fuschini”.