Vezzi e svolazzi dell’italo eloquio

di CATERINA VALCHERA

Vorrei una volta per tutte esprimere un mio disagio personale, un disagio acustico, sensoriale e ormai anche psichico nei confronti di un inciso tanto caro agli oratori televisi, agli opinionmakers  dei nostri giorni,  che  tanto  indulgono all’uso di questa parentetica, diventata ormai svolazzo linguistico ricorrente. Parlo del “come dire” nazionalpopolare. Il cicaleccio mediatico quotidiano non può più farne a meno da anni: così, oltre a deprimere con regolarità il livello già basso del libero confronto di idee, i parlatori dei giorni feriali, si adoperano con ogni mezzo a inoculare nel parlato nostrano medio-alto ( o presunto tale) un virus espressivo che del tutto innocuo alla fine non è. Avrei voglia di risalire alle origini di questa pandemia, di scoprire chi è stato il primo ad usarlo! Chi, incautamente, ha fatto uscire dal suo laboratorio linguistico questo intercalare che ha contagiato tutti, nessuno escluso, fino a diventare ossessivo, reiterato, nevrotico membro spezzato di discorsi spesso altrettanto incoerenti? Più contagioso di “un attimino”, più invadente di assolutamente sì,  regna ormai incontrastato da troppo tempo, in attesa di essere spodestato da un altro disdicevole orpello. Usato inizialmente per prendere tempo al posto di ehm ehm, ora l’inciso vive di vita propria, si erge come simbolo di bell’eloquio (!!), è ormai un vezzo implacabilmente amplificato dai media, è in bocca a virologi, scienziati, politici, sottosegretari, intrattenitori, presentatori. Un vezzo che non dà colore alla frase, ma gliene toglie, la appiattisce sul reiterato e consueto, non risponde ad alcun guizzo innovativo, anzi è portatore di fissità ontologica! La lingua è mobile, si sa ed è giusto che lo sia, la lingua parlata si trasforma molto più rapidamente di quella scritta che è più conservativa, anche questo si sa. Ma l’uso indiscriminato di una parentetica “di appoggio”- così abusata- annoia mortalmente, sabota la fluidità del discorso, è una gabbia sintagmatica, oltretutto di forte sapore autolesionistico. Come dire, dillo senza altri intoppi, o non sei in grado di farlo? Pronunciato ogni tanto sarebbe sopportabile per le orecchie e per il sistema nervoso, ma profuso impunemente ovunque risulta davvero asfissiante. Così procedendo si arriva all’insignificanza, all’opacità dell’espressione, alla detestabilità del diabolico inciso. Non è un vero interrogativo intellettuale, non porta a nessun approfondimento ulteriore, si spalma sull’asfalto del discorso senza suscitare alcun dubbio (che sarebbe grande operazione intellettuale) e generalmente accompagna un concetto prevedibile e consumato, trito e ritrito. E’ ormai uno sbaffo, suona quasi derisorio alle orecchie di chi ascolta scoraggiato. Questo pseudo-marcatore linguistico, solo perché tanto ricorrente richiama lontane espressioni come “ a monte” ,” in misura di” che almeno corrispondevano al senso storico, all’idea di profondità  e di approccio razionale alle cose nel tentativo di darne una valutazione convincente. Quelle espressioni in qualche modo evocavano anche un senso di appartenenza, rientravano in una “cordata” di pensiero e di azioni da tradurre in parole. Come dire  è invece pura retorica o riconoscimento – come dire- umiliante della propria inertia dicendi! Per questa ragione quando l’inciso è fatto proprio – per puro automatismo – da personalità del mondo letterario, dalla cultura un po’ più autorevole che così facendo ne legittima ulteriormente l’uso, la mia stima nei loro confronti subisce un colpo basso, di cui sono la prima a dolermi. E allora mi viene da pensare che dietro questo intercalare si celino l’adesione inconscia ad una zona grigia del pensiero, la rinuncia a un giudizio espresso con autorevolezza e responsabilità, il naufragio nella polta del falso cercare, del finto interrogarsi. La fine del sapere come dire qualcosa.

CATERINA VALCHERA