“ALMANACCO CIVITAVECCHIESE” DI ENRICO CIANCARINI – La moschea e il papasso.

di ENRICO CIANCARINI

“Non v’ha paese in tutta la cristianità, e dirò anche in tutto il mondo, dove gli schiavi siano trattati meglio di qui, e dove vivano con maggior libertà. Anzi questo appunto li rende più temerari che altrove, tanto nella insubordinazione al didentro, quanto nei reclami al difuori”. Così attesta nel 1739 Giovanni Antonio Vidau console di Francia in una relazione inviata ad Algeri. Nella capitale berbera le recriminazioni del papasso della darsena civitavecchiese giungono velocemente: lamenta un pessimo trattamento da parte delle autorità pontificie degli schiavi “turchi”. C’è il serio rischio che gli schiavi cristiani detenuti in quella città subiscano feroci rappresaglie.
Nella darsena del porto civitavecchiese l’autorità religiosa è esercitata dal parroco di Santa Maria, domenicano e vicario del Sant’Offizio; dal presidente dell’Ospizio dei Frati Minori Cappuccini, che si sono conquistati il privilegio di essere nominati cappellani della flotta pontifica grazie al coraggio dimostrato nella Battaglia di Lepanto e negli altri scontri con gli infedeli; ultimo come prestigio ma certo non per autorità è il papasso, cioè lo schiavo eletto dai suoi compagni di sventura per rappresentarli nei confronti delle autorità portuali e per dirigere la preghiera comune nel locale concesso e adibito a moschea.
Oggi sembra poco credibile che nello scalo che svolge la funzione di primaria porta marittima della capitale della Cristianità sia tollerata la presenza di una moschea. Si parla in realtà di un locale, forse una stanza, in cui gli schiavi “turchi” possono liberamente e pubblicamente pregare. La storica Marina Cafiero, che abbiamo già citato per il suo saggio sulla presenza ebraica a Civitavecchia, giustamente ne sottolinea l’eccezionalità e ne mette in luce le ragioni:
“D’altra parte, la presenza sorprendente ma certa, di luoghi di culto e di assistenti spirituali musulmani detti papassi – da papas, il prete ortodosso – nelle galere di Civitavecchia, conferma la tendenza a mantenere gli schiavi turchi nella loro religione e a non incoraggiare le conversioni: e questo oltre che per motivi economici, anche per motivi politici, e cioè per non recare danno ai cristiani schiavi dei turchi. Va notato, in ogni caso, il dato rilevante che perfino a Roma e nel suo Stato un culto pubblico musulmano era tollerato in determinate circostanze, come avveniva a Marsiglia o a Livorno”. Anche a Genova è tollerato il culto da parte degli schiavi “turchi” mentre a Napoli non è consentito.
Sappiamo da un’altra protesta che nel 1707 il locale per le preghiere degli schiavi è destinato per ordine superiore ad uso di bettola. Giunta la notizia a Tripoli, il “Divano” minaccia i francescani in missione nella città berbera promettendogli la prigione e il bastone “colla destruzione di tutta la missione e degli oratori de’ bagni de’ schiavi cristiani, quando non venga restituito a predetti schiavi turchi il luogo come sopra levatoli”.
Nell’archivio di Propaganda Fide c’è un ricco materiale sulla realtà degli schiavi a Civitavecchia.
Il 4 novembre 1709 il missionario cappuccino Francesco Maria da Sarzana da Tripoli implora i superiori che “si ponga rimedio agli inconvenienti in Civitavecchia, acciò non habbiamo a perdere questa missione e la vita; e fare che detto Papasso de schiavi turchi in Civitavecchia sij liberato da detti strapazzi”.
In un’altra lettera del 25 aprile 1719 leggiamo che: “in oltre i loro papassi in detto porto sono rispettati, considerati, e distinti dagl’altri; si lasciano affatto esenti dal travaglio, gli si permette di portare il turbante, che non si concede agl’altri, e di andare per tutta la città, senza che nessuno dica loro ne pur una parola”.
Si diventa papasso per elezione diretta fra gli schiavi, in cui si contrappongono i barbareschi con i levantini. Nello scalo pontificio “i levantini, dei quali si diceva che fossero i più potenti perché servono in rocca” nel 1719 riescono a deporre il papasso maghrebino Alì detto Scarparo. Quest’ultimo invia una vibrata protesta a Roma in cui afferma di essersi “rovinato per haver fatto sotterrare cinquantotto schiavi a proprie spese” e di aver pagato di tasca sua le “feste celebrate sempre del proprio senza aiuto d’alcuno”.
Nel 1726, la presunta scomparsa del papasso mette in agitazione la darsena e preoccupa molto l’assentista Giulio Pazzaglia che ne ha la responsabilità nei confronti della Reverenda Camera Apostolica proprietaria degli schiavi. L’8 luglio è dato ordine di trasportare ai bagni della Ficoncella gli schiavi che secondo il medico hanno bisogno di cure termali. Pochi giorni dopo, il 17 luglio, si teme che il vecchio papasso “mancato alli bagni” sia stato ucciso dai contadini perché aveva indosso una cospicua somma di denaro; inoltre il marinaio che lo aveva in custodia è fuggito.
Ma il 24 luglio il papasso creduto morto si rintraccia e colpo di scena chiede di essere istruito nella religione cristiana.
Pazzaglia il successivo 23 settembre riferisce sulla preparazione al battesimo dello schiavo Amet d’Abdalà di Tituan, già papasso, curata dal parroco e da un altro padre domenicano che conosce l’arabo. Lo schiavo insiste per essere battezzato a Roma e per ottenere la libertà. Due mesi dopo, il 9 dicembre, Pazzaglia scrive a Roma che ha ordinato l’abito di catecumeno per il vecchio Ametto.
Le maggiori notizie sul ruolo del papasso e sulla “società degli schiavi musulmani” a Civitavecchia li fornisce padre Alberto Guglielmotti nel nono volume della Storia della Marina pontificia in cui riporta una lunga lettera del console francese Vidau, datata 4 maggio 1739, la stessa con quale abbiamo aperto questo almanacco.
Nella lettera il console riporta i particolari dell’incontro che le autorità portuali hanno richiesto al Papasso “o sia capo Sceriff dei musulmani, accompagnato dai principali schiavi di questa darsena”. Testimonianza che all’interno della società degli schiavi vige una gerarchia che è riconosciuta anche dalle autorità pontificie.
Viene chiesto loro chi abbia inviato ad Algeri e nelle altre città berbere una lettera in cui si accusano le autorità pontificie e i civitavecchiesi di tre gravi offese arrecate agli schiavi: la prima accusa è scagliata contro alcuni fanciulli civitavecchiesi che avrebbero dissotterrato i cadaveri degli schiavi per trascinarli per “ludibrio” per le vie della città. Il papasso modifica l’accusa, affermando che la verità è che qualcuno, non identificato, ha disseppellito i cadaveri degli schiavi per derubarli dei vestiti e “degli altri oggetti consueti a collocarsi nelle tombe, secondo il rito musulmano”. Miseria su miseria, morale ed economica, a testimonianza di quali erano le condizioni economiche e sociali a Civitavecchia nel XVIII secolo. Le autorità che ascoltano il papasso chiedono se si sospetta qualcuno ed assicurano che se identificati, i “ladroncelli” avrebbero subito un esemplare castigo.
Sempre grave la seconda offesa denunciata: la chiusura della Moschea, così scrive il Guglielmotti, e “i libri della preghiera essere stati gettati nel letamajo”! Nuova conferma che Civitavecchia, principale porto dello Stato della Chiesa, ospita una moschea.
Scrive il console Vidau: “Tutto questo è falso di pianta: non solo perché così confermano il Papasso e i turchi presenti, ma perché Noi cogli nostri occhi propri vediamo sempre aperta e sempre libera ai turchi la Moschea loro concessa, e vediamo quivi conservati i libri consueti, e vediamo farvisi gli esercizi del loro culto con la stessa libertà dei tempi passati”.
Usuale la terza accusa: si parla delle baracche affittate agli schiavi in cui è tollerata la vendita di vari generi, soprattutto tabacco ed acquavite di contrabbando. Spiega Vidau che “gli appaltatori di Civitavecchia qualche volta chiudono gli occhi, e lasciano correre contrabbandi e schiavi, senza esigenze di troppo rigore; ma non possono sempre tacere, né devono sempre favorire il commercio vietato”. Le baracche, dove si vendono generi di contrabbando o dove si evadono dazi e gabelle, continuano ad esistere perché i civitavecchiesi ne sono i principali clienti.
Come già scritto, la presenza degli schiavi “turchi” a Civitavecchia può vantare una ricca e ben documentata storiografia che risulta scarsamente conosciuta in città e che invece rivela aspetti del nostro passato, non così remoto, sorprendenti e particolarmente suggestivi.
 Oggi Civitavecchia ospita di nuovo un luogo di culto per i musulmani, la Moschea El Baraka.

ENRICO CIANCARINI                                                                 

                                                                                                                                        Continua.