Cresima e scarpe rotte.
di VALENTINA DI GENNARO ♦
Ildegonda, per tutti solo Ilde, è del 1910.
È di origini viterbesi, è arrivata a Civitavecchia con la madre dopo che ha perso il padre e il fratello più grande.
Elpidio e Angelo erano andati in America. A lavorare in una cava nella Carolina del Nord.
Moriranno durante il soggiorno a New York prima di arrivare a destinazione. Per mano della “Mano nera”, così diceva mio padre.
Caterina, la madre di Ilde, viene a conoscenza della morte di marito e primogenito.
Con altri quattro figli a casa con lei, sancisce il divieto di nominare più il nome di Elpidio, “omo de vino non vale un quatrino” e poi ha portato a morire lontano migliaia di chilometri da casa il suo primo figlio.
Ilde muore giovanissima a quarantaquattro anni. Poco più della mia età, dopo aver messo al mondo cinque figli. Uno morto poche ore dopo la nascita. Nato a Magugnano, vicino Grotte di Castro: il paesino del viterbese dove tornano mentre Civitavecchia è dilaniata dai bombardamenti.
Già nel 1943 inizia a non godere di ottima salute. Sono appena arrivati in campagna, il medico che la visita le prescrive di mangiare di più e più sano, ma i tempi sono quelli che sono.
Caterina vuole comprare un litro di olio buono per la figlia che non sta bene, si avvicina al nipote, Angelo, chiamato così come lo zio morto migrante. Indossa ancora, con orgoglio di bambino, la mantellina nera dei “piccoli Balilla”, tenuta insieme sul petto da una medaglietta con l’effige del Duce.
La nonna gliela strappa con poca grazia, gli dice: “Me vado a venne sta cazzata da qualche parte!”. Angelo ci rimane molto male.
La sera, è fiera, con il litro d’olio con lei.
Tornano a Civitavecchia a guerra finita. Sistemano le poche cose che hanno con loro.
Il marito non trova lavoro, spala le macerie del Grand Hotel delle Terme, con quei grandi massi, verranno costruiti i palazzi popolari del 1947, nella zona appena più alta della città.
In uno di quei palazzi ora ci vivo io.
Per mangiare “segnano” alla pizzicheria der Sor Pippo.
In questa piccola casa in via Antonio Da Sangallo, le piace ospitare tante persone. Le piace la compagnia di amici e di vicini. Anche degli amici dei figli. A Carlo Alberto cuce i pantaloncini da boxeur con una tovaglia, e non manca mai di fargli trovare un piatto di pastasciutta anche a lui.
Per molti anni la sua storia mi è arrivata dalla voce strozzata di mio padre, quando gli muore la madre non ha nemmeno quindici anni e penso gli manchi ancora adesso. Fuggirà a Viterbo dagli zii materni per qualche settimana, ma Nonno Danilo lo va riprendere: “bisogna stare tutti insieme”.
La sua immagine che ho avuto sempre negli occhi è la foto che sta sulla lapide al cimitero.
E poi, nella mia ricerca continua di nuovi ricordi, ho trovato questa.
È la cresima di mio padre. Sono ancora al “campaccio”. Mio padre felice nella giornata di festa. Il figlio più piccolo in braccio. I visi puliti. Scarpe rotte.
VALENTINA DI GENNARO
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