IL BRACCIALETTO

di ANGELO SIMONE CANNATÀ ♦

Ho comprato un congegno elettronico. E sì, ci tenevo tanto ad averlo.

Grazie all’elettronica oggi si può fare di tutto e di per sé sarebbe una gran bella cosa, se non fosse che poi quando queste moderne diavolerie si guastano e le porti a riparare, la maggior parte delle volte ti dicono: «È la scheda». La scheda elettronica si intende, e allora son dolori.

A causa di una “scheda” bruciata ho visto vacillare uomini grandi e grossi. Uomini coraggiosi.

Alcuni di loro, piuttosto che correre il rischio di dover spendere una fortuna con questi costosissimi circuiti, sarebbero rimasti volentieri alla preistoria. Alla luce a gas, alla trazione animale, al colombo viaggiatore, al fonografo a manovella.

Basta. Mi serviva e l’ho comprato, il congegno dico. Non ho badato a spese.

Si tratta di uno speciale braccialetto che, indossato sul polso sinistro, ogni volta che stai per dire «Ai miei tempi», interviene trasmettendo al corpo una fastidiosa scossa allo scopo di dissuaderti dal farlo. Da giovane non ne avrei avuto bisogno, ma adesso si, mi capita spesso di sentirne la necessità.

Non sia mai! Se c’era una cosa che mi infastidiva quando ero ragazzo, erano gli anziani con licenza di  “Ai miei tempi”.

Non è ragionevole che ai tempi loro tutto fosse meglio, mi dicevo.
Ognuno si faccia i tempi suoi! Possibile che non ci sia mai sincronia tra il tempo che si sta vivendo e il miglior tempo possibile?

Niente, sembra una maledizione.

Uno se ne sta beato e tranquillo nel suo tempo e deve venire a sapere che invece no, il tempo nel quale era meglio stare è già passato e a noi non è stato dato di viverlo.

Ma che rabbia!

Con il braccialetto sono a posto, non posso cadere in tentazione.

Perché anche a me, lo confesso, a volte verrebbe da dire «Eh… ai miei tempi sì che si stava bene!».

Invece taccio, mi mordo la lingua. Adesso col pensiero della scossa elettrica ci sto doppiamente attento.

Non bisogna poi dimenticare che io sono un soggetto a rischio, questo va detto, perché sono nato e vivo a Civitavecchia, una città dove non solo i tempi migliori erano quelli di una volta, ma anche tutto quello che c’era, dalle fontanelle sulle vie, ai palazzi, era molto meglio prima.

Colpa della guerra che qui, più che in altri posti, ha creato un “prima” e un “dopo” che non hanno quasi punti di incontro tra loro.

Mi prende una tristezza quando ci penso…

A sentire gli anziani, ma anche soltanto quelli che da loro lo hanno sentito dire e lo ripetono sulla fiducia, non c’è una sola cosa di oggi che sia venuta leggermente meglio di come invece era stata fatta in passato.

Una festa cittadina? Un’usanza? Un quartiere, una strada, un teatro, una piazza? Non esiste niente in questo posto che non abbia conosciuto in passato momenti decisamente più fortunati.

Persino i biscottini di Natale, certi innocui dolcetti tipici della nostra tradizione cittadina che puoi trovare solo nel periodo di questa santa festa, a detta di alcuni erano più buoni una volta. Sulla ricetta antica, quella “vera”, non c’è certezza. Forse è andata persa, non si sa. A volte penso che l’abbiano fatta sparire proprio quelli di “una volta” per il solo gusto di intossicarci il presente.

Io da ragazzo avevo dato per scontato che nel 2000, quando avrei avuto giusti giusti quarant’anni, con la scomposizione della materia o con qualunque altro mezzo tra quelli utilizzati nei giornaletti di fantascienza che amavo leggere, avrei potuto viaggiare in lungo e in largo, nel tempo e nello spazio, a mio piacimento.

Cos’era meglio, la festa della Santa Patrona dell’Ottocento col famoso “gettito delle anitre” in darsena e i marinai che si tuffano in acqua per catturarle? Allora restateci voi, belli miei, in questo tempo. Beccatevela voi la fastidiosa voce nasale e gracchiante del sacerdote in processione con l’altoparlante. Io parto. Vado.

La processione me la vado a gustare quand’era meglio di come sarebbe diventata.

Entro nella navicella, col comando vocale seleziono l’anno, il giorno e l’ora del mio arrivo e vi saluto, carissimi!

«Torni per cena?».

«Se non mi vedete per le 20 mettetevi pure a tavola».

Eppure, sotto il controllo spietato del braccialetto anti “ai miei tempi”, il passato mi piace raccontarlo.

Senza dargli un punteggio, un valore di paragone, senza che questo annulli il passato prossimo o il presente, ma solo per il gusto di trasmetterlo a chi non l’ha conosciuto.

Mi piace scriverlo, ma soprattutto raccontarlo ai miei piccoli nipoti. Mi piace immaginare che in un giorno lontano nel tempo futuro, quando inevitabilmente inizieranno gli scavi archeologici nella loro memoria, tra le soffici sabbie e gli strati più duri delle sovrapposizioni dei giorni trascorsi, oltre alla loro storia trovino anche un po’ della mia.

Cosa rimarrà tra le maglie del loro setaccio? Forse un gettone del telefono, la maniglia rovente di una valvola sul tubo dello scarico dei fumi di una stufa a legna, una figurina animata del formaggino Mio.

Oppure la storia antica di un Natale del tempo passato o quella del primo giorno di scuola di un bambino di una volta.

Sarà importante? Dico per loro. Non so. Appartengo alla generazione della storia tramandata col racconto orale degli anziani. Ma non la “Storia” importante, quella che puoi leggere anche sui libri, ma quella minima di tutti i giorni. La storia delle famiglie, della gente, degli operai malpagati, degli emigranti, del pane che lievita nella madia. La storia appena sussurrata di tutti gli Eroi dimenticati, persone comuni i cui nomi non hanno trovato posto in nessuna lapide di marmo, eppure hanno reso possibile questo presente, bello o brutto che ci sembri.

A volte parlare del passato ci imbarazza, ci fa sentire vecchi.

E allora?

I vecchi non sono degli ex giovani rincoglioniti, ma sono un valore.

Non lo dico adesso che il vecchio sono io, ma ne avevo coscienza già da bambino quando in rispettoso silenzio, al CRAL della borgata, mi mettevo ad ascoltare le storie di vita, di fame e di guerra del “Toscano”.

Mordeva il mezzo sigaro e lo sputava sul pavimento sale e pepe quando raccontava le botte che gli avevano dato ì fascisti e in quell’atmosfera di dolore anche le mosche smettevano di gironzolare in tondo sui bordi dei bicchieri dolci di Folonari frizzante.

Angelino invece quasi non parlava. Comunque se lo faceva non si capiva, nel suo abruzzese stretto. Aveva una Gilera rossa e viveva con poco, raccogliendo cicoria e lumache nei campi perché le ditte dove aveva lavorato come manovale non gli avevano versato i contributi.

Qualche sera che aveva alzato un po’ il gomito era la Gilera che lo accompagnava a casa, perché conosceva la strada.

Sarà stata lei a portarlo in paradiso col suo motore quattro tempi e quando sarà arrivato, con quella bocca oscena e col suo unico dente, avrà detto: “Eccomi Dio, io non sono nulla”.

E invece più di mezzo secolo dopo, è ancora qui dentro di me.

Forse quel braccialetto lo getterò nel mare.

ANGELO SIMONE CANNATÀ