“OLTRE LA LINEA” A CURA DI SIMONETTA BISI E NICOLA R. PORRO – In guerra con la modernità: il populismo come volontà e come rappresentazione (III)
di NICOLA R. PORRO ♦
Abbiamo sin qui esaminato gli ingredienti base di quella subcultura no vax che ho definito una specie del genere populismo. Il suo atipico profilo sociologico – una galassia priva di leader, di organizzazione, di identità ideologico-culturali – autorizza allora a considerarla lo stadio aurorale di un movimento destinato a sopravvivere alle contingenze rappresentate dalla pandemia e dalla mobilitazione antivaccinista? L’insofferenza nei confronti di non meglio identificati saperi e poteri forti, un’identità costruita al negativo – «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» -, una rappresentazione del conflitto di tipo rudimentale e binario (noi-loro, buoni-cattivi, amici-nemici) bastano a connotare la protesta no vax come un movimento in gestazione, disegnato sul profilo culturale della postmodernità? Allo stato ogni risposta sarebbe prematura. Il rifiuto di un’affiliazione ideologica, ad esempio, non confligge necessariamente con forme di azione collettiva ma nemmeno dà vita di per sé a un modello culturale. L’insorgenza no vax sembra piuttosto bisognosa di individuare un nemico da trasformare in bersaglio e di elaborare una narrazione alternativa a qualunque verità ufficiale. La sola verità accettabile è quella partorita da un immaginario a tinte paranoiche che contesti le “mendaci verità” della scienza ufficiale proponendo una rappresentazione alternativa. La stessa aggressività verbale dell’offensiva no vax è spiegata dagli psicologi come una strategia di reazione utile a lenire le ferite narcisistiche inferte dall’evidenza dei fatti al fragile ego dei dissidenti. Da qui il rancore antiscientista e il risentimento che gli odiatori no vax (hater) hanno riversato nella stagione del lockdown contro chiunque ne contestasse le fantasiose teorie. L’isolamento personale, del resto, ha non solo impoverito le relazioni sociali ma le ha anche esasperate. La solitudine, e specularmente una protratta forzata convivenza nei confini angusti delle mura domestiche, hanno prodotto una dinamica a due vie. Prima l’elaborazione dell’idea di una vasta e solidale comunità dei resistenti: i giorni dei balconi imbandierati, dei canti alla finestra, delle frecce tricolori nel cielo di Roma. In sostanza: una simulazione della mobilitazione emozionale tipica delle guerre (o di quella simulazione della guerra rappresentata dal tifo calcistico). Poi lo sfinimento dell’attesa mentre si andava sgretolando la percezione stessa di appartenere a una comunità. La resistenza alla pandemia, del resto, mancava di quel fattore cruciale, presente invece nelle guerre, che ci oppone a un “altro da noi”, rappresentato dall’esistenza materiale di un nemico e insieme dalla sua rappresentazione simbolica ed emozionale. Non si prestava evidentemente allo scopo la maligna ma impersonale presenza del virus.
Nella fase di lenta e sofferta fuoriuscita dalla prima emergenza comincia così a svilupparsi una dialettica antagonistica fra le vittime della pandemia delineando quello che, mezzo secolo prima, l’antropologo scozzese Victor Turner (1974) aveva definito dramma sociale. Prende cioè forma una sorta di teatralizzazione del conflitto in cui alle tesi pro vax – sostenute dalla stragrande maggioranza dei ricercatori e fatte proprie dalle istituzioni sanitarie – si oppone una propaganda no vax centrata non tanto su contestazioni di merito quanto piuttosto sulla delegittimazione del principio stesso di autorità scientifica in quanto tale. Quella che si profila assomiglia a un’inedita rivolta biopolitica che concorre al progressivo sgretolamento della reattività collettiva, e di quel simulacro di solidarietà comunitaria che la resistenza alla pandemia aveva inizialmente ispirato. I social restituiscono il profilo un’umanità dispersa (gli odiatori seriali, i devoti di verità misconosciute, i profeti di credenze a presa rapida), non di rado mascherata dall’anonimato. Il dramma sociale sarà inesorabilmente declinato nei termini di una incomponibile e teatrale opposizione amico-nemico e nella celebrazione eroica della resistenza alla presunta dittatura sanitaria. Sino a identificarne senza pudore i protagonisti con le vittime delle persecuzioni naziste, con tanto di stella di David appuntata su finte divise di deportati. Questa narrazione, insieme insolente e vittimistica, sarebbe stata classificata da Turner come un perfetto esempio di azione simbolica. Grazie alla quale, specie se protetti dall’anonimato della rete, è possibile e lecito scatenare la più belluina aggressività verbale contro chiunque – non solo i detestati santoni della scienza ufficiale – rifiuti di assecondarne i deliri. Se i semiologi si stanno cimentando con l’analisi della neolingua no vax, gli studiosi di scienze sociali si concentrano invece sulle caratteristiche di una comunicazione affidata quasi esclusivamente ai social media: strumenti perfettamente funzionali a quel caposaldo dell’ideologia neopopulista, in tutte le sue espressioni, rappresentato dal rifiuto di qualsiasi forma di intermediazione. Dove l’auspicata disintermediazione si configura come comunicazione diretta, autogestita e a flusso costante. Sottratta per definizione a ogni controllo, a ogni verifica (e a ogni responsabilità), la fede nelle virtù salvifiche della disintermediazione aveva trovato in Italia applicazione politica nella teoria dell’”uno vale uno” predicata dal grillismo delle origini. Emancipata da ogni autorità, la polemica antiscientista nel tempo della pandemia aggredisce le tradizionali strategie di contenimento dell’ansia e dell’incertezza messe in atto dalle fedi religiose e dalla scienza. Le prime postulando l’esistenza di un aldilà, e quindi di una vita oltre la morte fisica; le seconde costruendo un sistema fondato sulla ragione e su un’idea di conoscenze in continuo divenire. La fede religiosa, però, offre certezze solo a chi è disposto a credere. La scienza, dichiarandosi a servizio di tutti, muove invece dal dubbio, dall’insoddisfazione, dalla stessa consapevolezza della criticità e dei limiti della conoscenza. Quella che prende forma attraverso la delegittimazione della scienza rappresenta il surrogato di un’ideologia universalistica. Il medium – la rete antagonistica – si sovrappone al messaggio (la contestazione no vax). La labile consistenza del movimento antivaccinista ne fa un possibile esempio di comunità immaginata del tipo descritto già nel 1983 da Benedict Anderson (1996).
Nelle società secolarizzate della modernità la scienza ha tuttavia generato anche una sorta di «fede laica», una forma di aspettativa salvifica nelle «magnifiche sorti e progressive». Nemmeno la rivoluzione epistemologica del Novecento – si pensi alle implicazioni etico-filosofiche della «relatività» einsteiniana o del «principio di indeterminazione» di Heisenberg – è bastata a rimuovere questa concezione liquidandola come residuo o derivazione della prima rivoluzione scientifica. Siamo però consapevoli del fatto che gli scienziati non possono che offrire «ragionevoli certezze», ovvero coltivare l’ossimoro di «verità probabilistiche», passibili di confutazione, incapaci di spiegare ogni cosa e di fornire risposte univoche e definitive a ogni problema. Procedendo nel suo cammino la scienza misura anzi l’estensione dell’ignoto e la profondità della nostra ignoranza. Restituendo attualità, a distanza di duemilacinquecento anni, alla socratica virtù di chi «sa di non sapere». La scienza moderna, sin dal XV secolo, ha tuttavia accreditato spesso l’equazione fra sapere e progresso esaltando la funzione sociale e il primato etico dello scienziato-benefattore. Pretesa non infondata se solo pensiamo a quante malattie siano state debellate dal lavoro degli scienziati, come attestano aspettative di vita impensabili per le passate generazioni. La figura dell’esperto ha trovato posto nel pantheon della religione dell’umanità evocata da Comte nelle prime decadi dell’Ottocento, ma la laica divinizzazione della scienza ha prodotto anche effetti inintenzionali. La scienza medica, in particolare, pur nel meritorio intento di placare l’ansia dei pazienti, ha forse prodotto una rimozione diffusa di dubbi, incertezze e limiti che potevano incrinare la fiducia nel “sistema della salute” in quanto tale. L’antiscientismo no vax si è non a caso accanito contro il presunto fideismo dei saperi, con l’effetto di generare sospetti infondati, allarme diffuso e persino il venir meno di quelle relazioni fiduciarie che nei sistemi complessi sono indispensabili per esercitare qualunque attività professionale. Trasformatasi in una gabbia di pregiudizi, la protesta ha via via privilegiato come proprio campo di azione la delegittimazione della scienza. Si è cioè costituita in un’ideologia della «chiacchiera quotidiana»: il vaccino può essere nocivo, può dare effetti secondari, non garantisce l’immunità… Una diffidenza che rivela l’incapacità di sopportare l’incertezza e di gestire quella straordinaria risorsa umana rappresentata dalla paura, sensore di pericoli che induce a prendere misure per evitarli. Quando però alla base della paura c’è la pura incapacità di sopportare l’incertezza, essa si trasforma in panico paralizzante e nella costruzione di pericoli immaginari. Anche quando si ammantano di improbabili controverità, narrazioni alternative e visioni complottistiche rispondono insomma alle paure e al bisogno di certezze non diversamente del fraticello convinto che nei vaccini anti-Covid19 si annidi lo zampino del demonio.
Come spiegare, tuttavia, l’intensità e la diffusione di una sindrome paranoica in società sviluppate e mediamente scolarizzate? Come conciliare con una rappresentazione razionale della condizione umana un disincanto prodotto non dai progressi del sapere bensì dalla sua negazione? Cosa spiega o legittima convinzioni e comportamenti refrattari a qualsiasi evidenza empirica? È mai possibile liquidare come fake news la dimostrazione che i vaccini riducono la diffusione dei contagi e che i non vaccinati presentano assai maggiori probabilità di contagiarsi, di rischiare terapie intensive e, più brutalmente, di lasciarci le penne? Si è già osservato come le cosiddette variabili strutturali (età, genere, grado di istruzione, origini sociali, appartenenza etnica ecc.) con le quali la sociologia si sforza di spiegare – o quanto meno di classificare – i comportamenti collettivi non sembrano in grado di illuminarci sulla genesi e lo sviluppo del fenomeno no vax. Può darsi che gli psicologi siano in grado di proporci qualche ipotesi di spiegazione, riconducibile ad esperienze infantili nel rapporto madre-bambino o padre-bambino che non hanno reso possibile la formazione di una fiducia primaria nei confronti del mondo. Non sono in grado di valutare l’affidabilità di queste spiegazioni, mi fido delle ricerche della psicologia infantile ma, non possedendo competenze in materia, posso solo limitarmi a farvi cenno. È comunque assai plausibile che la propensione alla sfiducia sia alimentata e rafforzata dal fatto che i no vax si percepiscano come una comunità immaginata, costruita attraverso i social ma bisognosa di continue conferme interpersonali. Proprio questa identità fragile può forse spiegarne l’intolleranza verso gli “altri” e l’impermeabilità a ogni smentita suggerita dall’evidenza. Una comunità che, di nuovo, assume i tratti di una setta religiosa in un mondo di infedeli.
NICOLA R. PORRO
Nicola, complessa la tua analisi sui movimenti di azione collettiva e i cicli di protesta. Comprendo la visione deformata dal medium, che è la Rete antagonista(un tempo avremmo detto “falsa coscienza” come ideologia).
Ho difficoltà a comprendere il titolo”come volontà e come rappresentazione”, a meno che tu non mi spieghi la comparazione con la filosofia di Scho:
Soggetto – Maja-Le cose-l’essenza.
Non penso che tu voglia comparare l’esistenza di una realtà assoluta, insondabile mistero per la conoscenza intellettiva in Scho con le fantasiose teorie e la comunità immaginata dei
no vax.
Interessante la costruzione del dramma sociale secondo Turner e la rivolta biopolitica sfociata nella rete come dittatura sanitaria. Un tempo mi interessava Foucault, ma ora per scaramanzia lo evito… Sarebbe interessante una tua analisi della biopolitica nello strutturalismo(credo) di Foucault alla luce della fenomenologia dei no vax.
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Il richiamo a Schopenauer si limitava all’associazione linguistica fra volontà (azione antagonistica) e rappresentazione (la narrazione populista della pandemia) senza implicazioni a piangere ampio raggio.
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